Un album che propone un flamenco diverso che nasce nella Camargue, nella sud della Francia, terra di gypsies e patria dei Narvalo, un gruppo capace di farci sentire la fierezza del popolo gypsy e la struggente bellezza del flamenco della Camargue.

Dopo la calorosa accoglienza al recente primo volume che raccoglieva i più grandi nomi dell'attuale scena gypsy, tra cui Goran Bregovic, forse colui che più di chiunque altro ha contribuito a rendere popolare nel mondo la musica dei Balcani, casa Arc propone un follow-up sempre a medio prezzo contenente una serie di ricche registrazioni per procedere nel percorso musicale sulle tracce dei gypsies. Un viaggio mozzafiato assolutamente da non perdere che si snoda fra Spagna, Ungheria, Repubblica Ceca, Bulgaria, Albania, Macedonia, Grecia, Turchia, Russia e Rajasthan, arricchito dalle note su ciascuna traccia raccolte nel booklet.

Considerato il più grande cantante flamenco di tutti i tempi, Camaron de la Isla (1951-1992) è nato in una povera famiglia gypsy con ben otto figli: quando uno zio vide il piccolo dalla carnagione chiara, magro ed emaciato esclamò "è così pallido da sembrare un camaron (gamberetto)!": la leggenda ed il suo mito cominciava ad emergere. Ad otto anni José Monge, el Camaron, cantava già in pubblico ed a dodici anni, vinto il primo premio del Montilla Festival, lasciò il suo piccolo paese nell'isola di Leon per la capitale Madrid dove iniziò a lavorare insieme al cantante Miguel de los Reyes ed alla ballerina Dolores Vargas. Il successo arrivò prestissimo facendo diventare quello di Camaron un nome magico per il flamenco: un vero talento ed una rara creatività miscelate ad uno spirito rivoluzionario erano le sue armi vincenti per riuscire a mettere in musica la focosità del carattere spagnolo. Casa Arc propone una rara e storica registrazione dal vivo del 1971 insieme alla chitarra di Antonio Arenas ed al cantante El Turronero che scalderà il cuore dei veri estimatori del flamenco.

Pow wow originali interpretati da musicisti nativi di alcune delle più note nazioni (ai tempi del far west chiamate tribù) del Nord America. Il termine pow wow deriva dalle parole della lingua parlata nell'Algonquin pau wau (egli sogna), il che denota un originario significato religioso e rituale di queste musiche. Ai nostri giorni i pow wow hanno perso il loro significato religioso anche se restano la perfetta occasione per i Nativi per celebrare le loro danze tradizionali, cerimoniali e sociali. "Sacred Dance" propone le musiche della tradizione dei nativi Ojibway (chiamati Chippewa in inglese), Sioux, Lakota/Dakota e Blackfoot (Piedi Neri): un album ideale per scoprire le melodie ed i ritmi degli originari abitanti del continente americano, un popolo saggio che sapeva vivere in grande armonia con la natura, spesso in luoghi dove questa si manifesta selvaggia ed ostile come nel deserto dell'Arizona o nelle fredde distese ghiacciate delle coste canadesi.

Storiche registrazioni del Kihekah Steh Pow-Wow del 1975, tenutosi a Skiatook in Oklahoma, che catturano la magica atmosfera di questo raduno intertribale in cui danze, canti e percussioni sono il mezzo principale per celebrare la riunione. Sono presenti rappresentanti delle tribù Pawnee, Ponca, Quapaw, Osage e Kiowa dalle Southern Plains e delle tribù Sioux, Hidatsa ed Arapaho provenienti dalle Northern Plains. Dettagliate informazioni curate da Charlotte Heth della Cherokee Nation sono disponibili sul libretto.

Un album per apprezzare le incantevoli sonorità del flauto dei Nativi americani interpretato da due dei gruppi più attivi nella riscoperta della tradizione degli originari abitanti del nord America, il Mesa Music Consort ed il Native Flute Ensemble, entrambi composti da alcuni dei più famosi interpreti della tradizione nativa. Tra i vari flauti il più diffuso è senza dubbio quello dolce - di 15/20 cm di lunghezza, molto simile a quello utilizzato in occidente - che tradizionalmente veniva costruito per corteggiare una giovane donna: l'innamorato infatti cercava il legno giusto nella foresta, lo intagliava attentamente - a volta dandogli la forma di uno spirito (aquila, pesce) per conferirgli poteri speciali - e quindi componeva una melodia nuova, qualcosa che nessuno aveva mai sentito...

Questo CD raccoglie interessanti registrazioni fatte nel corso degli anni '50 e '70 a Istanbul, Konya, Ankara e Damasco - città che sono la culla della cultura sufi - e cattura la forza e l'intensità della danza estatica dei dervisci turchi e siriani che eseguono le loro particolari cerimonie (whirling) con l'accompagnamento degli strumenti tradizionali.

Un documento eccezionale curato dall'etnomusicologo Deben Bhattacharya sulle musiche tradizionali dei Sufi delle regioni indiane ed iraniane - molto diverse dalle musiche cerimoniali sufi utilizzate in altre aeree come Turchia e Siria - con rarissime registrazioni originali raccolte negli anni '50, '70 e '90. Un album già musicalmente prezioso arricchito da un booklet con esaustive informazioni.

Uno dei più ammirati e virtuosi interpreti a cui l'India ha dato i natali, Baluji Shrivastav è un maestro del sitar e della musica classica indostana che ammalia il pubblico ad ogni esibizione con la sua grande padronanza dei complessi ritmi di questa musica e la sua intensità improvvisativa. Uno dei pionieri della "Nuova Musica" di compositori non occidentali in Gran Bretagna, Baluji ha molto contribuito allo sviluppo di quest'arte in Europa. Due indimenticabili CD con un libretto ricco di note e spiegazioni sui diversi strumenti indiani e sulla struttura del raga che è forse la forma musicale per eccellenza del subcontinente asiatico.

Il virtuoso interprete di sitar Rash Behari Datta proviene da un'importante famiglia - il padre fu un famoso autore, giornalista e poeta per l'India e sua nonna era una famosa suonatrice di tabla - ed è considerato uno dei preminenti musicisti indiani con all'attivo decine di colonne sonore per film e documentari ed una presenza costante a tutti i più importanti festival musicali oltre che in radio e televisione. Il suo nuovo progetto "Concerto for 20 Sitars" rappresenta il suo sogno finalmente diventato realtà: una composizione basata sul classico "Raga Malkouns" che ha cinque note ascendenti e cinque discendenti e che lascia quindi poco spazio all'artista di creare armonie e contrappunti se non appunto grazie all'uso di 20 sitar che suonano diverse parti mentre vengono mantenuti gli elementi base del raga e della musica classica indiana.