ALCUNE ORIGINI DELLA BELLEZZA
Sotto al cotone grezzo della realtà quotidiana c’è un disegno nascosto.
Tutti gli esseri umani vi sono connessi;
il mondo intero è un’opera d’arte e noi ne siamo parte.
Virginia Woolf ¹
Sebbene l’ingenuità umana produca svariate invenzioni, che corrispondono infine a diverse macchine, non scoprirà mai niente di più bello, appropriato o più diretto della natura, poiché nella sua invenzione niente manca e niente è superfluo.
Leonardo Da Vinci
Nei suoi studi sui beduini, la tribù nomade e cammelliera del deserto arabo, Wilfred Thesiger conferma quanto sia immobile la gente del deserto su ciò che eccitava in lui una profonda reazione emotiva: “Quando siamo tornati da Mugshin l’anno prima – scrive in Arabian Sands (Sabbie Arabe, n.d.t.) - e siamo usciti dal vuoto del deserto sulla cresta della catena del Qarra e abbiamo visto di nuovo i verdi campi e gli alberi e la bellezza delle montagne, mi rivolsi ad uno di loro e gli dissi: ‘E’ bellissimo!’. Egli mi guardò, e poi mi guardò di nuovo e incomprensibilmente disse: ‘No, è un pascolo disgustosamente cattivo.’ E poi Thesiger aggiunge una coda importante sulla quale ritornerò più avanti. ‘Tuttavia, i loro parenti del deserto dell’Hadhramaut (nello Yemen, ndt) hanno sviluppato una architettura semplice, armoniosa e bella.’ ²
La risposta del beduino all’esclamazione di Thesiger sulla bellezza del panorama è confermata dalla mia stessa esperienza con gli agricoltori, i braccianti agricoli e i guardiacaccia, tra i quali io e mia moglie abbiamo vissuto per più di mezzo secolo; loro valutano il loro ambiente maggiormente e comprensibilmente sulla base di un criterio pratico, come per esempio la condizione del suolo ed il tempo atmosferico.
Essi ritengono totalmente logico godere della bellezza della natura – “Bella giornata, vero?” direbbe il mio vicino Geoffrey Lake in una chiara mattina di maggio – ma penso di essere nel vero affermando che egli non godrebbe degli straordinari toni di una formazione di nubi o della finezza delle sue forme mutanti. Imprigionato dalla pura e semplice implacabilità del ciclo di fertilità – nascita in primavera, morte in inverno e, nel mezzo, il raccolto – la natura per lui, o piuttosto l’agricoltura, ha un unico imperativo: il prossimo lavoro da portare a termine e, in ultima analisi, il sostentamento economico della sua famiglia.
Da secoli, il tema dominante e ricorrente della vita rurale inglese è la povertà, non l’estetica. Per l’agricoltore locale, come per il beduino di Thesiger, un paesaggio domato, abitato e produttivo è bello. Come l’antiquario tudor John Leland, la loro ammirazione è largamente limitata ai ‘meravigliosi campi fertili’ , per il ‘terreno che produce mais abbondante’ , e i ‘buoni orti, vigneti e stagni’.
L’apprezzamento della bellezza naturale per amor di bellezza è un fenomeno relativamente recente. Non è una coincidenza che la nascita della pittura paesaggistica europea, emersa negli ultimi anni del sedicesimo secolo e all’inizio del diciassettesimo, coincise più o meno con il sorgere di una coscienza collegata alla misurazione e all’osservazione scientifica.
Non è una coincidenza neppure che alcuni dei grandi pittori europei di paesaggi, Rubens (che morì nel 1640), Nicholas Poussin (nel 1682) e Claude Lorraine (nel 1682) furono stretti contemporanei di Galileo (che morì nel 1642), Descartes (nel 1650) e di John Ray (nel 1705). ³
Ma è stato solo nel diciannovesimo secolo, quando la campagna britannica iniziò a essere minacciata dalla crescita dell’industria, del trasporto e della popolazione (nel 1850 metà della popolazione dell’Inghilterra e del Galles era già urbana), che la pittura paesaggista diventò popolare.
Quando John Ruskin terminò il suo terzo volume Modern Painters (Pittori Moderni, n.d.t.), verso la metà di quel secolo, si rese conto che l’umanità aveva acquisito quasi un nuovo senso, di questo scrive in una sezione intitolata Of the Novelty of Landscape (Sulla novità del paesaggio, ndt). Egli conclude: “Il semplice fatto che noi siamo, in qualche strano modo, differenti da tutte le grandi razze che sono esistite prima di noi, non può essere considerato immediatamente una prova della nostra propria grandezza; non è neanche incondizionatamente certo che quello di essere sotto l’influenza di sentimenti con i quali né Milziade, né il Principe Nero, né Omero, né Dante, né Socrate, né San Francesco avrebbero potuto simpatizzare nemmeno un instante, sia un senso di compiacenza legittimo.”
Se giro lo sguardo verso sinistra, qui dal tavolo dove sto scrivendo, vedo un paesaggio panoramico: campi divisi da un contorno di siepi, molti alberi, boschi e, all’orizzonte, le curve distanti delle azzurre colline di Dartmoor. Conosco questo paesaggio in tutte le condizioni di tempo e nelle diverse stagioni, da più di trent’anni, ma ciò che vedo deve essere stato mediato dalla mia stessa cultura: tutto ciò che ho letto (Rousseau, Wordsworth, Edward Thomas, Thoreau, Hopkins, Raymond Williams, George Ewart Evans) e tutto ciò che ho visto (Constable, Corot, Samuel Palmer, Turner, Monet, ecc…).
Nonostante il mio essere peculiarmente inglese, la sensibilità del ventunesimo secolo mi ha insegnato a vedere e a corrispondere ad un paesaggio in modi alieni, per esempio, agli autori delle prime epopee, delle poesie e delle saghe anglo-sassoni, nelle quali i riferimenti alla natura sono brevi e ostili o indugiano sui suoi orrori, come nella descrizione di Grendel’s Mere nel Beowulf.
Negli scritti anglo-sassoni, il mondo naturale è considerato un nemico, mentre io lo considero un amico benevolo ma da trattare con cautela. Come un moderno romantico, sperimento la natura senza la preoccupazione del vivere della propria terra dei contadini romani o guatemaltechi, ma più affine al modo in cui la sperimentava Dorothy, sorella di Wordsworth, cioè esteticamente. In una visione caratteristicamente moderna, il 24 ottobre 1801, ella osservò un albero di betulla vicino a casa sua a Grasmere: “Si abbandonava al vento tempestoso con tutti i suoi teneri ramoscelli. Il sole splendeva tra le fronde e mandava bagliori nel vento come una fugace pioggia estiva. Nella forma era un albero, con tronco e rami, ma era come uno Spirito d’acqua.”
Come Dorothy Wordsworth, molti altri moderni romantici sperimentano la bellezza della natura non solo come conforto spirituale continuo, ma anche come antidoto al rumore, all’affollato e chiassoso mercantilismo della vita moderna nelle città. Ma c’è un ulteriore aggregato alla nostra coscienza della natura: non è più semplicemente “lo Yorkshire” o “il Cumberland”, o la provincia nella quale viviamo, ma tutto il paesaggio che abbiamo visto nei nostri viaggi o nei film. Inoltre, con l’aiuto del microscopio, della time-lapse photography (fotografia automatica che permette di scattare foto in automatico ad intervalli pre-impostati, ndt) e delle nuove scoperte in astronomia e microscopia, è anche l’antico mondo delle cellule e della vita microbica primordiale. Abbiamo una meraviglia di informazioni delle quali Dorothy Wordsworth non aveva esperienza diretta.
Possiamo anche meravigliarci dinanzi alla bellezza delle selvagge profondità dell’universo, che sono in processo di essere rivelate grazie all’ingrandimento dei più grandi telescopi ottici: immensi vuoti – regioni lontane miliardi o triliardi di miglia – nelle quali sembra non brillare alcuna luce e non esistere materia; materia scura, quasar, componenti galattici, supernove e la nostra stessa Via Lattea con le sue centinaia di miliardi di stelle – forse una quantità di circa centomila milioni di stelle (o soli), dei quali solo seimila possono essere visti ad occhio nudo.
Anche solo dando uno sguardo a fotografie di questo stupefacente fenomeno, c’è di che meravigliarsi al mistero primordiale dell’esistenza e della sua magnifica, intricata, inventiva, auto-regolante, superlativa e in continua evoluzione bellezza.
E’ una qualità presente in ognuna di queste potenti manifestazioni della grandezza cosmica, non meno intrinseca nella squisita delicatezza di una ragnatela e di un bianco iris.
AUTO-ORGANIZZAZIONE
La natura usa solo i fili più lunghi per tessere i suoi modelli, così ogni piccolo pezzo del suo abito rivela l’organizzazione dell’intero arazzo. Richard Feynman L’impulso di molti sistemi naturali e umani verso l’auto-organizzazione è conosciuto da tempo, ma solo recentemente le ipotesi di James Lovelock e Lynn Marguli – l’ipotesi Gaia – hanno suggerito che tutta la vita sulla terra sia parte di un singolo, indivisibile, auto-regolante sistema che agisce per preservare le condizioni che rendono possibile la vita.
Prospettive simili sono apparse in altri tempi e luoghi, fin dalla descrizione di Platone dell’anima mundi, l’anima del mondo. Nel Timaues, Platone descrive il mondo come un essere vivente con intelligenza nell’anima, e un’anima “ordita dal centro fino al cielo più lontano”.
I filosofi contemporanei hanno dato uno sguardo nuovo all’idea che le qualità dell’anima – che devono includere qualità di bellezza – non siano limitate agli esseri umani o forse agli animali e alle piante, ma in un certo senso appartengono alla terra – le sue pietre, i suoi mari ed elementi. (6)
Che l’universo sia vivo, una entità vivente, ci sono sempre meno dubbi, e che sia bello non ce ne sono proprio. Come abbiamo visto, la sua bellezza scorre dentro il cuore di ogni cellula, ogni pianta, ogni animale e ogni albero, nel mondo interiore degli oceani, delle montagne e dei deserti. Che la nostra fame e ricerca di bellezza non sia altro che un tentativo di riunirsi con l’ordine naturale e originale dell’universo?
La profonda rispondenza che sentiamo per essa è generata dalla nostra empatia con le ordinate complessità della natura. Pensare in questo modo – che ogni cosa nell’universo sia innatamente correlata a tutto il resto, riconoscere l’importanza della reciprocità, del mutuo supporto e dell’interesse per il benessere dell’altro, persino credere che il principio di coscienza si debba estendere a tutti gli esseri e alla Terra stessa – significa rivedere la nostra comprensione attuale del significato cosmico dell’amore.
L’amore diviene, come insegnava Dante, la qualità primaria dell’universo; non marginale, ma intrinseca; non desiderabile ma essenziale, non isolata ma onnipresente. E’ interessante notare come Peter Sterry vide l’importanza della connessione tra le due esperienze primarie quando decise che: “L’oggetto dell’Amore è la grazia o bellezza”
Nella letteratura scientifica ci sono solo riferimenti minimi all’amore o alla bellezza; in una disciplina unicamente votata alla quantità, al calcolo, alla certezza delle misurazioni, la soggettività dell’esperienza è stata ignorata. Infatti, per quanto ne so, la scienza ufficiale non ha mai offerto una spiegazione, darwinista o altro, all’esistenza della bellezza; la bellezza è assente dalle pagine e dagli indici di quasi tutti i libri scientifici che ho esaminato.
Questa disciplina è più interessata all’argomento dei geni egoisti (la scelta del partner e il comportamento sessuale) e alle reazioni chimiche entro il cervello, piuttosto che alla nostra esperienza sensoriale spontanea del vivere su questa Terra – esperienza di amore e di bellezza intimamente conosciuta da ogni essere vivo.
BELLEZZA COME GUIDA ALLA VERITA’
Sebbene per lo scienziato professionista la bellezza sia un concetto intangibile, continua a essere per lui fonte di ispirazione. In certi casi, quando la strada da percorrere non è chiara, l’eleganza matematica è a portata di mano per indicare il cammino.
Come il grande fisico Heisenberg fece notare ad Einstein: “Se la natura ci conduce a forme matematiche di grande semplicità e bellezza… che nessuno ha mai incontrato prima, non possiamo fare a meno di pensare che esse siano ‘vere’, che rivelino una genuina caratteristica della natura.” Heisenberg discusse anche “la quasi spaventosa semplicità e universalità delle relazioni che la natura improvvisamente pone dinanzi a noi”, tema questo al quale fecero eco molti dei suoi contemporanei.
Paul Dirac si spinse a dichiarare che “è più importante avere bellezza nelle proprie equazioni che non adattarle ad un esperimento”. Il punto di Dirac è che uno slancio di immaginazione creativa può produrre una teoria che suscita così tanta ammirazione per la sua eleganza e bellezza da convincere quel fisico della sua verità ancor prima di averla sottoposta a prove sperimentali, e persino alla faccia di ciò che appare una prova sperimentale contraddittoria.
Graham Farmelo sosteneva che il concetto di bellezza rivestiva per Einstein una importanza speciale. Secondo le sue lettere al figlio Hans, “Aveva un carattere più vicino a quello di un artista che a quello di uno scienziato come lo pensiamo noi di solito. Per esempio, la più alta lode per una buona teoria non era che fosse corretta o esatta, ma che fosse bella.” Una volta arrivò a dire che “le uniche teorie fisiche che siamo disposti ad accettare sono quelle belle,” dando per scontato che una buona teoria deve essere in accordo con la sperimentazione.
Dirac era ancor più enfatico di Einstein nel suo credere alla bellezza matematica come criterio per la qualità delle teorie. Nell’ultima parte della sua carriera spese molto tempo girando il mondo, facendo conferenze sull’origine dell’equazione che porta il suo nome, sottolineando che la ricerca della bellezza era sempre stata la sua stella polare e ispirazione. Durante un seminario a Mosca nel 1955, quando gli fu chiesto di riassumere la sua filosofia della fisica, scrisse sulla lavagna a lettere cubitali: “Le leggi fisiche dovrebbero avere bellezza matematica.”
Prove delle armonie matematiche della natura esistono da secoli ed erano comprese dagli antichi. La Sezione Aurea era conosciuta dagli Etruschi, dagli Egizi e dai Greci. Pitagora, il geometra greco, vi era particolarmente interessato; egli mostrò come la Sezione Aurea sia alla base delle proporzioni del corpo umano. Dimostrò anche che quest’ultimo è costruito con ogni parte che ha una proporzione ben definita rispetto a tutte le altre.
Dopo i Greci, che fecero uso della Sezione Aurea nel disegno dei loro templi come il Partenone (vedi pag… ), in Europa essa andò nel dimenticatoio fino al Rinascimento e alle scoperte di un altro influente matematico, Leonardo Fibonacci. Fibonacci è il soprannome del monaco Leonardo da Pisa, il cui libro sull’aritmetica, Il Liber Abaci, è stata un’opera simbolo per duecento anni ed è tuttora considerato il miglior libro sull’argomento.
Fu Fibonacci a scoprire l’esistenza di una sequenza significativa di numeri: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233, 377, 610 e così via, con ogni nuovo numero generato dalla somma dei due precedenti. Questa serie soggiace a molte caratteristiche del mondo naturale: determina il numero di foglie fatte crescere ed estese da qualsiasi pianta per un’ottimale produzione di clorofilla. Governa anche la disposizione a spirale dei semi sugli ananas, le spirali generate dal guscio di una lumaca e dal nautilo (cefalopede che vive negli oceani indiano e pacifico, ndt); la configurazione delle corna del cervo e dell’antilope; dei modelli combacianti e del numero di generazioni discendenti delle api, dei conigli e di altri piccoli mammiferi, persino insetti.
Uno degli esempi più spettacolari della Serie di Fibonacci si può vedere in un ordinario girasole. Gli scienziati hanno misurato il numero delle sue spirali ed hanno trovato non solo una serie di corte spirali che girano in senso orario dal centro, ma anche un’altra serie di spirali più lunghe che girano in senso anti-orario. (9) Queste due spirali sinusoidali rivelano la stupefacente doppia connessione con la Serie di Fibonacci: Le coppie sono sempre numeri adiacenti nella Serie di Fibonacci.
Cioè una coppia potrebbe essere 21 e 34 e quella dopo 34 e 55 I numeri adiacenti divisi portano sempre alla Golden Section 34/55 = 0,618 oppure 55/34 = 1,618 In natura vi è la più grande armonia, il che rende la bruttezza aliena. Questa armonia ci suggerisce che sia all’opera qualche principio nascosto.
“La bellezza in Natura – osserva Isaac Newton in The Meaning of Beauty (Il Significato della Bellezza, ndt) – è il risultato del comportamento matematico della Natura, che a sua volta è un prodotto di funzione; mentre la bellezza nell’arte è il risultato dell’amore dell’uomo per… la matematica della Natura.” (10)
A questo punto può essere interessante guardare, se ci fosse, l’altro lato della cosa: non alla natura come ispirazione dell’artista, ma alla natura come artista. Un esempio di questa tendenza inconscia si trova chiaramente nelle attività dell’uccello giardiniere dalla cresta arancio (Amblyornis subularis) che vive nelle foreste montane della Nuova Guinea. Per attrarre la sua partner, questo piccolo uccello costruisce un’elaborata pergola. Il suo nucleo centrale viene costruito con cura intorno ad un giovane alberello circondato da muschio vellutato. Lo spazio centrale è anche delimitato da fiori gialli posizionati con cura e da due gruppi di oggetti sistemati su due piattaforme, una per lato. La parte sinistra è decorata conficcando nel muschio dozzine di coleotteri di colore blu iridescente, mentre la parte destra è composta con pezzi di guscio di lumaca blu selezionati con cura. Ben evidenziata da file di frutti colorati, la parte frontale della piattaforma è abbellita da una rete di rametti strettamente intrecciati. Lo scenario è stato montato per una rappresentazione dal vivo, una danza di corteggiamento. Una volta avvistata la scena, l’uccello femmina lancia il suo richiamo al maschio che, distendendo convenientemente la sua cresta arancione, danza eccitato. E se lui e il suo lavoro destano sufficiente impressione, lei sarà attratta e si unirà alla danza.
GEOMETRIA SACRA
E’ la magia della matematica il ritmo nel cuore di tutta la creazione, che si muove nell’atomo e, nei suoi modi diversi, modella l’oro e il piombo, la rosa e la spina, il sole e i pianeti. Questi sono i passi di danza dei numeri nell’arena del tempo e dello spazio che tessono maya, i modelli dell’apparenza, il flusso incessante del cambiamento, che è sempre e non è. E’ il ritmo che fa venire in superficie le immagini dall’indistinto e rende tangibile ciò che è elusivo. Questo è maya; questa è arte nella creazione e arte nella letteratura, la magia del ritmo.
Rabindranath Tagore ¹¹ Elementi del processo di ordinamento, talvolta associati all’armonia matematica, si trovano in tutte le arti. La mistica dei numeri va molto indietro – alle piramidi d’Egitto, alle ziggurat della Mesopotamia, ai templi indù, alle cattedrali dei cristiani e alle moschee islamiche.
Nella tradizione giudaica iniziò fin dai tempi di Mosè, quando gli fu detto di costruire una tenda sacra (un tabernacolo) in accordo con le misure che gli erano state mostrate da Dio sul Monte Sinai e alle misure del Tempio di Salomone, le cui proporzioni furono date da Yahweh a Re David. Nei primi secoli del Cristianesimo, questa tradizione che proveniva da Mosè e Salomone fu innestata sulla filosofia greca dei numeri e delle proporzioni geometriche proposta da Pitagora e Platone.
Le tradizioni greca ed ebraica così combinate crearono ciò che è conosciuto come Platonismo Cristiano. Ed esse, espressione di profonde credenze simboliche e metafisiche, influenzarono il disegno di molte delle cattedrali gotiche, Chartres in particolare. Nel suo magistrale studio di questo edificio, Titus Burckhardt scrive: “L’uso di un “modello dominante” geometrico o modale – che rimane nascosto ma che, ciononostante, riunisce armoniosamente le varie parti di un’opera – è, in ultima analisi, l’espressione di una particolare prospettiva spirituale, che Dante formula come segue: Le cose tutte quante hann’ordine tra loro: e questo è forma che l’universo a Dio fa simigliante (in italiano nel testo originale, ndt)” ¹²
La stessa prospettiva spirituale si trova nella tradizione islamica, anche nella quale l’amore per la geometria, specialmente aritmetica, i numeri ed il simbolismo numerico, è direttamente connesso all’essenza del suo messaggio, che è la dottrina dell’Unità (al-tawhid). Dio è Uno. Quindi, scrive Seyyed Hossain Nasr, “Il numero uno nella serie dei numeri è il simbolo più diretto e intelligibile della Fonte. E la serie dei numeri stessa è una scala attraverso la quale l’uomo ascende dal mondo della molteplicità all’Uno.” ¹³ I
n un’altra parte, la stessa autorità scrive: “Dai sublimi trattati di metafisica alle porcellane usate in casa, nel mondo islamico ci si trova ovunque di fronte ad un ordine ed una armonia direttamente correlati al mondo della matematica intesa nel suo senso tradizionale. Allo stesso modo, è a causa di questo elemento entro l’intero spettro della spiritualità islamica che i musulmani vengono attratti dalle varie branche della matematica fin dall’inizio della loro storia ed hanno contribuito così tanto alle scienze matematiche per quasi un millennio.”
Ma se il ruolo della geometria sacra è stato rilevante nell’architettura sia islamica che gotica, lo si trova anche nel contesto degli edifici e dipinti del Rinascimento fiorentino, nel quale gli architetti Brunelleschi (1377-1446) e Alberti (1404?-1472) disegnarono edifici largamente dipendenti su un sistema matematico di proporzioni armoniche. Fu Alberti a definire la bellezza come “armonia e concordia di tutte le parti, così che nulla può essere sottratto se non peggiorando le cose.”
La sua facciata di Santa Maria Novella a Firenze è un esempio di questa filosofia della bellezza, ampiamente copiata dagli architetti posteriori. Ciò che fa Alberti è dividere l’intero spazio in modo tale che l’altezza è uguale alla larghezza, formando in questo modo un unico grande quadrato. Questo è poi suddiviso a metà della sua altezza dalla base delle volute che vengono introdotte per nascondere gli spioventi del tetto delle navate laterali. La parte bassa della facciata, divisa dall’entrata principale, forma due quadrati, ciascuno dei quali è un quarto del quadrato grande. Il piano superiore che fa da schermo alla fine della navata centrale ed è incoronato da un classico timpano triangolare, è esattamente della stessa dimensione dei due quadrati più bassi al di sotto di esso. Questa divisione in semplici proporzioni di uno a uno, uno a due, uno a quattro, è caratteristica delle opere di Alberti.
E’ questa dipendenza dalla matematica sia nel Brunelleschi che nell’Alberti a marcare il decisivo distacco tra loro e i loro predecessori. Per concludere questa breve indagine sul ruolo della mistica dei numeri nella creazione della bellezza guardiamo Piero della Francesca, la cui arte è stata formata dal suo amore per un lucido e rigoroso sistema di misurazione. Occorre solo vedere la sua Flagellazione (vedi pag…) per sentire la sua sottintesa perfezione matematica: non è puramente un capolavoro di prospettiva, ma della più perfetta e preziosa armonia. Indubbiamente per Piero il lavoro necessario non fu un gioco intellettuale, ma una relazione intellettuale con il divino.
UN’ALTRA SPIEGAZIONE: IL PLATONISMO
Se la geometria permeò le menti dei modellatori islamici, il platonismo permeò le menti dei fondatori dell’architettura gotica. La prima filosofia della Bellezza, promulgata da Platone e dal suo seguace e interprete Plotino, è stata enormemente influente. Innumerevoli poeti ed artisti europei la credettero base necessaria di tutte le arti immaginative, inclusi Dante, Botticelli, Raffaello, Michelangelo, Milton, Spenser, Traherne, Blake, Coleridge, Wordsworth, Keats, Shelley, Samuel Palmer, Edward Calvert, Yeats e T.S.Eliot.
La teoria di Platone ruota intorno alla supremazia della percezione dell’anima sulla comprensione del mondo delle apparenze. Essa propone l’esistenza di un archetipo trascendentale come realtà stabile e unica – realtà che è insita, motiva e ordina il flusso di ogni fenomeno. Secondo lui, il mondo della Bellezza esiste in un profondo e senza tempo ordine di assoluti che sta oltre alla superficiale confusione e alla casualità del mondo temporale.
“Questa bellezza, in primo luogo, è senza fine, non cresce e non decade, non si sveglia e non si deteriora; secondariamente, non va bene da un punto di vista e male da un altro, o in una relazione e in un posto va bene e male in un altro tempo e in un’altra relazione, così da essere buona per qualcuno e cattiva per qualcun altro… la Bellezza assoluta… la Bellezza in sé, intera, pura, non contaminata… è divina, coessenziale con sé stessa.” In altre parole, niente in questo mondo è, poiché tutto è sempre in uno stato di divenire qualcos’altro.
Ma l’archetipo trascendente gode del fatto di essere reale, distinto dal mero divenire, ed esiste nel mondo delle Idee del quale la Bellezza è una delle maggiori espressioni. Platone propone che l’anima sia immortale (esistente prima della nascita così come dopo la morte) e ottenga la conoscenza di questa realtà eterna prima di entrare nel corpo alla nascita. In questo mito, l’anima “discende” da un mondo o stato eterno, è sottoposta all’esperienza e alla sofferenza nel mondo della procreazione e poi ritorna alla sua iniziale purezza.
Tuttavia, la condizione post-natale dell’imprigionamento nel corpo fa sì che l’anima dimentichi il vero stato delle cose. In questo mondo di procreazione, la Bellezza è allora velata, ed è compito dei filosofi e degli artisti “raccogliere” le Idee trascendenti e recuperare una conoscenza diretta della sorgente di tutte le cose. Allora qualcosa è “bello” nel senso che l’archetipo della Bellezza è presente in esso.
Quindi le opere d’arte sono perfette se e quando esprimono forme innate ed eternamente perfette. Questo mito ebbe una importante influenza su Plotino. La dottrina cardinale di Platone è basata sul postulato dell’esistenza di due mondi paralleli: un mondo dei sensi, transitorio e in continuo flusso (è il qui ed ora della nostra esistenza terrena); e un mondo unificato di ciò che lui chiamava Idee (o Forme), non disponibile ai nostri sensi ma solo all’intelletto, che nel suo stato più alto ha accesso alle Idee che governano la realtà.
Il numero delle Idee è elevato e include essenze senza tempo come le forme matematiche della geometria e dell’aritmetica; opposti come maschile e femminile, amore e odio, unità e molteplicità, le forme dell’uomo (anthropos) e le Idee del Buono, del Giusto e del Bello.
Queste sono le entità trascendentali ed esistono indipendentemente sia dal fenomeno che ordinano sia dalla mente umana che li percepisce. Che le Idee siano di primaria importanza è cruciale, nella comprensione platonica, mentre gli oggetti visibili dell’ordinaria realtà temporale ne sono derivati diretti. Richard Tarnas spiega: “Le Forme platoniche non sono astrazioni concettuali che la mente umana crea generalizzando da un gruppo particolare. Posseggono piuttosto una qualità dell’essere, un grado di realtà superiore a quello del mondo concreto. Gli archetipi platonici formano il mondo e ne stanno anche oltre. Manifestano sé stessi entro il tempo e sono, tuttavia, senza tempo. Costituiscono l’essenza velata delle cose. Quindi qualcosa è “bello” nella misura esatta in cui l’archetipo della Bellezza è presente in esso…
Quando qualcuno parla di qualcosa come di “più bello” o “più buono” di qualcos’altro, il paragone può essere fatto solo con un invisibile standard di assoluta bellezza o bontà – la Bellezza in sé e il Bene in sé. Tutto nel mondo dei sensi è imperfetto, relativo e continuamente mutante, ma la conoscenza umana ha bisogno e cerca gli assoluti, che esistono solo al livello trascendente delle pure Idee.” ¹
Platone credeva che il compito dell’anima, nei suoi viaggi ciclici di millenni, fosse quello di sforzarsi verso i valori eterni e di fuggire dall’inquinamento della carne. Egli credeva anche che noi portiamo dentro la nostra anima una conoscenza latente di un ordine innato in essa contenuto, di una totalità, una armonia della quale la vita esterna non è che una scarsa approssimazione.
Quindi, qualsiasi cosa sia congruente con il terreno della nostra natura a noi sembra bello. Il quadrato, il cerchio, le leggi della geometria e dei numeri sono, in questo senso, intrinsecamente soddisfacenti per un innato senso dell’ordine. Nei secoli seguenti la morte di Platone, nella metà del quarto secolo a.c., numerosi filosofi sostennero e svilupparono il suo pensiero amplificandone gli aspetti metafisici e religiosi. Platone stesso era già un filosofo fortemente religioso, ma con Plotino la sua filosofia divenne più esclusivamente religiosa e morale. Questa filosofia è oggi chiamata Neoplatonismo.
Tra le caratteristiche del Neoplatonismo c’è anche il concetto del principio trascendentale più alto, una divina Intelligenza di perfetta saggezza e bontà, “l’Uno”, con le Idee o Forme platoniche generalmente considerate come i pensieri di questo Dio supremo, eternamente esistenti nella Sua mente. E’ Lui che fa il mondo materiale sulla base di questi modelli. C’è anche una enfasi sul “volo dal corpo”, necessario per l’ascesi filosofica dell’anima alla divina realtà. Plotino ci spinge a lasciare la “profonda e orrida oscurità” della vita materiale. “Partiamo da qui – scrive – e voliamo alla deliziosa terra di nostro padre.”
Secondo lui, il mondo materiale percepibile con i sensi è il livello di realtà più lontano dalla divinità unitaria; e l’essere umano, la cui natura è anima-in-un-corpo, può godere dell’accesso ai più alti mondi intellettuali e spirituali solo attraverso la sua liberazione dalla materialità. Mentre Platone non perde mai di vista il fatto che il suo fine ultimo è il miglioramento della società, Plotino ignora le necessità sociali delle persone e si concentra sull’unione mistica dell’anima con Dio.
Egli è meno interessato alla giustizia e alla felicità sulla terra che non all’estasi in cielo – estasi che è prodotto della contemplazione mistica e dell’unificazione con l’ “Uno”, sorgente ultima di tutte le cose, piuttosto che della ricerca intellettuale dentro le cause. Tuttavia, come altri mistici, Plotino descrive (nelle Enneadi) la sua unione con l’Uno in un modo tale per cui risulta chiaro come egli abbia sperimentato che ogni cosa è uno con tutto il resto.
Le Enneadi contengono un autorevole e bel capitolo, Bellezza.
Questo ne è l’inizio nella famosa traduzione di Stephen MacKenna:
La bellezza indirizza sé stessa principalmente alla vista; ma c’è bellezza anche per l’udito, come in certe combinazioni di parole e in tutti i tipi di musica, poiché melodie e intonazioni sono belle; e le menti che si elevano al di sopra del mondo dei sensi, in un altro ordine, conoscono la bellezza nella condotta di vita, nelle azioni, nel carattere, in ciò che l’intelletto persegue; e lì sta la bellezza delle virtù.
Keats lesse questo saggio nella traduzione di Thomas Taylor del 1792, così sembra Wordsworth e, senza dubbio, anche altri poeti romantici. Yeats lo conobbe nella traduzione di MacKenna, alcune parti della quale affermò di aver letto più volte. E Yeats era un devoto della bellezza.
Altri che furono influenzati da Plotino sono Marsilio Ficino, Giordano Bruno, Spinoza, Berkeley e Hegel. Anche i poeti tedeschi Novalis e Goethe erano interessati alle sue idee. Poeti più recenti invece sono T.S.Eliot ed Ezra Pound, i cui Canti hanno sicuramente origine neoplatonica.