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Info
rilegatura: brossura
formato: 15 x 21 cm.
pagine: 240
ISBN: 978-88-6119-000-9
Editore: Il Libraio delle Stelle
Anno di pubblicazione: settembre 2006
Euro: 16.00
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Prefazione di Kathleen Raine
Indice dell'opera
Estratto del secondo capitolo
comunicato stampa
Notizie sull'autore
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Prefazione di Kathleen Raine << torna indietro

Nessuna delle tre verità di Platone, il Bene, la Verità e la Bellezza, può essere compresa nei termini dei valori materialisti della moderna civiltà occidentale, soprattutto la bellezza. La Verità può essere confusa con ciò che accade, con gli aspetti misurabili e quantificabili di ciò che comunemente viene chiamato “il mondo reale”. Il Bene può essere visto come azioni o eventi che conducono a risultati desiderabili; ma la Bellezza non può essere quantificata o misurata in termini materiali. Forse può essere vista come corrispondente a ciò che è sessualmente desiderabile e in quanto tale può far vendere giornali, ma anche in quella forma resta indefinibile e non misurabile.

Keats (seguendo e parafrasando Plotino) scrisse: “Bellezza è verità, verità è bellezza – questo è tutto ciò che conosci sulla terra, e tutto ciò che hai bisogno di conoscere” ¹ Il cuore risponde a queste parole, che descrivono la bellezza come al primo posto. Il detto “la Bellezza è negli occhi di colui che guarda” è abbastanza inadeguato, poiché tutte le verità di Platone sono realtà della mente, della coscienza stessa che è, per sua natura, non misurabile. Keats la vide nel suo valore più alto – in quanto la sua realtà può essere conosciuta solo dall’anima. Possiamo vederla come l’imprimatur divino, o come la firma stessa del divino. In un mondo che nega l’esistenza dell’anima e di un reale ordine divino, ciò implica necessariamente il rifiuto della Bellezza come non corrispondente alla “vita”, la quale viene vista in termini materiali come “sgradevole, brutale e corta”.

Tuttavia, in tutto il mondo la bellezza si trova nell’artefatto più umile, così come nella più alta espressione dell’umana ispirazione. Tazze per l’acqua, pentole da cucina, i muri delle case, gli abiti, il corpo umano stesso, sono adornati con rappresentazioni di piante e animali, con invenzioni dell’umana immaginazione fantastiche ed elaborate. L’istinto dell’uomo è di adornare e di imbellire qualsiasi opera delle sue mani. Solo a partire dalla rivoluzione industriale, che ha sostituito il lavoro delle mani e degli occhi con i vuoti artefatti delle macchine, la firma della bellezza è assente.

Di conseguenza non si parla o non si discute più di bellezza in relazione alle arti; non è più considerata essenziale, nemmeno desiderabile. Penso sia stato negli anni venti del secolo scorso che il termine “funzionale” venne introdotto come la qualità più desiderabile dei nostri elettrodomestici, mobili, edifici e di qualsiasi cosa usiamo nella vita quotidiana. La decorazione fu bandita, le stanze e i mobili venivano dipinti di bianco e la linea retta sostituì la grazia delle curve e degli archi, i soffitti divennero piatti, le porte e le finestre insignificanti.

Ricordo quando la mia Università (Girton) sostituì dalle finestre della biblioteca alcuni vetri elegantemente dipinti con pratici vetri incolori; con grande disappunto di John Betjeman, che guardava con sfavore al Movimento Moderno. Non c’è prova che la bellezza sia di alcun beneficio materiale per la gente, tuttavia sembra che resti una necessità, a parte tutti i benefici e la convenienza della tecnologia – produzione di massa, lavatrici, fast food e tutto il resto. La gente è infelice in un mondo senza bellezza, in città brutte illuminate dalla luce al neon, in condomini immensi senza alberi o giardini o fontane o uccelli che volteggiano nei nostri cieli.

Che la bellezza sia una necessità non può essere provato, ma la si percepisce ovunque, e ciò può essere una delle cause delle diffuse malattie neurotiche che affliggono il moderno uomo urbano. Le società primitive, nonostante non avessero i vantaggi di oggi, trovarono la felicità – Laurens Van der Post descrive come i Boscimani dell’Africa, che non hanno alcuna proprietà, si sentono in armonia con il loro habitat, con la terra e il cielo, e con le altre creature viventi del loro ambiente. La bellezza è di molti tipi e a molti livelli. La natura non è egualitaria, se no qual è il significato dell’evoluzione? Ancora meno lo è lo spirito umano, altrimenti qual è il valore dell’aspirazione?

La bellezza è gerarchica. Possiamo parlare di un giocatore di football che segna un “bel” goal, ma ciò non è dello stesso ordine o grado di un Nijinsky che balla Le Spectre de la Rose. C’è bellezza in molte delle canzoni dei Beatles, ma ancora, l’Incoronazione di Poppea di Monteverdi o la Winterreise di Schubert appartengono assolutamente ad un altro livello, così come la musica classica indiana della tradizione orale.

Va ad onore di John Lane essere sensibile alla bellezza a molti livelli e gradi, e parlare con calore anche delle canzoni di Elvis Presley; fa di tutto per evitare giudizi e paragoni. Tuttavia, pensiamo all’Albero della Cabbala, con i suoi quattro “mondi” e dieci sephirot, come ad una struttura gerarchica che ha i suoi equivalenti in tutte le culture tradizionali, nella forma di pantheon, gerarchie di angeli e così via. Questo corrisponde chiaramente ad una concezione universale che ci sono vari tipi e gradi di valore. John Lane non sottoscrive il punto di vista di Bernard Berenson il quale dice che la testa di un angelo della Vergine delle Rocce di Leonardo possa essere descritta come “il più bel disegno del mondo”, preferisce evitare di dare simili giudizi comparativi.

É un dono speciale di John Lane quello di riuscire a “leggere” opere d’arte di periodi diversi e diverse tipologie e culture, e di riuscire a comunicare la delizia che egli trova in esse. Lui stesso è stato formato come artista e la maggior parte dei suoi esempi sono tratti dalle arti visuali, delle quali ha una vasta conoscenza che proviene non solo dall’arte europea, ma anche da quella dell’Estremo Oriente, indiana, araba e dei nativi americani. I suoi commenti sono di lode e gratitudine piuttosto che di criticismo censorio come è diventato di moda negli anni recenti. Egli è dotato di un fine dono di empatia che riesce a comunicarci. Non dimentica nemmeno qual è il costo, in termini di sacrificio, dell’artista presso il quale si produce una grande opera. Un naturale e allenato dono dell’osservazione può certamente aiutare chi lo possiede a discernere la bellezza, ma molto dipende anche dai sentimenti e dall’attenzione.

Blake, in una lettera ad un mecenate critico, scrisse:

Io vedo Tutto ciò che dipingo in Questo Mondo. E so che Questo Mondo è un Mondo di immaginazione e Visione, ma non tutti vedono allo stesso modo… L’albero che spinge qualcuno alle lagrime di gioia è, agli Occhi di qualcun altro, solo una cosa Verde che sta sul suo cammino. Qualcuno vede nella Natura solo Ridicolo e Deformità, ma io non regolerò la mia misura su questi, Qualche Limitato non la vede nemmeno. Ma negli Occhi dell’Uomo di Immaginazione, la Natura è l’Immaginazione stessa. Come un uomo è, Così egli Vede. Come l’occhio è formato, così sono i suoi Poteri. Siete certamente in Errore, quando dite che la Visione del Fantastico non si trova in Questo Mondo. Per Me, Questo Mondo è tutto Una continua Visione del Fantastico o dell’Immaginazione.

La bellezza del mondo è lì, ma non tutti la vedono, e davvero pochi la vedono come “una continua visione” allo stesso modo di Blake. Ci sono, però, momenti di tranquillità, di quieta attenzione, nei quali una pianticella di centonchia che cresce in una fessura del pavimento può apparire così bella come un capolavoro di pittura, o una sedia da cucina può trasformarsi come fece per Van Gogh. Queste rivelazioni sono imprevedibili e, per la maggior parte di noi, rare.

John Lane ha una parola, sconosciuta alla critica d’arte, per la quale nemmeno l’angelo di Leonardo ha i requisiti: parla di bellezza “che spezza il cuore”. Con questo intende l’esperienza di un mondo oltre l’ego, che sentiamo spezzarci il cuore perché l’abbiamo conosciuta una volta e persa, è la nostra vera dimora ed il nostro vero sé, che in questo irreale “mondo reale” non troviamo che raramente. Potrebbe essere chiamata anche “ciò che guarisce il cuore”, poiché per un istante ci reintegriamo al nostro vero sé ed al nostro vero mondo, oltre all’ego che qui prevale. É una epifania dell’eterno.

Si può pensare alle sculture buddiste del sesto secolo esposte alla Burlington House all’inizio di quest’anno, scoperte nel 1996 scavando nel tempio di Long Xing di Qingzhou nella provincia di Shandong in Cina; oppure si può anche usare l’espressione dei paesaggi di certi dipinti cinesi. Sembra che questa qualità appartenga alle civiltà basate nei più alti valori spirituali – il Buddismo, o la musica classica indiana trasmessa oralmente in certe famiglie alla corte degli imperatori Moghul. Se questa dimensione “sacra” è rara in Occidente, è a causa della mancanza di una civiltà simile. Essa parla più spesso dalle icone della Chiesa Ortodossa (orientale) piuttosto che dall’arte più “incarnazionale” dell’Occidente Cattolico.

Nelle opere contemporanee è davvero rara, ma si esprime forse nei disegni di David Jones che raffigurano donne o quei giovani soldati della prima guerra mondiale con i quali aveva condiviso le trincee. David Jones stesso era un cattolico convertito, esperienza che fu per lui trasformatrice e, come sembra, lo innalzò alla perfezione di quel livello oltre l’ego che John Lane chiama “ciò che spezza il cuore”. Qualsiasi nome le diamo, è una esperienza che riconosciamo.

Yeats, studente di esoterismo per tutta una vita, scrive del mistero della bellezza con semplicità disarmante:

Se mi faccio le ciglia scure
E gli occhi più chiari E le labbra più scarlatte,
O se chiedo se tutto andrà bene
Specchio dopo specchio,
 Nessuna vanità è mostrata:
Sto cercando il volto che avevo
Prima che il mondo fosse fatto.


Vedo questo coraggioso libro come un segno dell’inizio del mutare della marea del materialismo che ha prevalso nell’ultimo secolo. Esso colma una profonda e finora scarsamente riconosciuta necessità. Se la bellezza è la più alta delle verità di Platone ciò è perché è in accordo con la nostra natura: Platone non ha inventato quella necessità. E non afferma forse Dostoievsky ne L’idiota che il mondo può essere salvato solo dalla bellezza? Se noi sottovalutiamo e non ci curiamo della bellezza è a nostro rischio e pericolo.

KATHLEEN RAINE
Giugno 2003

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