IL FASCINO DISCRETO DELLA DEMOCRATURA AMERICANA
di Gavino Piga
A prescindere da chi occuperà la Casa Bianca nei prossimi quattro anni, qualcosa d'inquietante è già accaduto oltreoceano, da tempo. Di fatto gli USA sono già di quel 51% di cittadini che ritiene obsoleto il Primo Emendamento. Oltre che di quel larghissimo 80% che non sa esattamente quali diritti esso tuteli. Parliamo, per chi non lo ricordasse, della norma che garantisce la libertà di parola e di stampa. Quella che permise di pubblicare gli ipersecretati Pentagon Papers sulla guerra in Vietnam nonostante l'opposizione di Nixon. La norma che Martin Luther King invocò fino al giorno prima di morire. Il cardine - controverso ma simbolicamente potentissimo - della narrazione americana dalle origini ad oggi. O a ieri, appunto.
Intendiamoci: non è il caso di idealizzare una realtà contraddittoria come quella statunitense che - Primo Emendamento o meno - è stata capace di produrre nefandezze ad libitum sul piano dei diritti umani. E neppure è il caso di rivendicare la libertà di parola come certificazione autoconclusiva di democrazia. Anche perché in presenza di diseguaglianze, grandi interessi particolari, corruzione, concentrazioni oligopolistiche, la libertà di dire e sapere è sempre limitata da una cornice più o meno stretta. Detto questo, però, resta un fatto: la superpotenza che si è autoraccontata per decenni come iperuranio del mondo libero, bollando sprezzantemente di socialismo ogni restrizione del discorso pubblico, ora comincia a percepirsi come troppo libera.
E dove l'immaginario collettivo interiorizza la possibilità di restringere il discorso lecito, inevitabilmente si scatena una lotta all'ultimo sangue - sporca, tutta politica e non più nascosta - per il possesso esclusivo del dicibile. I cui esiti producono, di norma, prospettive sempre più buie.
"Libertà per il discorso che odiamo" o divieto dei "discorsi d'odio"?
Le perplessità di molti americani sul Primo Emendamento emergono chiaramente dal sondaggio del 2019 a cura della Campaign for Free Speech. E sono presto spiegate dai responsabili dell'indagine: «Crediamo che ci siano almeno due fattori in gioco», dicono. «Uno è l'ovvia polarizzazione della politica e dei media». Ovvia ma forse no, verrebbe da aggiungere, visto che implica censure come l'ormai celebre oscuramento del 4 novembre ai danni nientemeno che del presidente in carica. E in secondo luogo - proseguono - «sentiamo parlare molto di incitamento all'odio. Sebbene il significato dell'espressione non venga mai precisato, la maggioranza concorda sul fatto che dovrebbe essere contrastato, stigmatizzato e criticato. Ma dovrebbe essere punito dal governo?» Secondo il 48% degli intervistati, sì. Poco importa che così si crei inevitabilmente uno strumento politico, «un'arma che può essere usata per punire chi ha posizioni di dissenso».
Questo è il vero crocevia. Soprattutto se si considera che appena nel 2015, secondo Pew Research, gli statunitensi erano per il 67% convinti che non dovessero esservi censure politiche neppure sui discorsi offensivi verso le minoranze. Gli USA erano ancora, insomma, il paese in cui gli avvocati ebrei dell'American Civil Liberties Union si erano battuti perché anche i beceri nazisti dell'Illinois (quelli di una celebre scena di The Blues Brothers, per intendersi) potessero manifestare. Sfidando il paradosso (e anche allora a costo di grandi polemiche) in nome delle garanzie di tutti.
Giusta o sbagliata che fosse, comunque, quell'America è sempre più lontana. Soprattutto negli ultimi anni l'asticella si è spostata velocemente e radicalmente, partendo dalle fasce più giovani. Infatti, se nel 2015 gli statunitensi si dichiaravano all'avanguardia nel difendere la libertà d'espressione, fra i millennials i sentimenti più diffusi erano già di tutt'altro tenore. Sempre secondo Pew Research il 40% di loro riteneva che il governo dovesse censurare eccome. E di fatto, l'anno dopo, all'Università di Chicago sarebbero divampate le polemiche per la lettera di benvenuto alle matricole del preside John Ellis. Lettera in cui si diceva che l'ateneo non avrebbe consentito censure in nome del politically correct. Confermando un assoluto «impegno per la libertà accademica», ma scatenando proprio perciò le rumorose reazioni di parte del corpo studentesco. Nel 2017, poi, perfino la Brookings Institution - noto pensatoio liberal - avrebbe suonato l'allarme pubblicando gli esiti di un'indagine demoscopica condotta nei campus. Ne veniva fuori che secondo il 51% degli studenti intervistati sarebbe stato accettabile interrompere un oratore con forti e ripetute urla per impedirgli di parlare qualora le sue tesi fossero risultate offensive (il 19% si spingeva a giustificare, nel caso, perfino la violenza fisica). Anche perché solo il 39% del campione conosceva i fondamenti del diritto costituzionale statunitense: gli altri ignoravano che il Primo Emendamento tutela anche - fatte salve pochissime eccezioni - il cosiddetto hate speech in nome della libertà d'espressione.
Cosa poi si potesse intendere per «discorsi offensivi» è ben spiegato dall'ampia casistica che nei campus ha costruito la storia di una cancel culture di volta in volta impugnata da fazioni ideologicamente militarizzate. Se i conservatori sono tradizionalmente sensibili ai temi etico-religiosi (ed etichettano come antisemita chiunque critichi le politiche israeliane: si veda il caso di Bari Weiss, di cui abbiamo parlato già qui), dall'elezione di Trump in poi i picchi sono stati raggiunti a sinistra, dove si collocano i gruppi studenteschi più rumorosi (e più coccolati da una compiacente arena mediatica).
Ne riporta un campionario eloquente Pietro Agriesti, con tanto di dettagliatissima rassegna stampa. Per restare ai più noti, basterà ricordare Steven Pinker, prestigioso linguista di Harvard, di cui è stata chiesta la rimozione dalla Linguistic Society of America perché avrebbe «minimizzato le ingiustizie» (tradotto: per le sue critiche alle posizioni del Black Lives Matter). E sconcertante è la vicenda di W. Ajax Peris, docente all'UCLA, segnalato al Dipartimento della Pubblica Istruzione per avere letto in aula la celebre Lettera da un carcere di Birmigham di Martin Luther King, dove viene usata la parola "negro". Che pare abbia emotivamente ferito un gruppo di studenti da cui sono scaturite vive proteste (ribadiamo: si trattava di un testo di Martin Luther King). Per non dire della campagna di boicottaggio avviata alla Chicago University contro la rivista di cui è editorialista Harald Uhlig, colpevole di avere ironizzato sullo slogan «defund the police», ritenendolo alquanto semplicistico. Il che, a detta degli studenti, lo avrebbe certificato come razzista. Etichetta affibbiata anche a Gordon Klein, di nuovo all'UCLA, reo di non aver adottato criteri di valutazione più "clementi" nei confronti degli studenti neri, psicologicamente provati dall'uccisione di Floyd. Mancanza di empatia e dimostrazione di strisciante suprematismo, almeno secondo gli allievi che ne hanno chiesto il licenziamento, con tanto di petizione, costringendo la Foundation for Individual Rights in Education ad intervenire per richiederne il reintegro.
Reintegro infine accolto in nome, appunto, del Primo Emendamento. Lo stesso per il quale gli estensori del codice lessicale bias-free della New Hampshire University - dove parole come «povero» o «ricco» sono sconsigliate in quanto potenzialmente discriminanti - non possono rendere obbligatoria la loro grottesca neo-lingua.
Insomma, il concetto di lotta all'odio si presta a interpretazioni piuttosto estensive, con pratiche intimidatorie annesse. E chi pensa si tratti di episodiche esuberanze fanatiche può verificarne il carattere ormai strutturale su database istituzionali dove - a far data già dal 1998 - è catalogata un'impressionante lista di tentativi di boicottaggio di iniziative politicamente sgradite o di relatori considerati controversi. Tutto in nome di un agognato safe space: categoria, questa, nata per indicare ambiti protetti appannaggio delle minoranze, e trasferita nei campus anglosassoni con l'idea di farne luoghi neutri, dai quali siano esclusi dibattiti su questioni potenzialmente sensibili. Il che, di fatto, impedisce il confronto e la possibilità di critica. O meglio «soffoca la libertà di parola», per dirla con Theresa May.
Obsoleto perché?
Non solo la May, in verità: perfino Barack Obama ha ventilato l'idea che studenti troppo protetti possano scadere nel «disinteresse intellettuale», ma ciò non ha impedito all'establishment dem di portare - particolarmente nell'era Trump - il vigoroso battage per la revisione del Primo Emendamento anche fuori dai cancelli dei campus. Quando ci provarono i repubblicani sull'onda della guerra al terrorismo (fu in particolare Newt Gringich, nel 2006, a proporre brutalmente di riconsiderare le garanzie costituzionali sul free speech) non mancò chi gridò allo scandalo. Oggi sono le testate perbene a prendere apertamente quel testimone, perché un'emergenza, alla bisogna, la si trova sempre.
Sul New York Times ad esempio, in un editoriale del 13 ottobre scorso, l'opinionista di area democratica Emily Bazelon è stata chiara: citando la nota femminista Catharine MacKinnon, ha ribadito che oggi la norma sulla libertà di parola serve ad «autoritari, razzisti e misogini, nazisti, membri del Ku Klux Klan, pornografi e aziende che comprano elezioni».
Ancora, dunque, il dito batte sul tasto della guerra all'odio. Ma è interessante il repertorio che la giornalista va a ripescare. Cominciando dalla storica sentenza Brandenburg v. Ohio del 1969: in quel caso - scrive indignata la Bazelon - in nome della libertà di parola «i giudici cancellarono una legge dell'Ohio usata per arrestare un leader del Ku Klux Klan che aveva parlato a un comizio». Peccato che la legge in questione fosse l'Ohio Criminal Syndicalism Law, residuo di un complesso giuridico primo-novecentesco ideato per criminalizzare le rivendicazioni operaie e le relative organizzazioni politico-sindacali. Un'architettura giuridica utilizzata per punire reati d'opinione, insomma, e potenzialmente utile a colpire ogni forma di dissenso: basta che la si lasci discretamente scivolare alla voce "sedizione". Fortunatamente depotenziata da quella tanto criticata sentenza. Che non a caso dichiarava incostituzionale anche l'antica condanna di Charlotte Anita Whitney, incarcerata nel 1927 per il suo attivismo fra le organizzazioni operaie. E quello della Whitney era solo il più noto fra migliaia di casi di cittadini arrestati perché in dissenso col governo, in nome di quelle leggi: sarebbe quello, forse, il sistema agognato dalla brillante editorialista progressista?
In quel caso specifico l'Ohio, condannando il suprematista Brandenburg, aveva probabilmente inteso dimostrare un rigore censorio bipartisan (ossia: tranquilli, non censuriamo solo le organizzazioni operaie, dove ancora ce ne fossero). La Corte Suprema stabiliva invece una sorta di par condicio dei diritti. Cioè che la garanzia degli uni - fossero anche i peggiori, come in questo caso - è bene di tutti. Ma non sarà forse proprio questo il problema? Inorridiamo certo di fronte a sproloqui nazistoidi, ma ripensando alla casistica prima citata, e all'estensività piuttosto generosa con cui alcune etichette vengono oggigiorno elargite, qualche dubbio si pone quando si ipotizza che una precisa area politica possa aprire e chiudere i rubinetti del discorso a proprio insindacabile giudizio. E tuttavia sarà forse proprio questo il prossimo step?
Non a caso, sempre per mettere in chiaro l'obsolescenza del Primo Emendamento, la Bazelon cita un altro caso interessante, quello della sentenza Sullivan v. New York Times. In quel frangente - dice con la consueta indignazione - «la Corte rese difficile a un pubblico ufficiale citare in giudizio un giornale per averlo diffamato includendo false dichiarazioni». Nel dettaglio, si tratta di un caso risalente al 1960, quando si verificarono scontri in Alabama fra la polizia e i sostenitori di Martin Luther King: questi ultimi acquistarono una pagina del New York Times per dare visibilità alle violenze poliziesche. Ma il loro resoconto si rivelò inesatto in alcuni punti, il che portò il commissario Montgomery Sullivan a denunciare il giornale per diffamazione. Nel 1964 la Corte Suprema gli diede torto, stabilendo che un pubblico ufficiale potesse citare per diffamazione solo qualora il caso lo riguardasse espressamente (l'articolo incriminato invece non citava il suo nome) e qualora le notizie non veritiere fossero state diffuse dalla testata consapevolmente e con malevola intenzione (cosa che in quel caso non era).
La sentenza, piovuta nell'America di quei turbolenti anni, fu subito considerata una pietra miliare nella lotta per la libertà di stampa. Senonaltro perché affrontava senza mezzi termini il vero problema, che non era l'esattezza dei dettagli di una cronaca, ma il tentativo di intimorire i giornali portandoli a un'autocensura nei confronti delle istituzioni: «Dubito che possa vivere nella libertà un Paese in cui il popolo può essere fatto soffrire fisicamente o finanziariamente per aver criticato il governo, le sue azioni o i suoi funzionari» ebbe a dire il giudice Hugo Black, sostenitore di quella sentenza. Aggiungendo anche: «Il diritto incondizionato di dire ciò che si vuole riguardo agli affari pubblici è ciò che considero la garanzia minima del Primo Emendamento».
Con grave disappunto, a quanto pare, dei progressisti odierni, che cinquant'anni dopo si trovano paradossalmente dalla parte di quel Sullivan su cui i BLM avrebbero fatto piovere insulti o peggio. Affratellati a lui nella battaglia - non meno reazionaria ora che allora - contro la misinformation (salvo che non venga dai centri di potere). Perché pare che l'odio venga alimentato dalle false notizie: altro assioma sulla cui fragilità bisognerebbe quantomeno sorridere, se non fosse che la furiosa reprimenda dell'odio, fino al parossismo, si invera pericolosamente in quella, altrettanto furiosa, avviata da tempo per controllare i flussi di informazione nei nuovi media.
Zuckerberg folgorato sulla via del voto per posta
A fagiuolo, infatti, nei ragionamenti della Bazelon - e in molti altri dello stesso tenore - accanto ai fautori dell'odio compaiono anche non meglio precisate «aziende che comprano le elezioni». Altra vecchia questione: sempre in nome del Primo Emendamento la Corte Suprema USA ha da tempo stabilito - soprattutto su impulso repubblicano - che le donazioni a partiti o candidati da parte di privati (compresi società o sindacati) non possano essere soggette a limitazioni. Decisione in effetti controversa, come sempre quando ne va dei rapporti fra finanziamenti e politica. A questo punto, però, ci si aspetterebbe quantomeno un cenno agli ingenti finanziamenti elargiti a Biden proprio dal comparto communication-electronics (259,3 milioni di dollari ai democratici, a fronte dei 58,3 milioni elargiti ai repubblicani). Cioè dal comparto che più possibilità avrebbe nel condizionare l'informazione in nome di legami politici. Invece no: si cita Facebook, ad esempio, solo come modello di azienda finalmente ravveduta all'imperativo censorio.
Se infatti fino a poco tempo fa Facebook e Twitter avrebbero usato - a quanto leggiamo - un controllo troppo mite, a ridosso del voto di novembre hanno capito come funziona. Dice ancora la Bazelon: «Il 28 settembre Trump ha twittato: "I voti restituiti agli Stati non possono essere conteggiati con precisione. Molte cose stanno già andando molto male!" In una piccola sezione blu nella parte inferiore del post, Twitter ha aggiunto un simbolo di avvertimento - un piccolo punto esclamativo cerchiato - insieme al testo: "scopri come è sicuro votare per posta"». Facebook invece «ha etichettato lo stesso post, suggerendo agli elettori di visitare il suo "Voting Information Center" ma senza includere un simbolo di avvertimento». Il che ha destato critiche fra i pro-Biden, che immediatamente hanno richiesto contromisure più puntuali a Zuckerberg. E lui non si è fatto attendere: ha infatti «aggiornato l'etichetta sul post di Trump del 28 settembre con la dicitura "sia il voto di persona che il voto per posta hanno una lunga storia di affidabilità negli Stati Uniti e lo stesso è previsto per quest'anno. Fonte: Bipartisan Policy Center"».
Abbiamo avuto modo di verificare l'affidabilità del voto per posta, infatti, già all'indomani dell'election day. E di qualificare quindi anche i sistemi con cui i progressisti à la Bazelon vorrebbero ovviare agli eccessi di libertà, ma ciononostante il mantra sull'inattualità del Primo Emendamento continua a rimbalzare, di contraddizione in contraddizione, con tutta nonchalance.
Si continua a ripetere ad esempio lo schema formattato, sempre all'indomani dell'elezione di Trump, da Tim Wu, fondato sulla definizione di reverse censorship. In breve: la vera censura oggi non consisterebbe più nell'occultare le notizie, ma nel congestionare i mezzi di comunicazione con troppe notizie, aprendo il varco alle pericolosissime fake news. Di fronte alle quali (qualunque cosa s'intenda per fake news) pare che le norme attuali debbano cedere il passo perché non pensate per fronteggiare questo genere di "attacchi". Dunque che fare? Al fatidico interrogativo segue di norma un imbarazzato balbettio. «Quando chiesi a Wu cosa il governo avrebbe potuto fare per fermare queste inondazioni di notizie» - scrive il giornalista David Graham su The Atlantic - «lui riconobbe che molte possibili soluzioni si imbattono subito in qualche complicazione. "Quasi tutte le idee sono orribili", mi disse. Le piste scivolose abbondano. Tuttavia, anche in assenza di risposte solide, la spinta a modernizzare il Primo Emendamento per affrontare un'epoca di "censura inversa" - non più censura tradizionale - è urgente».
Curioso, poi, che Wu chiami in causa Trump quando parla del controllo politico dei mezzi di informazione, trattandosi in verità del presidente mediaticamente più bersagliato della storia. E che stigmatizzi la violenza delle minacce contro i giornalisti, dato che le minacce non sono tutelate dal Primo Emendamento (dunque perché puntare sulla sua riforma per ovviare al problema?). Curioso anche il riferimento alle famigerate ingerenze russe, citate compulsivamente negli ultimi anni fino ad imbastire il poderoso Russiagate (il quale si è concluso però senza alcun esito concreto). Come dire, insomma, che la narrazione della società aperta e senza frontiere funziona finché non sono in ballo idee e conoscenze:«si sta facendo troppo poco per proteggere la politica americana dagli attacchi stranieri» denuncia infatti lo studioso, quasi accarezzando il sogno di una sorta di "nazionalizzazione" dei social. Ma - ancora una volta - perché mettere al centro del mirino i social se, com'è risaputo, sono fuori dalle competenze del Primo Emendamento in quanto società private? Insomma, cosa c'entrano le possibili soluzioni col problema che dovrebbero risolvere?
Forse dietro i balbettamenti c'è un'idea precisa. Talmente contraddittoria e inquietante, però, che non si ha (ancora) il coraggio di esplicitarla del tutto: per ovviare alla "nuova censura" non resterebbe che ritornare alla genuina censura originaria. Cioè sfoltire la mole di informazioni salvando solo quelle che qualche centro di ricerca in odor di "progressismo" ritiene attendibili (come quelle che certificano oltre ogni ragionevole dubbio l'efficienza del voto postale, si suppone). Di qui la pressione sui social, i quali, al momento liberi di censurare, devono farlo e soprattutto devono farlo nella giusta direzione: devono forse precostituire il modello che renda quella prassi normale e più facilmente esportabile in altre aree, fino alla vidimazione per via giuridica? Forse tutto si tiene.
Ma quale sarebbe in concreto questo modello? Lo abbiamo per caso visto in opera nel recente caso su Hunter Biden, figlio di Joe? Per chi non lo ricordasse: la notizia di presunti scambi di favori che coinvolgeva Biden jr. e la società energetica ucraina Burisma è stata diramata dal New York Post il 14 ottobre scorso sulla base di alcune email venute in possesso del giornale. Nonostante i Biden non negassero l'autenticità delle email in questione (ma solo che eventuali scambi di favori o danaro si fossero concretizzati), si è subito scatenata una campagna di demonizzazione contro i giornalisti che osavano rilanciare la notizia - racconta il giornalista Glenn Greenwald - e i giganti della Silicon Valley non si sono fatti attendere.
Scrive Greenwald: «Solo due ore dopo che la notizia era online c'è stato l'intervento di Facebook. La società ha inviato un agente del Partito Democratico che ora lavora per Facebook, Andy Stone (in precedenza agente di comunicazione per la senatrice democratica Barbara Boxer e il Comitato democratico per la campagna elettorale del Congresso, tra gli altri impieghi avuti presso i democratici) per annunciare che Facebook stava "riducendo la distribuzione [dell'articolo] sulla nostra piattaforma": in altre parole, stava armeggiando con i propri algoritmi per sopprimere la capacità degli utenti di discutere o condividere l'articolo». Ancor peggio Twitter, che ha «vietato completamente la possibilità di tutti gli utenti di condividere il post con l'articolo, non solo sulla loro timeline pubblica, ma anche tramite la messaggistica diretta privata della piattaforma: all'inizio della giornata, gli utenti che tentavano di collegarsi all'articolo del New York Post ricevevano pubblicamente o privatamente un messaggio criptico che rifiutava il tentativo come "errore". Più tardi nel pomeriggio, Twitter ha cambiato il messaggio, avvisando gli utenti che non potevano pubblicare quel link perché la società ne giudicava i contenuti "potenzialmente dannosi"». Più tardi si è appreso che la policy di Twitter vieta la condivisione di materiale hackerato o non autorizzato: se fosse stato per questa piattaforma, insomma, Snowden o Assange non avrebbero mai potuto diffondere informazioni e documenti che oltre ogni dubbio erano di pubblico interesse (evidentemente consci dell'aberrazione, i vertici dell'azienda hanno fortunatamente fatto sapere il giovedì di avere modificato quella parte del loro regolamento).
In sostanza, continua Greenwald, «poco più di due settimane prima delle elezioni presidenziali, i giganti della Silicon Valley - i cui leader del settore e la cui forza lavoro favoriscono in gran parte il candidato democratico - hanno adottato misure straordinarie per impedire che milioni, forse decine di milioni, di elettori americani fossero esposti a quello che uno dei giornali più antichi e più grandi del Paese rivendica come un grande scoop». A proposito: di Hunter Biden ancora ad oggi si parla poco, salvo che è coinvolto in un'indagine fiscale - partita nel 2018 - che pare riguardare anche il periodo della sua collaborazione con l'ucraina Burisma, oltreché presunti affari internazionali, particolarmente con la Cina. Al momento niente di certo: si tratta di un capitolo in larga misura da scrivere, posto che Twitter sia d'accordo.
Questo è dunque il meraviglioso mondo first-amendment-free che pare invadere i sogni di molti benpensanti? Un immenso safe space ad uso di multinazionali, iperliberisti e filantropi liberal? Di certo questo tipo di discorso è riuscito ad insediarsi perfino nell'immaginario di una società quasi fanaticamente attaccata al free speech. I dati che abbiamo riportato all'inizio sono chiari, e parlano di una spaccatura profonda prodotta all'epicentro dell'autocoscienza statunitense in dimensioni tali che - a prescindere da chi siederà al vertice - il sistema-USA può dirsi già compromesso. Come avviene quando un bene - qualunque bene - che sia tale in quanto di tutti, comincia ad essere percepito come bene solo in quanto sia di una parte. Ciò che in fondo i curatori fallimentari del Primo Emendamento vogliono, perché conoscono il meccanismo e sanno dove conduce. Troppo tardi un drappello di intellettuali di sinistra ha scritto quel famoso appello contro la Cancel Culture che inevitabilmente ha suscitato freddezza e perplessità. Il meccanismo è ormai avviato. Quanti in buona fede credono di poter usare la censura "a fin di bene" (convinti che il bene stia sempre e comunque dalla loro parte) - per citare ancora Greenwald - «sono miopi, ed è tristemente miope il sottovalutare la situazione» e del resto «c'è solo una cosa più autoritaria degli atti di Facebook e Twitter di ieri [riferimento al 14 ottobre n.d.r.]: la mentalità grazie alla quale la gente comune tifa per loro».
Su questo fronte infatti i critici del free speech hanno in buona parte già vinto. Oggi negli USA molti guardano all'Europa. Cercano nel vecchio continente modelli per arginare le loro proprie libertà. E non mancheranno di trovarne. Il fascino discreto della democratura, approdato oltreoceano, si appresta ad espugnare l'ultimo e definitivo fortino capace ancora, forse, di qualche reazione.
Gavino Piga
20-12-20 iono.com
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