Come parli, così è il tuo cuore.
Paracelso

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I SENTIERI DELL' ESSERE
Le mille Vie della Spiritualità
I SENTIERI DELL' ESSERE
LA PRATICA DA SEGUIRE
Un monaco chiese a Dong-Shan:
C'è una pratica che le persone debbano seguire?
Dong Shan rispose:
quando diventi una vera persona c'è una tale pratica.
Sai essere freccia, arco, bersaglio?
<b>Sai essere freccia, arco, bersaglio?

Sai essere freccia, arco, bersaglio?
Conosci la sequenza delle costellazioni?
La fusione dell'idrogeno in elio?
Sai misurare la tua integrità?
Se rispondi
Avrai l'immortalità.

Laura Scottini

MEDITAZIONE TAOISTA
<b>MEDITAZIONE TAOISTA </b>





 

Chiudi gli occhi e vedrai con chiarezza.
Smetti di ascoltare e sentirai la verità.
Resta in silenzio e il tuo cuore potrà cantare.
Non cercare il contatto e troverai l'unione.
Sii quieto e ti muoverai sull'onda dello spirito.
Sii delicato e non avrai bisogno di forza.
Sii paziente e compirai ogni cosa.
Sii umile e manterrai la tua integrità.

 

IL VUOTO CHE DANZA
IL VUOTO CHE DANZA










di H.W.L. Poonja


Rimani ciò che sei ovunque tu sei.
Se fai così, saprai immediatamente
di essere Quello che hai cercato
per milioni di anni.

Non c'è ricerca,
perchè si cerca solo qualcosa che si è perso.
ma quando niente è andato perduto
non ha senso
cercare qualcosa.

Qui semplicemente Stai Quieto.
Non formare nemmeno un pensiero nella mente.
Allara saprai
Chi sei realmente.

per tre motici la ricerca e la pratica
sono follie fuorvianti
sono l'inganno della mente
per posporre la libertà.
Continua...

PAROLE SU DIO
PAROLE SU DIO

di Simone Weil

Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio. … Così pure, la prova che un bambino sa fare una divisione non sta nel ripetere la regola; sta nel fatto che fa le divisioni.

Il bello è ciò che si desidera senza volerlo mangiare. Desideriamo che sia. Restare immobili e unirsi a quel che si desidera senza avvicinarsi. Ci si unisce a Dio così: non potendosene avvicinare. La distanza è l’anima del bello.

Nella prima leggenda del Graal è detto che il Graal, pietra miracolosa che in virtù dell’ostia consacrata sazia ogni fame, apparterrà a chi per primo dirà al custode della pietra, il re quasi paralizzato dalla più dolorosa ferita: “Qual è il tuo tormento?”. La pienezza dell’amore del prossimo sta semplicemente nell’essere capace di domandargli: “Qual è il tuo tormento?”, nel sapere che lo sventurato esiste, non come uno fra i tanti, non come esemplare della categoria sociale ben definita degli “sventurati”, ma in quanto uomo, in tutto simile a noi, che un giorno fu colpito e segnato dalla sventura con un marchio inconfondibile. Per questo è sufficiente, ma anche indispensabile, saper posare su di lui un certo sguardo. Continua...
I BAMBINI
DAGLI OCCHI DI SOLE

I BAMBINI<br> DAGLI OCCHI DI SOLE










Vidi i pionieri ardenti dell’Onnipotente
superando la soglia celeste che è volta alla vita
discendere in frotta i gradini d’ambra della nascita;
precursori d’una moltitudine divina,
essi lasciavano le rotte della stella del mattino
per l’esigua stanza della vita mortale.

Li vidi traversare il crepuscolo di un’era,
i figli dagli occhi di sole di un’alba meravigliosa,
i grandi creatori dall’ampia fronte di calma,
i distruttori possenti delle barriere del mondo
che lottano contro il destino nelle arene della Sua volontà,
operai nelle miniere degli dei,
messaggeri dell’Incomunicabile,
architetti dell’Immortalità.

Nella sfera umana caduta essi entravano,
i volti ancora soffusi della gloria dell’Immortale,
le voci ancora in comunione coi pensieri di Dio,
i corpi magnificati dalla luce dello spirito,
portando la parola magica, il fuoco mistico,
portando la coppa dionisiaca della gioia,
Continua...
IL SEGRETO DELLE STELLE CADENTI
IL SEGRETO DELLE STELLE CADENTI

di Maurizio Di Gregorio

Tutti cerchiamo qualcosa. Se lo cerchiamo nel mondo materiale pensiamo di trovarlo all’esterno di noi stessi. Se lo cerchiamo nel mondo spirituale siamo portati a credere di poterlo trovare all’interno di noi. Una massima dice: la risposta è dentro di te. Una battuta invece dice: la risposta è dentro di te, ma è sbagliata. Ambedue le affermazioni sono vere perché si riferiscono a due esseri diversi. Uno vero e l’altro falso. Come si fa a sapere quale é l’Io interiore che contiene tutte le risposte della vita? Dalla felicità. Nel primo caso si sa solo che si è felici, sia pure per un attimo, si è completamente, immensamente e interamente felici e più correttamente si dovrebbe chiamarla beatitudine. Nel secondo caso sappiamo solo, che a dispetto di ogni altra cosa, momentanea soddisfazione o eccitazione, non si è veramente felici. 
Aivanhov, definendo la natura umana, parla della coesistenza di una natura inferiore e di una natura superiore. All’interno di ognuno è una continua lotta tra due esseri (o stati di essere) in competizione che Aivanhov chiama Personalità e Individualità. “Persona “ è la maschera e in ogni incarnazione la maschera è diversa, “Individualità” è l’abitante della maschera, colui che non cambia, il vero Sé divino. La personalità è in parte ancora inesistente nel bambino ma già tracciata, si sviluppa con l’età come la trama di un tessuto e si consuma nella vecchiaia. Il risveglio dell’anima consiste nel riconoscimento del Sé interiore e nell’abbandono momentaneo della maschera della personalità. Ora anche se possiamo capire qualcosa del nostro essere maschera, né la mente, né il cuore né la volontà sono risolutivi.
E questo perché mente cuore e volontà sono una triade che esiste tanto nella natura delle Individualità quanto nella natura della Personalità.
“Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” Quale è, in ogni dato momento, il cuore che chiede, la mente che cerca, la volontà che agisce? La strada dell’evoluzione spirituale, cioè della evoluzione dell’essere allo Spirito, è insidiosa perché ad ogni sviluppo della Individualità segue uno sviluppo della Personalità. Differentemente il discernimento è possibile solo dal punto di vista della Coscienza Superiore che è esattamente ciò che si illumina.
Fuori da questa esperienza si persiste sempre in un tipo di coscienza media, anche se ampliata o sofisticata, una coscienza media perché media in un equilibrio precario le necessità delle due nature....Continua...
I SETTE ASPETTI DELLA NUOVA COSCIENZA
I SETTE ASPETTI DELLA NUOVA COSCIENZA

di Ervin Laszlo

Il grande compito, la grande sfida del nostro tempo è cambiare se stessi.
Questo elenco delle principali caratteristiche della nuova visione, della nuova coscienza, è scritto per stimolare la trasformazione, perché è possibile acquisire una nuova consapevolezza, perché tutti possono evolvere, tante persone l'hanno già fatto ed è diventata una conditio sine qua non della nostra sopravvivenza sulla Terra.
La prima caratteristica è l'olismo, la visione olistica, per contrastare la visione frammentaria, disciplinaria, atomistica, che separa tutto: la mente dalla natura, l'uomo e la società dalla biosfera, e tutti i campi della realtà l'uno dall'altro. La visione olistica è proprio quella comprensione Continua...
I FIGLI DELLA LUCE
I FIGLI DELLA LUCE




 


I Figli della Luce si nutrono di Pace, Libertà, Amore, Giustizia, Grazia, Benevolenza, Comprensione, Compassione, Generosità, Bontà, Luce, Verità, Positività, trasmettendo tutto questo intorno a loro. Le creature che vengono in contatto con i Figli della Luce percepiscono la Positività dell’operato della “Luce Amore” e uno stato di benessere entra in loro. Non sono consapevoli della fonte di questa Positività, ma stanno volentieri in compagnia dei Figli Luce dispensatori d’Amore.
Continua...
UNA SPIRITUALITA' ECOLOGICA
UNA SPIRITUALITA' ECOLOGICA

di Matthew Fox

L’ecologia e la spiritualità sono le due facce della stessa medaglia. La religione deve lasciar andare i dogmi in modo da poter riscoprire la saggezza del mondo.
Come dovrebbe essere una religione ecologica? Negli ultimi 300 anni l’umanità è stata coinvolta in una grande desacralizzazione del pianeta, dell’universo e della propria anima, e questo ha dato origine all’oltraggio ecologico. Saremo capaci di recuperare il senso del sacro?La religione del futuro non sarà una religione in senso stretto del termine, dovrà imparare a lasciare andare la religione. Il Maestro Eckhart, nel quattordicesimo secolo disse, “Prego Dio di liberarmi da Dio”. Per riscoprire la spiritualità, che è il cuore autentico di ogni religione vera e fiorente, dobbiamo liberarci dalla religione. Sembra un paradosso. La spiritualità significa usare il cuore, vivere nel mondo, dialogare con il nostro sé interiore e non semplicemente vivere a un livello organizzativo esterno.
E. F. Schumacher, nel suo profetico modo di scrivere, disse, nell’epilogo di Piccolo è bello, “Dappertutto la gente chiede, ‘Cosa posso fare praticamente?’ La risposta è tanto semplice quanto sconcertante, possiamo, ciascuno di noi, mettere in ordine la nostra casa intima, interiore. Per far questo non troviamo una guida nella scienza o nella tecnologia, poiché i valori sui quali esse si poggiano dipendono sommamente dal fine per il quale sono destinate. Tale guida la si può invece ancora trovare nella tradizionale saggezza dell’umanità”.
Tommaso d’Aquino, nel tredicesimo secolo disse, “Le rivelazioni si trovano in due volumi – la Bibbia e la natura”. Ma la teologia, a partire dal sedicesimo secolo, ha messo troppa enfasi nelle parole della Bibbia, o del Vaticano o dei professori, ha messo tutte le uova nel paniere delle parole, parole umane, e ha dimenticato la seconda fonte della rivelazione, la natura!
Il Maestro Eckhart disse, “Ogni creatura è la parola di Dio e un libro su Dio”. In altre parole, ogni creatura è una Bibbia. Ma come ci avviciniamo alla saggezza biblica, alla saggezza sacra delle creature? Col silenzio. C’è bisogno di un cuore silente per ascoltare la saggezza del vento, degli alberi, dell’acqua e della terra. Nella nostra ossessiva cultura verbale, abbiamo perso il senso del silenzio. Schumacher disse, “Siamo ormai troppo intelligenti per sopravvivere senza saggezza”. Continua... 
SULL'ANARCHIA BUDDISTA
SULL'ANARCHIA BUDDISTA di Gary Snyder

Da un punto di vista buddista, l'ignoranza che si proietta nella paura e nel vano appetito impediscono la manifestazione naturale. Storicamente, i filosofi buddisti non hanno saputo analizzare fino a che punto l'ignoranza e la sofferenza erano dovuti o favoriti da fattori sociali, considerando il timore e il desiderio come fatti intrinseci alla condizione umana. Così, la filosofia buddista si interessò principalmente alla teoria della conoscenza e la psicologia fu svantaggiata, per dare più spazio allo studio dei problemi storici e sociologici. Anche il buddismo Mahayana possiede un'ampia visione della salvezza universale, la sua realizzazione effettiva si è concretizzata nello sviluppo di sistemi pratici di meditazione per liberare a una minoranza di individui da blocchi psicologici e condizionamenti culturali. Il buddismo istituzionale è stato chiaramente disposto ad accettare o a ignorare le disuguaglianze e le tirannie sotto il sistema politico che vigeva. È stata come la morte del buddismo, posto che è comunque la morte che riesce a far comprendere il significato della compassione. La saggezza senza compassione non sente dolore.
Continua...
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MARTA E MARIA



di Roberto Assagioli 
 
 “Ora, mentre essi erano in cammino, Egli (Gesù) entrò in un villaggio e una certa donna, per nome Marta, Lo ricevette in casa sua. Ella aveva una sorella chiamata Maria, la quale postasi a sedere ai piedi di Gesù, ascoltava le parole di Lui. Ma Marta era distratta dalle molte cure del servire a tavola e venne e disse: “Signore non T’importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma Gesù le rispose: “Marta, Marta, tu t’affanni e t’inquieti di molte cose, ma una cosa sola è necessaria, e Maria ha scelto la miglior parte che non le sarà tolta”.
(Luca, 10, 38-42).
 
Il Vangelo è stato chiamato “il libro non letto”. Certo esso è il libro generalmente non compreso e soprattutto non seguito. Se i sublimi precetti ivi contenuti fossero rettamente intesi e veramente praticati, la vita degli uomini presenterebbe un aspetto ben diverso.
 
Nell’attuale risveglio di aspirazioni spirituali - aspirazioni fervide e sincere, ma ancora alquanto confuse, ondeggianti e incerte intorno alle migliori vie da seguire, alle precise mete da proporsi - spesso si suole porre la questione se il Vangelo possa appagare in modo soddisfacente le esigenze delle anime moderne, oppure se queste abbiano bisogno di diverso cibo. Mentre da un lato vi è chi propugna un vero e semplice “ritorno al Vangelo” quale unico farmaco dei mali religiosi, morali e sociali che ci travagliano, dall’altro vi è chi si chiede addirittura (servendosi di un’espressione di cui fanno volentieri uso e abuso certi filosofi contemporanei) se il Vangelo non sia “superato”.
 
Che i valori etico-spirituali affermati ed esemplificati nel Vangelo abbiano carattere universale ed eterno, che essi rispondano a delle esigenze intime e perenni dell’animo umano, e che quindi non possano venire “superati” mi sembra così evidente da non richiedere dimostrazione. Merita invece più attento ed ampio esame la questione se il Vangelo possa rispondere a tutte le domande dell’uomo moderno, se possa appagare tutte le fami e tutte le seti della sua anima.
 
Non sono pochi coloro che ritengono sarebbe opportuna, anzi necessaria, un’integrazione del Vangelo con gli altri elementi di conoscenza e di azione spirituale - elementi che in parte si ritrovano nelle esperienze di antiche e lontane civiltà, negli insegnamenti di altre concezioni filosofico-religiose, e in parte sono invece il portato di nuovissimi sviluppi e conquiste dell’anima moderna. Con tale integrazione si potrebbe forse giungere a formare una grande sintesi di una ricchezza e di una universalità ancora non raggiunte nella storia. Ma non è mio proposito trattare qui tale questione.
 
Vi ho accennato sia per proporla come una delle più fondamentali e attuali alla meditazione di tutti coloro che si occupano dei problemi dello Spirito, sia per avere occasione di far rilevare che anche coloro che ritengono necessaria l’integrazione suaccennata, sentono profondamente l’opportunità di riaccostarsi al Vangelo con animo puro, interpretandolo alla luce delle nostre nuove conoscenze per scoprirne le applicazioni ai problemi dell’ora, e soprattutto per tentare di attuarne in modo sempre meno imperfetto gli altissimi principi nella vita quotidiana.
 
L’episodio che abbiamo scelto contiene un insegnamento che, fra tutti gli altri contenuti nel Vangelo, è forse quello meno compreso, apprezzato e seguito nella vita moderna, ed è perciò quello che merita uno studio più attento e accurato, e che può riuscire più benefico degli altri.
 
Per meglio comprendere il profondo significato del monito di Gesù, soffermiamoci un po’ a rievocare la scena che si è svolta nella casa di Betania. L’arrivo inatteso di Gesù ha certo prodotto una forte impressione sull’animo delle due sorelle, ma il modo nel quale l’una e l’altra hanno reagito psicologicamente all’evento è stato molto diverso. Entrambe hanno sentito sorgere in sé un desiderio vivissimo di fare onore all’Ospite, ma quanto è stato diverso il modo delle loro onoranze!
 
Marta, con la sua mentalità “borghese”, si è preoccupata di dimostrare la propria premura e devozione, preparando un lauto pranzo e imbandendo la tavola con quanto di meglio esse possedevano. Così ella onorava il corpo, la personalità esterna di Gesù.
 
Maria invece, con atto interiore e spontaneo, onorò lo Spirito di Lui, e mentre in apparenza nulla faceva, nulla dava, ma solo ascoltava estatica le parole di Luce che fluivano dalle labbra di Gesù, in realtà Gli offriva la cosa a Lui più gradita e più preziosa, l’unica forse che desiderasse ardentemente e che solo dagli uomini potesse ricevere: la comprensione del Suo Divino Messaggio, la dedizione completa all’ideale di cui Egli era l’incarnazione vivente.
 
Quante volte il Suo cuore riboccante di amore deve aver sanguinato urtando contro i duri e chiusi cuori degli uomini; quante volte la Sua anima deve aver sofferto per lo scetticismo, l’aridità, il torpore e la malvagità degli uomini - e non solo degli scribi e dei farisei, ma, quel che è ben più doloroso, anche degli uomini più vicini e più cari, di coloro che si chiamavano Suoi seguaci!
 
Il loro frequente fraintendimento delle Sue parole, il loro sonno durante l’agonia del Getsemani, il triplice rinnegamento di Pietro, per non parlare del tradimento di Giuda, ci danno prove palesi della grande distanza che esisteva fra Gesù e gli altri uomini, la cui acuta consapevolezza ha costituito l’aspetto più intimo e nascosto, ma forse il più penoso della Sua “Passione”.
 
Quanto dunque il cuore sensibile di Gesù deve aver gioito nel provare la rara dolcezza della comprensione, dell’intima comunione di anima che Gli largiva Maria, nella sua immobilità raccolta, nel suo estatico silenzio. Pure Gesù scorgeva che anche la buona Marta Lo onorava come meglio sapeva e poteva, e apprezzando il suo prosaico omaggio, si preparava a gustare il lauto pranzo che la solerte massaia Gli stava apprestando. Egli la lasciava alle sue faccende e non la obbligava a seguire discorsi, ad ascoltare ammaestramenti che non avrebbe saputo comprendere.
 
Ma Marta non aveva la discrezione di Gesù. Non paga di agire a modo proprio, volle imporre alla sorella di fare quello che essa faceva - anzi osò rivolgere un indiretto rimprovero a Gesù perché Egli stesso non induceva Maria a seguire il suo esempio: “Signore, non t’importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”.
 
Questa mossa aggressiva della troppo energica e invadente massaia obbligò Gesù ad uscire dal Suo condiscendente riserbo e ad ammonirla con parole calme, ma severe ed efficaci, ricche di profondo e universale significato: “Marta, Marta, tu ti affanni e t’inquieti di molte cose, ma una cosa sola è necessaria, e Maria ha scelto la miglior parte che non le sarà tolta”.
 
Che cosa dice ora a noi il monito di Gesù? Varie e fondamentali sono, a mio parere, tali applicazioni, ma per attuarle occorre prima renderci chiaro conto della vera natura e delle varie modalità di ciò che noi chiamiamo “azione”.
 
Marta e Maria vengono generalmente considerate quali simboli dell’azione e dell’inazione. Questa interpretazione può essere giusta, se si intende per “azione” l’ordinario e ristretto senso di attività esterna; ma in realtà non mette in esatto rilievo l’intima natura delle sue contrapposte funzioni, e ha quindi dato luogo ad equivoci e ad erronee deduzioni pratiche. In realtà il problema dell’“azione” è molto più difficile e complesso di quanto possa sembrare a tutta prima. Ben lo seppero gli antichi saggi dell’India che trattarono con profondità questo problema vitale. Dice l’ignoto autore della Bhagavad Gita, il grande poema filosofico-religioso contenuto nel Mahabharata:
 
“Che cos’è l’azione, che cos’è l’inazione? Su questo punto anche i Saggi sono perplessi… Difficile ad intendere è la natura dell’azione. Saggio fra gli uomini e devoto nel compiere ogni azione è colui che sa vedere l’inazione nell’azione e l’azione nell’inazione”.
 

Vediamo qual è il significato di questo apparente paradosso. I criteri con i quali l’uomo ordinario giudica ciò che si riferisce all’azione, sono del tutto esterni, quantitativi e meccanici. “Uomo d’azione” è, secondo lui, chi produce effetti tangibili e visibili, chi guadagna molto denaro, chi costruisce grandi edifici, chi comanda a molti uomini. Invece, meditazione e contemplazione sono per lui sinonimo di vano sogno, di inerzia e di sterilità. Egli considera il meditativo, il mistico, al pari del poeta, come:
 
“un perdigiorno
  che va attorno
  dando il capo nei cantoni
  e gli occhi svaria
  dietro gli angeli e i rondoni”,

 (G. Carducci)
 
Questa convinzione è molto diffusa; perciò è opportuno mettere bene in luce come essa sia fondamentalmente errata. Chi esamini con attenzione, senza lasciarsi ingannare dalle apparenze, la vera natura della cosiddetta “attività” che impera oggidì, si accorgerà facilmente che essa è in gran parte orpello, non oro; affaccendamento, strepito, logorio, agitazione e attivismo, non vera azione. Caratteri essenziali di questa - ce lo insegna la natura - sono l’armonia, l’organicità, il ritmo e soprattutto la fecondità.
 
Ahimè, a quante nostre attività tutti questi caratteri mancano! Quanto spesso esse rappresentano una vana apparenza, una sterile dispersione di forze; quanto sono simili ai calci, che, come dice argutamente Tagore “sollevano polvere bensì, ma non suscitano la fertilità della terra”. (Uccelli Migranti, n. 228)
 

L’uomo d’affari già ricco, che seguita a fare una vita affannosa per accumulare maggiori ricchezze di cui non solo non farà uso nobile e fecondo, ma da cui non avrà neppure il tempo di trarre godimenti egoistici; l’uomo politico che, assillato dall’ambizione, si arrabatta senza tregua per salire sugli effimeri piedistalli delle cariche pubbliche, ordendo mille intrighi, e non rifuggendo da bassezze; la signora mondana che corre ansante da un ricevimento ad un the, da un pranzo a un teatro, sempre affaccendata con le sue tinture e con i suoi gioielli, per riportare i futili trionfi della vanità; tutti costoro sono forse veramente “attivi”? O quel loro vano aggirarsi senza posa nella ristretta cerchia delle loro meschine preoccupazioni non somiglia invece alla ridicola ostinazione con cui certi cani girano intorno a se stessi cercando di acchiapparsi la coda?
 
E v’è di peggio. Vi sono infatti attività decisamente nocive, di carattere distruttivo, come gli atti che offendono il carattere sacro della vita; tanto quelli che mutilano i corpi, quanto quelli che feriscono e pervertono gli animi; tutta la triste gamma delle colpe e dei delitti, sia quelli riconosciuti e condannati dai codici, sia quelli che sfuggono alle punizioni umane, ma non all’impero infallibile della legge morale.
 
In tutte queste manifestazioni, ripeto, l’uomo non è veramente “attivo”. In questi casi egli si lascia travolgere passivamente dagli istinti e dalle passioni, illudere dai miraggi, sospingere dalle suggestioni e dalle abitudini.
 
Particolarmente forte e frequente è l’influsso che esercita su di noi la suggestione sia individuale che collettiva, così che molto spesso, mentre abbiamo l’illusione di agire indipendentemente, siamo invece trascinati, senza che ce ne accorgiamo, da una corrente esterna. Narrerò a questo proposito un piccolo fatto, realmente avvenuto, che costituisce un chiaro esempio della forza dell’imitazione inconscia.
 
Un mio amico, che era appena arrivato a New York e non aveva nulla da fare, uscì dall’albergo col proposito di girellare tranquillamente per la città. Ma dopo pochi minuti si accorse che stava andando a passo di carica ed era ansante. Meravigliato, rallentò l’andatura, ma dopo poco si accorse che di nuovo andava a passo di carica! Tutti intorno a lui andavano in gran fretta, ed egli aveva subito in modo irresistibile la tacita ma imperiosa suggestione del loro esempio.
 
Invece, sotto l’apparenza dell’inazione, nel cuore del silenzio, si suole celare la vera attività dell’essere profondo. Come nella natura esterna, così nella vita dell’uomo ogni atto creativo, ogni inizio e impulso originario, ogni “slancio vitale” si producono nell’oscurità, nella quiete e nell’apparente immobilità. I semi germogliano nelle tenebre ricoperti da un duplice strato di brune zolle e di candida neve; le acque sorgive zampillano tanto più vivaci e pure quanto più riposta, nelle viscere della terra, è la vena che le alimenta. Così nell’uomo, l’intimo lavorio per mezzo del quale egli fa se stesso e sviluppa i propri poteri, la faticosa elaborazione e assimilazione dei materiali di esperienza raccolti nella vita esterna, l’aspro travaglio che precede ogni feconda ispirazione, insomma, ogni atto veramente produttivo e creativo si svolge nel raccoglimento, nel silenzio, nelle regioni interne dell’animo.
 
L’uomo moderno, la cui attenzione è sempre rivolta verso l’esterno, che è continuamente distratto dalla fantasmagoria delle apparenze, non sospetta nemmeno la realtà, la concretezza e la ricchezza di quel mondo interno, la potenza delle forze che vi si agitano, l’importanza degli avvenimenti che vi si svolgono. Lungi dall’essere il mondo dell’inerzia e dei vani sogni, esso è il mondo delle cause efficienti, di cui ogni manifestazione esterna e visibile è solo il risultato e l’effetto.
 
Esiste, è vero, nel mondo interno la regione dei vani sogni, delle sfibranti nostalgie, dei queruli lamenti, dei sentimentalismi morbosi; la regione della sterile critica, del dubbio pauroso, della molle pigrizia, dell’inerzia vergognosa. Ma questo non è il vero mondo interiore; è una regione intermedia, ove si rifugiano i deboli, gli aridi e i vili, tutti coloro che non sanno o non vogliono affrontare coraggiosamente né le difficoltà della vita moderna, né quelle, non meno grandi, della vera vita interiore. Questa è, non meno di quella, rude milizia, sforzo e affermazione.
 
Nel vasto mondo dell’anima vi sono le cime radiose della contemplazione spirituale, in cui ogni sforzo sparisce, in cui l’uomo si abbandona completamente all’azione dello Spirito; ma per raggiungere queste altezze, è necessario percorrere un lungo e faticoso cammino; per conseguire lo stato in cui è possibile la pura contemplazione occorre un lavoro assiduo e metodico di purificazione, di “ascesi” e di ascesa.
 
Per mettere bene in luce e in maggior chiarezza i vari rapporti che intercorrono fra attività esterna e attività interna, prendiamo brevemente in esame i due tipi opposti di anomalie e di traviamenti che si hanno nel campo dell’azione, e i metodi per correggerli. Una di queste anomalie è costituita dall’impulsività, l’altra dall’abulia.
 
Gli impulsivi, i violenti e gli irrequieti sono coloro il cui potere centrale dell’inibizione non riesce a disciplinare e a dominare convenientemente le forze istintive e passionali, sia per l’eccessiva intensità di queste, sia per l’intrinseca debolezza di quello. Essi sono quindi spinti ad intraprendere molte opere, ma di rado le portano a compimento; oppure si lasciano andare a commettere atti di carattere aggressivo e distruttivo. Sono coloro che, come è stato detto poc’anzi, sollevano polvere bensì, ma non creano nulla di vitale.
 
È evidente che per questi “impulsivi”, la più alta e reale azione dovrebbe consistere nell’apparente “non agire”, in un continuo e severo dominio degli impulsi, in una serie di atti di volontà per disciplinare le incomposte energie, per obbligarle a concentrarsi e ad armonizzarsi, per purificarle ed elevarle, finché siano divenute atte ad esplicarsi, all’esterno, in opere costruttive. Questo è un chiaro esempio del come una diminuzione dell’attività esterna possa essere indice di un’intensificata azione interna.
 
L’esame degli abulici, di coloro che sono deboli, fiacchi e incapaci di agire, ci condurrà alle stesse conclusioni. È inutile infatti voler spingere un abulico ad agire; se sapesse farlo non sarebbe un abulico. Per spingere un abulico ad agire, o per guarirlo dell’abulia, occorre scoprire le cause profonde ed eliminarle. Tali cause sono più varie e complesse di quanto si creda e richiederebbero un ampio studio, ma per il nostro scopo attuale basterà accennare a qualcuna fra le principali.
 
Spesso l’abulia non è dovuta a vera debolezza, ma all’azione inibitrice di intense impressioni e di esperienze risalenti talvolta all’infanzia, e di cui la persona non serba generalmente alcun ricordo; oppure è dovuta al contrasto fra due forti tendenze coscienti o inconsce, le quali essendo di polo opposto e di intensità pressoché eguale, consumano le energie psichiche in una lotta sterile e senza soluzione. In altri casi, l’abulia è dovuta ad una eccessiva sensibilità e plasticità, per cui l’individuo subisce di continuo gli innumerevoli e contrastanti influssi dell’ambiente e diviene come una banderuola che gira a tutti i venti. Altre volte infine l’abulia è il prodotto di un’esagerata attività intellettuale di tipo critico e analitico, che dissecca le vive sorgenti dell’energia profonda. In tutti questi casi la liberazione dall’abulia e l’acquisto di un normale potere d’azione richiedono un complesso e lungo lavorio d’assestamento, di ricostruzione e di rafforzamento interno, il quale - finché non sia compiuto - non dà manifestazioni visibili, ma che è vera azione e fonte di tutte le future attività.
 
Quello che è vero per i casi estremi degli impulsivi e degli abulici, è altrettanto vero per tutti gli uomini, per ognuno di noi. Troppo spesso dimentichiamo che non la quantità delle opere ha valore, bensì la qualità dell’azione, e che anche verso gli altri e per il loro bene, il primo e più urgente dovere è quello di migliorare noi stessi.
 
“Ogni anima che si eleva, eleva il mondo” ha detto una mistica moderna, Elisabetta Leseur. Ogni passione domata e ogni errore corretto, significano un pericolo di meno per tutti; ogni nuova luce di saggezza che risplende in noi, ogni nuova forza morale sviluppata, ogni sentimento superiore suscitato, costituiscono già di per se stessi un beneficio per l’umanità. Questi tesori spirituali tendono da sé a diffondersi in mille modi, senza sforzo cosciente, anche a nostra insaputa, manifestandosi in ogni parola e in ogni atto, con un’irradiazione invisibile ma potente. Invece, di solito, trascuriamo questo dovere fondamentale e presuntuosi, impazienti e leggeri ci sobbarchiamo senza esitare all’arduo compito di migliorare… gli altri. Appena abbiamo qualche piccola moneta ci affrettiamo a fare i benefattori e i filantropi, senza pensare alla piccolezza del nostro dono, ai debiti interni che abbiamo accora da pagare, senza ricordare che, come dice Tagore in uno dei suoi fini e saggi aforismi: “Chi è troppo assorto nel fare il bene, non ha tempo per essere buono”. (Uccelli Migranti, p. 184).
 
Se infatti esaminiamo con piena sincerità i motivi che ci spingono ad affaccendarci per aiutare gli altri, troviamo spesso che non sono poi così puri e alti come ci parevano; in quella lega luccicante scopriamo, commisti all’oro, i bassi metalli della vanità, della presunzione e del proselitismo, e - elemento più sottile e celato - il desiderio di acquietare la nostra coscienza, di avere un pretesto per non intraprendere un faticoso compito di purificazione interna.
 
Ma anche quando mancano questi moventi inferiori, anche quando i motivi sono puri, si può commettere l’errore suaccennato, per debolezza, per condiscendenza, per ignoranza, per una concezione troppo angusta ed esteriore del dovere.
 
“Evitiamo - ci ammonisce con immagine suggestiva Maurizio Maeterlink - evitiamo di agire come quel guardiano del faro, di cui narra la leggenda, che distribuiva ai poveri delle vicine capanne l’olio delle lampade che dovevano rischiarare l’oceano. Ogni anima, nel suo centro, è la guardiana di un faro, più o meno necessario. La madre più umile che si lascia rattristare, assorbire e annientare tutta dai suoi ristretti doveri di madre, dà il suo olio ai poveri, e i suoi figli soffriranno durante tutta la vita per il fatto che l’anima della loro madre non sia stata tanto chiara quanto avrebbe potuto esserlo. La forza immateriale che riluce nel nostro cuore deve risplendere anzitutto per se stessa. Solo in tal modo essa potrà risplendere per gli altri. Per quanto sia piccola la vostra lampada, non date mai l’olio che l’alimenta, ma la fiamma che la incorona.” (La Sagesse et la Destinée, p.167).
 
 
Se consideriamo con attenzione le vite di coloro che hanno maggiormente beneficato l’umanità, recando soccorso non solo ai corpi ma anche agli animi, troveremo che il loro apostolato è stato sempre preceduto da lunghi periodi di raccoglimento o di apparente inazione, nei quali in realtà essi suscitavano e concentravano potentemente le energie spirituali che dovevano poi erompere ed effondersi in modo irresistibile - “ex plenitudine contemplationis”, secondo la bella espressione di S. Tommaso - producendo effetti meravigliosi.
 
La vita di Gesù ce ne offre un chiaro esempio. È significativo il fatto che nulla ci sia stato tramandato intorno alla vita di Lui dai 12 ai 30 anni. Varie ipotesi sono state proposte per colmare quella lacuna: si è accennato a un periodo di istruzione o di iniziazione nelle scuole segrete degli Esseni; si è pensato a viaggi in altre regioni, o a contatti con altre correnti di sapienza spirituale. Siano vere o no tali ipotesi, resta il fatto che per 18 anni Gesù si è appartato dalla vita comune degli uomini e, in un modo o nell’altro, solo o in comunità, ha svolto un’opera silenziosa di preparazione interna, i cui effetti si sono poi manifestati visibilmente fra gli uomini per solo tre anni, ma con tale potenza che ancora perdurano, dopo venti secoli. La stessa via hanno seguito i maggiori mistici. Così, ad esempio, S. Caterina da Siena visse per alcuni anni in un’angusta stanzetta della casa paterna, ma quando ne uscì percorse instancabilmente le terre d’Italia e di Francia, ammonendo e piegando ai suoi voleri di bene principi e papi, componendo odi tenaci e risvegliando innumerevoli anime.
 
Ma il raccoglimento, l’esame di coscienza, la meditazione, la preghiera e la contemplazione - insomma tutti gli elementi essenziali del lavoro interno - non costituiscono soltanto la preparazione indispensabile per l’azione esterna; ne sono anche i continui e necessari ispiratori e ravvivatori, il perenne alimento.
 
Anche di questa grande legge troviamo nella vita di Gesù chiara conferma. Espliciti a questo riguardo sono gli accenni che si trovano nel Vangelo. “Dopo aver licenziato le turbe - racconta Matteo - Gesù si ritirò in disparte sul monte per pregare”. E Marco: “La mattina, mentre era ancora molto buio, Gesù si levò e se ne andò in luogo solitario e quivi si mise a pregare”. Luca conferma e precisa che Gesù, prima di compiere gli atti più importanti della sua vita, soleva raccogliersi ed orare lungamente. Così, prima di scegliere fra i suoi seguaci i dodici apostoli e di pronunciare il Sermone delle Beatitudini… “Egli se ne andò sul monte a pregare e passò la notte in orazione a Dio” (VI, 12); e la notte del Getsemani, Egli trasse di nuovo dalla preghiera, dall’intima comunione con il Padre, la forza sovrumana che lo fece andare liberamente e coscientemente incontro all’olocausto e lo sorresse durante le ore della Passione. Lo stesso metodo hanno seguito poi tutti i suoi più grandi “imitatori”, gli apostoli più attivi, da San Paolo a Santa Teresa; da San Francesco di Sales a San Vincenzo di Paola.
 
Che tali stretti rapporti di integrazione e di avvicendamento fra vita interna e vita esterna abbiano carattere universale e costituiscano una condizione necessaria per un’armonica e benefica esistenza umana, ci è confermato dal fatto che essi erano stati scoperti e attuati anche in civiltà diverse e lontane dalla nostra. Basterebbe il modo preciso con il quale è impostato e risolto il problema dell’azione nella Bhagavad Gita per mostrarci come gli antichi saggi indiani fossero giunti alle stesse conclusioni dei santi cristiani.

Ne troviamo inoltre una conferma pratica e un alto esempio nella vita del più grande fra gli Indiani, Gautama Buddha. Dopo che la rivelazione del dolore universale lo ebbe spinto a fuggire dalla casa paterna per ricercare la verità liberatrice, egli si dedicò indefessamente, per lunghi anni, alla vita interna. Dopo vari tentativi infruttuosi, dopo aver provato inutilmente i metodi dell’ascetismo, egli trovò con l’ascesi puramente interiore, con un metodo di raggiungimento e di sviluppo di stati sempre più alti di meditazione e di contemplazione, la Luce suprema. E nel successivo apostolato svolto durante mezzo secolo, percorrendo tutta l’India e convertendo milioni e milioni di uomini, egli insegnò e raccomandò con particolare insistenza la pratica di quelle attività interne.
 
Soltanto nella nostra civiltà moderna tali principi universali sono ignorati e disprezzati; solo da noi Marta viene proposta come esempio o esaltata, mentre Maria viene ignorata e svalutata. Spero però di essere riuscito a dimostrare come tale atteggiamento sia erroneo e abbia conseguenze perniciose; come molte fra le più gravi deficienze e i maggiori mali della vita contemporanea provengano da quella causa.
 
Tutto è ritmico, sia nella natura esterna che nell’interna, e come vi è l’estate e l’inverno, il giorno e la notte, la veglia e il sonno, vi dovrebbe essere in ogni vita ordinata e armonica un’alterna vicenda di raccoglimento e di azione esterna. Non occorre che tale ritmo alterno abbia la rigidità e la necessità dei cicli in cui sono costretti i fenomeni naturali; esso può adattarsi in modo plastico e opportuno alle varie condizioni o esigenze psicologiche e pratiche della complessa vita umana; ed è applicabile da chi voglia veramente farlo. La saggia distribuzione del tempo già praticata nel passato: ogni giorno due periodi di raccoglimento, la mattina per la meditazione e la preparazione all’attività pratica, la sera per l’esame interno; ogni settimana, dopo sei giorni dedicati prevalentemente a Cesare, un giorno dedicato prevalentemente a Dio; ogni anno, almeno, un più lungo ritiro, nel quale si abbia agio di svolgere un più efficace e serrato lavoro di perfezionamento interno.
 
Fin qui, credo, non sarà difficile avere il consenso di ogni mente aperta, di ogni animo che aspiri al bene; ma ora dobbiamo affrontare una questione sulla quale vi sarà meno facile accordo. Si tratta del modo di considerare e di apprezzare i “contemplativi” puri, coloro che, abbandonata la vita comune degli uomini, non ritornano nel “mondo”, ma restano nei chiostri e negli eremi. Può sembrare che essi violino quella legge di equilibrio ritmico fra vita esterna e vita interna a cui abbiamo or ora accennato e può sorgere il sospetto che si tratti di esagerazioni e di degenerazioni del misticismo. Si può pensare che quei contemplativi non sappiano serbare la giusta misura; dei deboli, dei naufraghi o disertori della vita. Che in taluni casi ciò possa essere vero, almeno in parte, credo che si debba imparzialmente ammettere; ma, fatta questa riserva, si può affermare che i veri mistici e i grandi contemplativi hanno una reale ed effettiva funzione nella vita dell’umanità; che essi pure sono attivi, anzi, quando giungono a realizzare i più alti fini della loro vocazione, diventano capaci di svolgere un genere di attività che richiede la concentrazione più intensa e continua delle energie psichiche, e il più diretto dominio della materia da parte dello Spirito, che può produrre effetti benefici ampi e potenti.
 
Tanto radicato è l’atteggiamento materialistico ed estroverso della civiltà moderna che anche coloro che si proclamano “spiritualisti” spesso non apprezzano o non intendono questa particolare forma di attività umana. Nel seno stesso delle chiese, nei tempi moderni, la vita contemplativa ha avuto un sempre minor numero di seguaci; eppure vi sono prove chiare e sicure dell’efficacia delle forze spirituali che vengono irradiate dalle anime superiori, accese dal fuoco della contemplazione. Tali prove, se sfuggono agli sguardi superficiali e alle menti prevenute, si manifestano chiare ad una considerazione attenta e imparziale. Le numerose e concordi testimonianze che di quella potenza ritroviamo nella storia di ogni popolo, non possono venire ignorate.
 
L’irradiazione di silenziose preghiere, molte strane guarigioni, le conversioni operate a distanza, l’influsso di una persona raccolta in orazione percepito da coloro verso i quali veniva coscientemente diretta, e talvolta la sensazione della presenza reale della persona stessa, sono fatti che possono meravigliare, ma che non devono essere negati a priori, in base a preconcetti dottrinari e ad avventate sentenze di impossibilità.
 
Meno che mai è lecito farlo, ora che la scienza della materia - con le sue nuovissime scoperte - va rapidamente superando se stessa e fornendo valide prove per la conferma delle concezioni spirituali. I fatti di telepatia, di telecinesi e di ideoplastia, che alcuni uomini di scienza hanno ormai sicuramente accertato, dimostrano che le forze psichiche possono agire oltre i limiti dell’organismo fisico, e possono plasmare e far vibrare la materia direttamente a distanza. Dopo la dimostrazione dell’esistenza di tali poteri, chi ha più il diritto di segnare nuovi limiti? Con quali argomenti si può negare l’efficacia degli atti spirituali dei contemplativi e dei mistici?
 
Anche per altre vie possiamo aver conferma di quell’efficacia. Vediamo ogni giorno quanto più potente sia l’attività mentale della sola attività muscolare per modificare il mondo esterno. Lo sforzo mentale temporaneo richiesto per inventare una macchina e dirigerne la costruzione ci dà un mezzo per risparmiare somme incalcolabili di energie muscolari, e anche per produrre effetti che con nessuna quantità di sforzi muscolari si potrebbero ottenere. Orbene, molti fatti e considerazioni ci inducono ad ammettere che un rapporto consimile esiste anche fra l’energia mentale e quella spirituale; che questa sia tanto più potente di quella, quanto quella è più potente della forza fisica.

Per queste ragioni e per altre che si potrebbero addurre, ritengo non si possa mettere più in dubbio l’efficacia dell’irradiazione spirituale diretta, e che anzi si debba giungere a riconoscerle un’intensità incalcolabile. È una vera rivelazione che apre viste sconfinate sui poteri latenti di bene nell’animo umano, e sullo stesso modo di esplicarsi dell’azione divina, e ci dà un concetto della vita e del mondo ben diversi da quelli oggi imperanti. Questa concezione non è ancora generalmente accolta, e la vita contemplativa è di rado seriamente attuata, pur dagli stessi spiritualisti moderni. Non mancano però anche voci moderne che hanno proclamato il valore e l’eccellenza dell’azione occulta dei contemplativi. Una di queste voci è quella di Giosuè Dorsi. Ecco ciò che egli attesta in una delle pagine dei suoi Colloqui:
 
“Che fanno i contemplativi? Ma fanno tutto. Fanno la sola cosa necessaria, poiché “porro unum est necessarium”. Ci si domanda come mai il mondo non sia ancora caduto in rovina dopo tanti inganni, tante colpe, tante lotte e tante miserie; come mai non sia già finito nella disgregazione, nella sterilità, nella follia e nella crapula. Ci si domanda come mai non sia stato ancora travolto in un movimento di decadenza che lo trascini nell’abisso. Ma questo si deve all’opera ignorata e oscura, ma non perciò meno potente e feconda, anzi tanto più benefica e coraggiosa quanto più compiuta nel silenzio e nel sacrificio, dei contemplativi, di quelli che amano Dio, che pregano Dio, che supplicano Dio, che ne attingono bontà, amore, forza, sapienza e abnegazione. Guardate il mondo alla superficie, esso è tutto egoismo brutale, sarcasmo, incredulità, aridità, superbia, empietà, invidia, violenza, dissoluzione, bagordo, e avidità di godimenti, ricchezze, onori e supremazia. Come non è ancora caduto in dissoluzione? Perché c’è il sale della terra, perché ci sono quelli che piangono, soffrono, perdonano, rinunciano a tutto, e amano Dio sopra ogni cosa, e il prossimo come se stessi: offrono l’altra guancia a chi li percuote, regalano la tunica a chi li chiama in giudizio per contendere il loro mantello, beneficano i loro nemici, pregano per i loro persecutori, e fanno tutto in segreto, per non essere lodati”. (Colloqui, Torino, Libreria Editrice Internazionale, pp. 126-127).
 
Un’altra voce, diversa, ma forse ancor più significativa, è quella di un poeta, che non si occupa deliberatamente di questioni religiose, ma che ha intuito ed espresso con simbolo felice la vera natura e la funzione benefica delle anime contemplative, le quali, “ignote al mondo” operano silenziosamente, per il bene dell’umanità, e non chiedono riconoscenza e gratitudine, anzi, intimamente consapevoli della fecondità della loro missione, si compiacciono della loro volontaria oscurità. Questo poeta è Francesco Chiesa, e la poesia da lui dedicata alle anime contemplative si intitola:
 
IL FIUME SOTTERRANEO
 
Ignoto un fiume agli uomini conosco,
Ove quella regale acqua attraversa,
Terra segnan le carte, rupe, bosco,
Ma il dì che ascesi alla montagna emersa,
Laggiù bassa, una qualità diversa,
D’alberi vidi, vidi serpeggiante
Nella pianura d’alberi un corteo,
Più alti e verdi, un popolo pigmeo
Sfilare, udii un cantico sovrano
Errar per entro un mormorio plebeo.
Ma della lor più lieta sorte invano
Quei grandi scesi a interrogar e venni
Tutto il dì seguendoli nel piano.
Invano; e sotto quelle ombre solenni
M’adagiai stanco, e poi che un poco il greve
Orecchio sopra l’erbe tenni.
Lento salire da non so che cave
Valli sotterra cominciò di brume
Fresche velato, un murmure soave,
Soave come l’alito di un nume
Dormente… E contro il suol meglio la gota
Calcando, intesi sotterraneo un fiume
Che profondo passa, una remota voce
Udii che cantava; Umili e oscure
Son le mie vie, la mia presenza ignota.
Intimo, angusto vò per le fessure
Della Terra, nel sole io non allieto
Queste buie acque mai, buie, ma pure;
Buie, ma dolci e gli alberi disseto
Che più cime a inalzar, affondan giù
Radici dove io scorro segreto.
Quanta in cielo gioia effondesi è virtù
Mia; sono quegli eccelsi fiori il riso
Ch’io mi vieto di ridere quaggiù.
Senza voce vò, bruno, senza volto;
Pago di udire i vertici sonanti
I roseti stormir nel paradiso,
Lassù ch’io nutro; pago se di quanti
Fiotti io trascino n’avvantaggi e cresca
Più verde un’erba ed una rama canti.
Sicuro vo, ma non minor son io
Perché m’ignori quale suono
Trattengo nel mio mormorio;
Tal grido io serbo che nel cielo strale
Mai così alto non ascese come
Il grido mio se dischiuse l’ale.
Ma più mi giova tacer, non aver nome,
Nella lingua degli uomini passare
Protetto e chiuso alle sacre chiome
Della notte, recar limpida al mare
L’acqua dell’Alpe, inverso ripetendo
Umile e cupo, il cammin delle chiare
Nuvole in cielo. Né mi duole. Orrendo
Non è già il buio in cui mi libro immune
Io mi raccolgo e le mie strade fendo.
E ben potrei queste pareti brune spezzare
Spezzare, uscire fulgido nel mondo.
Grande apparir nel vivere comune,
Ma più mi piace scorrere profondo.

 
La potente irradiazione spirituale dei contemplatori è dunque la forma più pura e più alta di azione, quella che più s’avvicina al “modus operandi” della Divinità; è insomma l’apoteosi di Maria. Ma appunto perché così elevata e quasi sovrumana, è un’attività d’eccezione, che trascende le possibilità dell’uomo ordinario, e alla quale conviene si dedichino di proposito soltanto coloro che ne hanno la vocazione, che sentono di possedere tutta la forza interna per esplicarla. Agli altri “convien tenere altro viaggio”! E per loro conforto - ora che abbiamo riconosciuto il valore e la superiorità essenziali di Maria - possiamo dire anche le lodi di Marta, della Marta ravveduta, che ha compreso il monito di Gesù, che si è riconciliata con Maria, e che continua umile e volonterosa la sua utile opera.
 
Molteplici sono i vantaggi dell’attività esterna, quando venga contenuta nei giusti limiti e sia illuminata dalla Luce dello Spirito. A parte la sua utilità diretta, essa costituisce, soprattutto per i giovani, un modo di dare sfogo alle esuberanti energie, un fecondo campo dì esperienza, una palestra ove vengono messe alla prova le virtù formate con l’interna disciplina, una fucina in cui l’acciaio della volontà subisce una nuova e più salda tempra. Ma vi è di più: il significato spirituale e gli effetti interni di qualsiasi azione dipendono essenzialmente dal movente profondo che l’ha ispirata. Esso ne è invero l’anima. Questo principio semplice ed evidente, ma troppo spesso dimenticato, ci indica una grande possibilità.

Se compiamo un’azione, sia pure la più umile, la più materiale, con animo scevro da qualsiasi attaccamento personale, se la offriamo come puro atto di amore al servizio di Dio e degli uomini, noi compiamo un atto spirituale. Questo è il prezioso compenso, il grande conforto di tutti coloro che, assetati di raccoglimento e di pace, sono obbligati dalle dure esigenze della vita pratica, dagli imprescindibili doveri familiari o sociali, a condurre una vita di assiduo e faticoso lavoro. Quando essi scoprono che con il loro atteggiamento interno possono infondere in ogni loro atto un significato spirituale; che ogni circostanza della vita esterna può essere usata come occasione di esercitare le interne virtù, insomma, che ogni gesto può divenire un rito, la loro vita si trasfigura e da meschina, arida e incresciosa diviene, come per prodigio, ricca, feconda e gioiosa.
 
Per questa via si può ascendere, grado a grado, ad una vetta non meno alta e luminosa di quella della contemplazione, e si può giungere ad uno stato nel quale l’azione esterna non impedisce l’interna vita dell’anima, e questa non distoglie da quella anzi la sorregge, la guida e la potenzia. In questo stato l’uomo ha quasi una duplice coscienza, nella quale più compiutamente si esprime la sua essenziale unità spirituale. Egli è attore e spettatore a un tempo; ad un tempo prova la gioia dell’opera feconda e quella della libera visione spirituale. Questa alta conquista è stata conosciuta, perseguita e proclamata tanto in Oriente che in Occidente.
 
Essa costituisce uno degli insegnamenti sui quali maggiormente insiste la Bhagavad Gita, come appare chiaro dai seguenti passi:
 
“Colui che è dedito alla devozione, che è puro di mente, che domina la propria natura, che domina i sensi, che identifica il suo sé con quello di tutte le creature, quantunque agisca non è contaminato”.
 
“L’uomo devoto che conosce la verità dovrebbe pensare: ‘Io non faccio nulla’. Nel vedere, nell’udire, nel toccare, nell’odorare, nel mangiare, nel muoversi, nel dormire, nel respirare… egli pensa: ‘I sensi si muovono fra gli oggetti dei sensi…’”.
 
“Colui che rinunciando all’attaccamento agisce dedicando a Brahma ogni azione, è incontaminato, come la foglia di loto dall’acqua…”.
 
“Quegli che non ha attaccamenti agli oggetti esterni ottiene la felicità che è nel Sé: col cuore intento alla devozione di Brahma ottiene Gioia infinita…”.
 
“I saggi, i cui peccati sono distrutti, i cui dubbi si sono dileguati, padroni dei propri sensi, intenti al benessere di ogni creatura, padroni di sé, conseguono la pace di Brahma”. (Canto V).
 
E un altro testo di sapienza orientale, La Voce del Silenzio, ammonisce: “I rami di un albero sono scossi dal vento; il tronco rimane immobile. Tanto l’azione che l’inazione possono trovare posto in te. Il tuo corpo affaccendato, la tua mente tranquilla, la tua anima limpida come un lago di montagna”.
 
Questa grande sintesi è stata attuata e insegnata anche in Occidente. San Paolo esorta i Corinzi: “Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate altra cosa, fate tutto a gloria di Dio”. (Cor. 1, 10). E similmente ai Colossesi: “Qualunque cosa facciate in parola o in opera, fate tutto nel nome del Signore Gesù, rendendo, per mezzo di Lui, grazie a Dio Padre”. (III, 17).
 
Tale atteggiamento è stato poi determinato e fissato in uno speciale esercizio, col nome di “Esercizio della Presenza di Dio”, dai dottori e dai mistici, i quali lo raccomandano come base della vita spirituale.
 San Gregorio insegna: “Dobbiamo tenere presente il ricordo di Dio non meno spesso di quanto respiriamo” (X). E Sant’Ambrogio: “Come non vi può essere un momento nel quale l’uomo non usufruisce della bontà e della misericordia di Dio, così non vi deve essere alcun momento in cui non Lo abbiamo presente”. (De Dignitate Conditionis humanae).
 Ricordiamo infine il buon Frate Lorenzo della Resurrezione, il quale con deliziosa semplicità narra “del gioioso senso della Presenza di Dio”, che egli aveva mentre era affaccendato nella cucina del convento.
 
Questo alto ideale è particolarmente adatto per la vita moderna, poiché non impone limitazioni alle nostre necessarie attività esterne, non ci obbliga ad abbandonare alcun compito, a trascurare alcun dovere. La trasformazione che richiede è tutta interna. È arduo raggiungerlo, ma i grandi Spiriti del passato ci attestano che è possibile farlo e ci invitano all’alta meta. Da quella vetta luminosa scendono le onde di una mirabile armonia; è l’unione di due purissime note, è l’abbraccio spirituale di Marta e di Maria.
 
Roberto Assagioli
(Archivio Assagioli - Firenze)


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