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USA, PIU' GRANDE PRODUTTORE DI PETROLIO E GAS
I dati diffusi da Bank of America, ma il declino sarà rapido- Se l’Europa giocasse le sue carte sull’economia verde, questa potrebbe essere una buona notizia (anche) per noi
Il D-day per la rivoluzione energetica americana è arrivato prima del previsto. Secondo i dati raccolti e diffusi oggi in un rapporto da Bank of America, una delle più grandi banche commerciali al mondo, gli Stati uniti hanno raggiunto la vetta dei produttori di energia fossile: nei primi 6 mesi dell’anno nessun’altro ha prodotto più petrolio greggio, neanche l’Arabia saudita. Un dato che, sommato all’altro record di produzione energetica (quello di gas naturale, conquistato già nel 2010) dà una prospettiva più chiara del successo economico che è tornato da tempo a contraddistinguere le performance americane.
«La rivoluzione shale americana ha trasformato gli Stati Uniti e le economie mondiali negli ultimi anni – confida a Bloomberg Francisco Blanch, il capo dell’unità di ricerca sulle Commodities di Bank of America – E i bassi prezzi dell’energia sono un vantaggio chiave dell’economia Usa». Una sterzata che si è accentuata nel corso degli anni. Già in un rapporto del 2013, l’International Energy agency prevedeva il sorpasso degli Usa sull’Arabia, ma lo collocava nel 2016, tra due anni. Gli Usa hanno anticipato i tempi, mentre – anche per l’accrescersi delle tensioni geopolitiche a livello internazionale – i più tradizionali paesi petroliferi hanno accresciuto la loro produzione «meno del previsto», e questo ha indubbiamente favorito lo zio Sam nella conquista della prestigiosa classifica. Oltre, ovviamente, a mantenere alti il livello dei prezzi mondiali dell’energia.
Nessun pasto però è gratis, e gli Usa stanno pagando cara la loro scorpacciata di petrolio. Gli investimenti annuali in petrolio e gas negli Stati Uniti hanno raggiunto «il record di 200 miliardi dollari», sottolinea Blanch. Una cifra enorme, che sta garantendo agli Usa un vantaggio competitivo incredibile sul terreno dell’economia globalizzata, ma comunque con l’aspettativa di un fuoco di paglia. Secondo il già citato report della Iea il primato statunitense nella produzione di energia fossile è destinato rapidamente a declinare, entro il 2020 (e probabilmente prima, dato che gli Usa sembra stiano bruciando tutte le tappe). Una visione rafforzata da altri autorevoli studi, come il discusso Energy: A reality check on the shale revolution di cui già abbiamo dato nota sulle nostre pagine.
L’enorme mole degli investimenti riversata sullo sviluppo dell’estrazione di gas e petrolio da scisti distrae importanti risorse sull’unica energia competitiva a medio-lungo termine, quella rinnovabile. Il governo federale di Obama cerca di colmare il vuoto, ma tenendo il piede in due staffe il passo è incerto.
L’occasione offerta dallo shale appare troppo ghiotta in territorio Usa per potervi rinunciare, e l’andamento economico attuale premia questa scelta di campo. Ma apre anche spazi d’azione importanti per la Cina, che sta investendo moltissimo nel campo dell’energia pulita, e soprattutto l’Unione europea.
Per il Vecchio continente è arrivato il momento non di rincorrere gli Stati Uniti sulla strada dello shale (impraticabile nel contesto europeo a causa dei rischi ambientali, già estremamente problematici in un territorio ben diverso come quello a stelle e strisce) ma di consolidare definitivamente il proprio vantaggio competitivo nel campo della green economy. Che non significa solo energia, ma anche efficienza nell’utilizzo delle (altre) risorse naturali e nel riciclo di materia.
Secondo la Comunicazione per un’economia circolare appena adottata dall’Ue, la transizione verso un’economia più verde è la chiave per uno sviluppo sostenibile; in particolare, si prevede che questo settore possa generare 20 milioni di nuovi posti di lavoro da qui al 2020 (attualmente, i disoccupati Ue vengono conteggiati in 26 milioni). Mentre negli Usa è al culmine una nuova corsa al petrolio, destinata presto a esaurirsi, l’oro della nostra economia può essere verde. E garantire uno sviluppo sostenibile per molti anni a venire, a partire già da oggi. Molto dipenderà dalla nostra volontà d’investire in innovazione prima e più degli altri, per poi godere del cosiddetto «vantaggio del pioniere». Quello degli Usa potrebbe essere davvero non l’inizio di un nuovo corso, ma l’ultima tappa dell’era dell’economia fossile. E a deciderlo, nel bene e nel male, potremmo essere noi europei.
· da greenreport.it - 4 luglio 2014
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