di Andrea Bellelli * |
Recentemente ho partecipato ad un convegno organizzato dall’Istituto Pasteur di Roma – Fondazione Cenci-Bolognetti. Era un convegno un po’ specialistico, riservato ai ricercatori finanziati dalla Fondazione, ma la Fondazione organizza anche incontri serali divulgativi, aperti al pubblico, chiamati aperitivi scientifici; gli interessati possono consultare il sito web. La prima relazione del convegno, tenuta dalla dott.ssa Alessandra Carattoli dell’Istituto Superiore di Sanità, trattava dei fenomeni di resistenza agli antibiotici nei batteri e mi hanno colpito in particolar modo alcune diapositive sulla resistenza agli antibiotici di ceppi di batteri isolati negli ospedali italiani: in molti casi la resistenza agli antibiotici più importanti era compresa tra il 25% ed il 50% dei ceppi isolati e l’Italia spiccava in rosso nella mappa europea. Ho poi cercato le statistiche ufficiali e trovato ampie conferme (si veda, ad esempio, questo link).
In alcuni casi questi fenomeni di resistenza agli antibiotici sono particolarmente preoccupanti: ad esempio gli antibiotici della famiglia dei carbapenemi sono l’ultima linea di difesa nei confronti di molti batteri Gram negativi e tra il 10 e il 25% degli isolati di alcuni di essi, quali la Klebsiella pneumoniae, risultano resistenti a questo antibiotico: in pratica l’infezione risulta pressoché intrattabile.
Guardata con l’occhio del naturalista, la resistenza agli antibiotici nei batteri è un interessantissimo esempio di evoluzione darwiniana, che avviene in tempo reale e sotto gli occhi di tutti: l’antibiotico è un agente di selezione e favorisce la diffusione delle varianti resistenti che si formano spontaneamente per mutazione o per trasferimento di materiale genetico tra ceppi batterici diversi. Dal punto di vista della sanità pubblica è invece una minaccia molto grave: il batterio che presenta resistenza multipla agli antibiotici potrebbe scatenare epidemie di dimensioni oggi dimenticate, come le pesti del medio evo. Lo sviluppo di nuovi antibiotici è invece un investimento poco remunerativo per l’industria farmaceutica: ha costi elevati e, proprio a causa dell’insorgere di precoci fenomeni di resistenza, ritorni economici di breve durata. Per questo l’industria non è particolarmente interessata ad investire in questo campo. Un uso improprio degli antibiotici, rappresentato da prescrizioni non strettamente motivate e terapie interrotte troppo presto, accelera il naturale processo di selezione di varianti batteriche resistenti; per evitare questo, alcuni di questi farmaci presentano limitazioni prescrittive severe e sono utilizzabili soltanto in ospedale. Comunque, anche con l’uso più oculato, prima o poi i batteri diventano resistenti ai nuovi antibiotici.
L’unica soluzione reale a questo problema sanitario è un piano di investimenti congiunto del pubblico e del privato: lo stato e l’industria devono collaborare in attività di ricerca finanziate da entrambi e finalizzate non solo a sviluppare nuovi antibiotici, ma anche ad investigare meglio i meccanismi della resistenza ad essi. Sono inoltre di fondamentale importanza, almeno per alcuni tipi di infezioni, i vaccini, che oggi possono essere prodotti con le metodiche dell’ingegneria genetica e che hanno margini di sicurezza molto elevati. Purtroppo molte persone diffidano dei vaccini e ne sopravalutano gli effetti collaterali, che in realtà si verificano in casi molto rari. Ma questo è un altro discorso, che meriterà un post dedicato: infatti i vaccini sono molti e diversi e non si possono discutere insieme i vaccini prodotti con tossine batteriche inattivate, quelli fatti con virus uccisi, quelli fatti con virus vivi ma attenuati, etc.
· da ilfattoquotidiano.it 2 dicembre 2013