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19 DICEMBRE 2009 VILLA SAN GIOVANNI FERMIAMO I CANTIERI LOTTIAMO PER LE VERE PRIORITA'
Tanti sì, un solo no. La prossima manifestazione nazionale sarà contro la grande opera, ma anche per le infrastrutture di prossimità, la bonifica delle zone inquinate, la messa in sicurezza dei territori, opere utili per tutti i cittadini, un sistema di trasporti pubblico ed efficiente nello Stretto. I fautori del Ponte insistono con la favola del turismo. Ma chi di voi ha voglia di visitare Kobe-Awaji, Barton-upon-Humber, Halsskov-Sprogø? Pubblicato su "Micromega" Kobe-Awaji in Giappone, l’arcipelago delle Zhoushan in Cina, Halsskov-Sprogø in Danimarca, le rive cinesi del Fiume Azzurro o Barton-upon-Humber – novemila abitanti nel Licolnshire - sono forse mete del turismo di massa? Si tratta dei luoghi dove sorgono i cinque ponti più lunghi al mondo. Dovrebbero essere invase dai gitanti in base alla teoria oggi dominante tra i favorevoli al Ponte, secondo cui l`attraversamento stabile attirerà folle di curiosi sullo Stretto. In effetti esiste turismo a New York e San Francisco, ma non certo perché ospitano l’ottavo ed il nono ponte più lungo. Per il resto il Ponte è un atto di fede. Il calcolo costi-benefici è semplicemente imbarazzante: “È legittimo pensare che il Ponte sia uno spreco di denaro e che le previsioni elaborate dalla società dello Stretto per il rientro dei capitali investiti (il 40% dallo stato e il 60 dai privati, a dire il vero finora piuttosto timidi) siano troppo ottimistiche”, ammette sul Sole 24 Ore nientemeno che Giuseppe Cruciani, autore del libro “Questo Ponte s’ha da fare”. “C’è chi sostiene, dati alla mano, che alla fine sarà un flop economico e un salasso per le casse statali. Può darsi”. Il libro “Ponte sullo Stretto e mucche da mungere” nasce nell’estate del 2009, quando quasi tutti erano convinti che il Ponte non si sarebbe mai fatto e che agli annunci non sarebbe seguito nulla di concreto. Comunemente si pensa che il Ponte siano i piloni che collegherebbero le due sponde dello Stretto. Il Ponte non è quello, assolutamente. E’ un modello politico ed economico, che può riguardare la guerra in Afghanistan oppure un hotel 5 stelle nel poverissimo Sudan.
O ancora, per restare in Italia, il Tav o la Salerno – Reggio Calabria. L’elemento comune è il trasferimento di denaro pubblico dalla collettività a pochi soggetti privati. Negli esempi citati non esiste area ricca o povera, non esistono esigenze reali (le cause di un conflitto armato o la necessità di una infrastruttura). Fino a pochi anni fa chiunque parlava di intervento dello Stato in economia era una specie di dinosauro. Era obsoleto. Oggi lo Stato interviene pesantemente in economia, ma non lo fa secondo i classici canoni keynesiani. Lo fa intervenendo male. Ivan Cicconi, probabilmente il massimo esperto italiano di lavori pubblici, ha parlato di keynesismo al contrario, di un processo senza redistribuzione. Pochi soggetti privati (i contractors) beneficiano di questo sistema. In Italia non tutti pagano le tasse, e quasi nessuno lo fa in proporzione al reddito effettivamente percepito. Solo i lavoratori lo fanno, perché le imposte sono trattenute alla fonte. Dovrebbe suscitare un grave allarme il fatto che le risorse dei lavoratori vengano drenate a favore di soggetti già ricchi, cioè che i poveri contribuiscano – con la scusa delle Grandi Opere – ad arricchire ulteriormente chi è già ampiamente privilegiato. Per mesi abbiamo ascoltato una serie di considerazioni (“E’ tutto un bluff”, “non esiste il progetto”, “non ci sono i soldi”) che partivano da un presupposto sbagliato: insegnare alla società Stretto di Messina a lavorare meglio e non contestare alla radice un modello che dall’inefficienza, dalle lungaggini, dai giochi finanziari (project financing) trae linfa per realizzare il suo obiettivo primario, cioè il drenaggio di ulteriore denaro pubblico. La BIIS – un istituto del gruppo San Paolo – si occupa solo di questo: finanziare le infrastrutture. Sul debito possono essere emesse obbligazioni a carattere speculativo. Le imprese private interverranno sul Ponte solo a patto che ogni centesimo sia in ultima istanza garantito dallo Stato. I soldi ottenuti con la “finanza di progetto” rimangono formalmente privati, e quindi non sono debito pubblico, per cui non ci creano problemi con l’Unione Europea. Dalle guerre alle opere infrastrutturali inutili, il problema è quello di un riequilibrio. La scuola, la ricerca, la sanità, i trasporti, il welfare in genere ed ogni altro servizio essenziale vengono smantellati proprio per finanziare le Partnership Pubblico - Privato. Il movimento contro il Ponte non può limitarsi – e di fatto non lo fa più, si veda la locandina della manifestazione del 19 dicembre – ad essere un comitato tecnico che si oppone ad un’infrastruttura che rovina il paesaggio ma si pone l’obiettivo di rendere meno squilibrata la situazione attuale. "Non una difesa conservativa e museale dei luoghi", dice Luigi Sturniolo della Rete No Ponte, "ma un progetto di vivibilità, una dimensione sociale della battaglia. Il movimento, nel diventare questo, sfugge alle accuse di essere espressione del NIMBY, interviene sulla gestione delle risorse economiche, sulle modalità attraverso le quali vengono prese le decisioni che riguardano i territori e la vita degli abitanti, sperimenta forme nuove di pratica politica". Il paradosso è evidente nello Stretto: quello stesso Stato che sta per sprecare cifre folli per un collegamento palesemente inutile non riesce a trovare i soldi per un traghetto pubblico che va avanti e indietro con una cadenza accettabile. I traghetti sono di fatto smantellati. Non hanno più orario. In estate il vettore privato, ormai assoluto monopolista, si è trovato a rifiutare i clienti in eccesso - per motivi di sicurezza una nave può ospitare un certo numero di passeggeri - ribadendo che spetta allo Stato assicurare la continuità territoriale. Nessuna risposta.
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