LA SOLITUDINE DEL CITTADINO GLOBALE
Le politiche neoliberiste si avvalgono degli attuali processi di globalizzazione per incrementare in maniera pressoché illimitata le libertà personali, di associazione, di pensiero, di espressione. Ma, si chiede Bauman, «quanto è libera la libertà?» (p. 69)
Parafrasando Isaiah Berlin, Bauman sostiene che la libertà propugnata dal mercato sia negativa, intesa cioè come assenza di limiti e di costrizioni, come deregolamentazione, come «riduzione, sul piano legislativo, dell’interferenza politica nelle scelte umane (meno Stato, più denaro in tasca)» (p. 77). Il mercato non è invece in grado di costruire una «libertà attiva fondata sulla ragione» (ivi), strettamente connessa alla responsabilità individuale, atta a fungere da criterio di scelta e da guida per l’azione, una libertà che sappia coraggiosamente incidere sulla realtà ed elaborare (concettualmente e concretamente) il significato di bene comune. Dopo la caduta del muro di Berlino, il capitalismo si presenta come un dogma, come il paradigma economico vincente perché privo di alternative reali e praticabili. Ne deriva una progressiva erosione della politica a vantaggio dell’economia: come sostiene Bauman, «al centro della crisi attuale del processo politico non è tanto l’assenza di valori o la loro confusione generata dalla loro pluralità, quanto l’assenza di un’istituzione rappresentativa abbastanza potente da legittimare, promuovere e rafforzare qualunque insieme di valori o qualunque gamma di opzioni coerente e coesa» (p. 79).
Ciò conduce a una generalizzata apatia da parte delle istituzioni e dei singoli cittadini, che hanno rinunciato alla prospettiva e alla promessa di “cambiare il mondo”, ad ogni dimensione progettuale, a ogni interrogazione del presente e vivono la «solitudine del conformismo» (p. 12). Tale atteggiamento di indifferenza, sfociante spesso nel cinismo e nel nichilismo, a ben guardare, si fonda su un generalizzato sentimento di disagio esistenziale che può essere sintetizzato con il termine tedesco Unsicherheit, traducibile in inglese in una vasta gamma semantica, che va dall’uncertainty (incertezza), all’insecurity (insicurezza) e unsafety (precarietà). Come si vede, in italiano questi tre sostantivi risultano pressoché sinonimici, mentre per Bauman designano tre tipologie di esperienza piuttosto diverse, pur se convergenti nel terreno comune dell’angoscia e dell’incomunicabilità.
Il termine unsecurity viene esplicitato da Bauman attraverso l’ossimoro «sicurezza insicura» (p. 26): «L’insicurezza odierna assomiglia alla sensazione che potrebbero provare i passeggeri di un aereo nello scoprire che la cabina di pilotaggio è vuota» (p. 28). E’ la situazione che si avverte nel mondo del lavoro, in cui dominano la flessibilità, i contratti a tempo determinato, in cui le aziende chiudono o convertono la produzione ed è impossibile per l’individuo spendere le proprie competenze in un mercato in continua evoluzione e specializzazione. Di qui la sfiducia nella politica, come testimonia il crescente astensionismo che accompagna le consultazioni elettorali nella maggior parte dei Paesi occidentali: la politica interessa solo quando emergono scandali che riguardano personaggi famosi, ma è una politica/spettacolo, non uno spazio pubblico partecipato e sentito dalla collettività. Di qui anche l’inautenticità vissuta nei rapporti con gli altri e con se stessi: citando Milan Kundera, Bauman ricorda come un tempo l’amicizia fosse sacra, eroica, possibile anche tra uomini appartenenti per necessità a schieramenti nemici (I tre moschettieri). Oggi un amico non può salvare l’altro dalla disoccupazione. Anche a livello di identità personale, l’incertezza lavorativa costringe gli uomini a dislocarsi in tanti ruoli o a rifugiarsi nella sfera del virtuale (si pensi alle chat, nelle quali è possibile nascondersi dietro nomi fittizi). Bauman usa, a tal proposito, la metafora dell’uomo modulare: al pari dei mobili componibili, la nostra identità non è determinata alla nascita, ma mutevole, multiforme, sempre aperta a nuove possibilità, sicché l’uomo di oggi «non è senza qualità, ne ha troppe» (p. 160).
La certezza incerta (uncertainty) riguarda i meccanismi stessi del liberismo: «Contrariamente a quanto suggerisce il supporto metafisico della mano invisibile, il mercato non persegue la certezza, né può evocarla, e tanto meno garantirla. Il mercato prospera sull’incertezza (chiamata, di volta in volta, competitività, flessibilità, rischio e ne produce sempre più per il proprio nutrimento» (p. 38). Mentre il temerario giocatore d’azzardo sceglie il rischio come un fatto ludico, l’economia politica dell’incertezza oggi imperante lo impone a tutti come destino ineluttabile. L’uncertainty riguarda «la paura diffusa che emana dall’incertezza umana e il suo condensarsi in paura dell’azione; […] la nuova opacità e impenetrabilità politica del mondo, il mistero che circonda il luogo da cui gli attacchi provengono e in cui si sedimentano come resistenza a credere nella possibilità di opporsi al destino e come sfiducia nei confronti di qualunque proposta di modo di vita alternativo» (p. 176). La precarietà (unsafety) è riconducibile all’intrinseca mortalità propria della condizione umana. «Il viaggiatore non può scegliere quando arrivare né quando partire: nessuno ha scelto di essere inviato nel mondo, né sceglierà il momento in cui partire. L’orario degli arrivi e delle partenze non è compilato dai viaggiatori, e non c’è nulla che essi possano fare per modificarlo» (p. 42). Dalla capacità di reagire e di trovare risposte alla precarietà esistenziale deriva il grado di autonomia che un individuo o una società possono conseguire.
In passato i «ponti per l’eternità» sono stati, di volta in volta, ravvisati nella religione, nella famiglia, nella nazione, intesi come totalità durevoli, capaci di dotare di significato l’esistenza dell’uomo comune che dopo la morte poteva, per così dire, perpetuare la propria esistenza dando la vita per la patria o generando i figli. Le politiche della globalizzazione, imperniate sulla crescita delle multinazionali, tendono a rendere superflui i controlli da parte degli Stati tradizionali e delle amministrazioni locali perché «il capitale fluisce senza vincoli di spazio e tempo, mentre la politica resta territoriale, globale» (p. 123), per cui si potrebbe parlare di «fine della geografia, piuttosto che di fine della storia» (ivi). Se è vero che la nazione, a partire dal Romanticismo, era intesa come un’entità innata, spirituale, come un fatto di sangue, un’appartenenza quasi biologica, è anche vero che questa appartenenza doveva essere rivitalizzata quotidianamente da parte dell’individuo: ciò è richiamato dal celebre detto di Renan, secondo cui «la nazione è il plebiscito di ogni giorno».
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il nazionalismo è stato funzionale al liberalismo poiché è servito a rimediare alle sue carenze: infatti, laddove il liberalismo «chiude gli occhi di fronte all’atomizzazione prodotta da una libertà personale non completata dall’impegno dei cittadini a ricercare il bene comune dalla loro capacità di agire in conformità con quell’impegno» (p. 168), il nazionalismo chiama invece a raccolta gli individui, parlando loro, ad esempio, di etica e di giustizia, realtà relegate dal liberalismo alla sfera privata. Anche la famiglia non è più un’istituzione durevole, si sgretola con facilità e, «ormai emancipata dalla sua funzione riproduttiva, l’unione sessuale non dà più la sensazione di una via per l’eternità tracciata dalla natura, di uno strumento per costruire la comunità o di un modo per sfuggire alla solitudine, ma una sensazione diversa, tanto piacevole quanto fugace, destinata a essere consumata in un istante insieme ad altre sensazioni nel succedersi degli episodi che scandiscono la vita del solitario collezionista di sensazioni» (p. 48).
L’io, dunque, non può aspirare più ad alcuna pretesa di immortalità, anzi, si sente vulnerabile, in esubero, sostituibile, incapace di influenzare il corso naturale delle cose. Questo ridimensionamento dell’io è testimoniato dal mutamento semantico subìto dal termine greco psyché, che designa ora la personalità, la mente, l’ego, mentre originariamente indicava l’anima e, dunque, una realtà spesso immortale e trascendente. Quali spazi di autonomia può, allora, rivendicare un soggetto così depotenziato? Per Bauman l’autonomia odierna ha a che fare piuttosto con l’autoreferenzialità, con una concezione monadologica degli individui, poiché alla privatizzazione sfrenata vigente in economia corrisponde l’autarchia dei sentimenti e del disagio. «Occupati come siamo a difenderci o a tenerci alla larga dalla varietà sempre più ampia di alimenti avvelenati, di sostanze ingrassanti, di esalazioni cancerogene, e dagli innumerevoli acciacchi che minacciano il benessere del corpo, ci resta ben poco tempo [….] per rimuginare tristemente sulla futilità di tutto questo» (p. 50). Si spiega così la fortuna dei prodotti dietetici e delle terapie di gruppo dimagranti (weight watchers) molto diffuse in America: questi gruppi sono comunità che condividono analoghi rituali, ma che affidano all’individuo la risoluzione dei suoi problemi. Questo dimostra che, «una volta privatizzato e affidato alle risorse individuali il compito di affrontare la precarietà dell’esistenza umana, le paure esperite individualmente possono solo essere contate, ma non condivise e fuse in una causa comune e rimodellate nella forma di azione congiunta» (p. 54).
Analoga situazione si verifica nei talk-show: la televisione ha invaso la sfera privata irrompendo come un’intrusa nelle pieghe più intime degli individui per esibirle al vasto pubblico (synopticon); tuttavia «gli individui assistono ai talk-show soli con i loro problemi, e quando lo spettacolo finisce sono immersi ancora di più nella loro solitudine» (p. 71). Il paradosso sta nel fatto che gli individui ricercano queste effimere forme di aggregazione proprio per vincere l’isolamento e invece assistono alla spettacolarizzazione di modelli che si sono affermati a prescindere dalla società: il motto kantiano sapere aude, che è considerato l’atto di nascita dell’Illuminismo, viene tradotto attualmente nell’esaltazione del self-made man.
Questa complessiva carenza di autonomia riverbera le sue lacune nella sfera della cittadinanza. L’epoca della globalizzazione del capitale considera i cittadini quasi unicamente come consumatori, i cui desideri sono creati ad hoc dalla pubblicità e dal mercato. Le società occidentali sono paragonabili ad un negozio di dolciumi, poiché il sovraccarico di bisogni indotti e facilmente appagabili dal consumismo rende la vita «punteggiata di attacchi di nausea e dolori di stomaco» (p. 29), anche se i consumatori «non si curano di un’altra vita – una vita piena di rabbia e autodisprezzo – vissuta da quelli che, avendo le tasche vuote, guardano avidamente ai compratori attraverso la vetrina del negozio» (Ivi). Il consumismo produce nuove povertà: sempre meno persone hanno pari opportunità di istruzione, alimentazione, occupazione. Ci si rivolge ai poveri con compassione e turbamento, si tenta di esorcizzarne le ribellioni, la povertà compare spesso nelle piattaforme programmatiche dei vertici fra le potenze occidentali. In realtà, anche la povertà è funzionale al mercato, perché rappresenta, per così dire, la prova vivente di che cosa significhi essere liberi dall’incertezza, per cui «la vista dei poveri impedisce ai non poveri di immaginare un mondo diverso» (p. 181). Ma Bauman osserva che la parte più ricca della società non può essere liberata «dall’assedio della paura e dell’impotenza se la sua parte più povera non viene affrancata: non è questione di carità, di coscienza e di dovere morale, ma una condizione indispensabile (benché soltanto preliminare) per trasformare il deserto del mercato globale in una repubblica di cittadini liberi» (p. 179). Poiché il lavoro viene inteso esclusivamente come lavoro retribuito, il mercato non si pone la questione del reddito minimo garantito, mentre esso permetterebbe a tutti, non solo ai poveri, di migliorare la qualità della vita dedicandosi anche all’otium, «determinerebbe nuovi criteri etici per la vita della società» (p. 186).
I poveri invece sono spesso criminalizzati, insieme agli stranieri, secondo i riti della ben nota mitologia del capro espiatorio (Girard). La socialità, secondo Bauman, si estrinseca, infatti, «talora in orge di compassione e carità», talaltra in scoppi di aggressività smisurata contro un nemico pubblico appena scoperto» (p. 14). L’ansia collettiva, in attesa di trovare una minaccia tangibile contro cui manifestarsi, si mobilita contro un nemico qualunque. Lo straniero viene identificato tout-court con il criminale che insidia l’incolumità personale dei cittadini e i politici sfruttano questo disagio a fini elettorali. In America la pena di morte è ancora vista come il deterrente principale alla criminalità, sicché «l’opposizione alla pena capitale significa il suicidio politico» (p. 21). Ciò ha condotto al «raffreddamento del pianeta degli uomini» (p. 60): il tessuto della solidarietà umana si sta disgregando rapidamente e le nostre società sono sempre meno accoglienti.
Bauman individua quale strategia risolutiva a questa situazione di disagio il recupero dello spazio privato/pubblico dell’agorà, la società civile. È «lo spazio in cui i problemi privati si connettono in modo significativo, vale a dire non per trarre piaceri narcisistici o per sfruttare a fini terapeutici la scena pubblica, ma per cercare strumenti gestiti collettivamente abbastanza efficaci da sollevare gli individui dalla miseria subita privatamente» (p. 11). Solo nell’agorà è possibile costruire una società autonoma, capace di autocritica, di autoesame, di discussione e ridefinizione del bene comune. «La società autonoma ammette apertamente la mortalità intrinseca di tutte le creazioni e di tutti i tentativi di derivare da quella fragilità non scelta l'opportunità di un'autotrasformazione perpetua, magari anche di un progresso. L'autonomia è uno sforzo congiunto, concertato, di trasformare la mortalità da maledizione in benedizione… Oppure, se si vuole, l'audace tentativo di utilizzare la mortalità delle istituzioni umane per dare vita eterna alla società umana» (p. 88). Gli intellettuali dovrebbero riappropriarsi della politica, inseguire le «tracce di paideia» (p. 104) disseminate qua e là all’interno della società civile, riformare, educare, stimolare, evitando di arroccarsi in una filosofia lontana dall’uso comune del linguaggio e del logos.
La riconquista dell’autonomia deve passare attraverso gli individui poiché «non esiste autonomia sociale senza quella dei singoli membri di una società» (p. 140). In un’epoca in cui le ideologie, sia in senso settecentesco che marxista sono in crisi, in un’epoca in cui la stessa idea di crisi non designa più, secondo l’originario significato medico, un’evoluzione cruciale positiva o negativa, ma un disagio complessivo della civiltà, è necessario che le istituzioni recuperino il potere decisionale che spetta loro. Solo nell’agorà è possibile recuperare il valore delle differenze: spesso, infatti, si confonde la crisi dei valori con la loro molteplicità e abbondanza, ma «se la molteplicità dei valori che richiedono un giudizio e una scelta è il segno di una crisi dei valori, allora dobbiamo accettare che tale crisi sia una dimora naturale della moralità: soltanto in quella dimora la libertà, l’autonomia, la responsabilità e il giudizio […] possono crescere e maturare» (p. 153). La globalizzazione ha sostituito l’universalismo e la reciprocità tra le nazioni; d’altra parte appare fuorviante anche il termine multiculturalismo, spesso usato dai sociologi, perché «suggerisce che l’appartenenza a una cultura non sia una scelta, ma un dato di fatto […] implica tacitamente che essere inseriti in una totalità culturale è il modo naturale, e dunque presumibilmente sano, di essere-nel-mondo, mentre tutte le altre condizioni – lo stare all’incrocio delle culture, l’attingere contemporaneamente a differenti culture o anche soltanto l’ignorare l’ambivalenza culturale della propria posizione – sono condizioni anomale» (p. 200). L’agorà non è nemica della differenza, non esige di abdicare alla propria identità culturale. Solo all’interno dell’agorà è possibile acquisire il valore della diversità come arricchimento dell’identità individuale e sociale.
(Recensione di Daniela Floriduz)
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