UTOPIA COME VOCABOLO POLITICO
L’utopia, come domanda politica, non appartiene né all’area culturale della tradizione né a quella del riformismo. D’altro canto, l’etimologia del termine (dal greco ou-tópos, luogo che non esiste) contiene già una precisa opzione ideologica, presentando il suo stesso contenuto come storicamente inattuabile, e perciò negandolo. La gabbia del suo enunciato è tuttavia solo una delle spiegazioni del fatto che gli utopisti hanno fin qui proceduto con la retromarcia. Un’altra è da imputare alla loro incapacità, privi com’erano di corrette coordinate metodologiche, di produrre un’analisi scientifica della società. Anche se i loro ‘sogni’ erano impregnati di ideali libertari ed egualitari, quegli utopisti riuscivano a eclissare il permanere della divisione di classe (tipo il dualismo tra filosofi-sacerdoti e agricoltori) solo grazie alla capacità seduttiva dei loro racconti. Non a caso, quindi, in quelle fiabesche immaginazioni ritroviamo le stesse contraddizioni da cui intendevano allontanarsi. Va inoltre sottolineato che l’utopia non è che la traduzione laica dell’idea religiosa dell’Eden partorita dalla cultura occidentale. Anche se il paradiso (terrestre) è stato localizzato in un luogo recondito e inaccessibile della terra, di forma quasi sempre circolare, chiuso e separato da un gran tratto di oceano, la produzione dell’immaginario religioso, in realtà, è stata molto più ricca di utopia rispetto a quanto hanno lasciato in eredità gli utopisti laici. Nelle rappresentazioni letterarie o pittoriche l’Eden viene sempre descritto come un luogo in cui abbondano i beni materiali (rivoluzione industriale) e domina la felicità (logica del positivo). La proprietà privata ovviamente non esiste, poiché ciascuno può avere tutto ciò che desidera (società della domanda). Per accedervi c’è poi bisogno di un passaporto eccezionale, di una guida angelica (classe rivoluzionaria), e non tutti perciò possono trovarvi ospitalità (separazione antropologica). Se però si vuole collocare l’Eden nella storia, occorre sostituire la letteratura con la scienza politica. E quindi, con uno sforzo di immaginazione superiore a quello delle stesse religioni, si dovrà essere capaci di tradurre il sogno in termini razionali.
Il termine “Utopia” è perciò qui disgiunto da ogni riferimento alla letteratura, religiosa o laica che sia, sull’argomento. È tuttavia politicamente comodo conservarne l’uso, dal momento che la parola comunismo, molto più adatta a esprimere il Progetto che s’intende delineare, è stata completamente sfigurata e depotenziata della sua valenza utopica dalla teoria e dalla storia di quei partiti-Stato che han preteso di parlare in suo nome. È opportuno intanto fissare un paio di condizioni preliminari, essenziali per la configurazione dell’Utopia: 1) che essa diventa irrealizzabile ogni qualvolta è inserita in un contesto non utopico; 2) che non può essere parcellizzata, nel senso che nessun suo momento può essere decontestualizzato dall’intero processo. Va poi sfatata l’opinione corrente secondo cui l’utopia è bella ma irrealizzabile.Tale luogo comune deriva, in sostanza, da una plurisecolare rassegnazione al non bello, cioè dalla convinzione che sia impossibile costruire un luogo in cui ogni dimensione del vivere entri in equilibrio con le altre, così da realizzare l’unità tra il bello come forma e l’estasi come contenuto.
Si parlerà comunque di Utopia solo in un quadro di tecnologia avanzata, in quanto ogni riproposizione del comunismo primitivo sarebbe regressiva e puerile. La tecnologia, tuttavia, pur essendo l’unico mezzo in grado di affrancare l’uomo dalla schiavitù del lavoro ripetitivo, non costituisce, di per sé, né la condizione né l’orizzonte della liberazione del genere umano. È inutile che gli amanti della preistoria si affannino a ricercare nel passato remoto reperti archeologici di presagio utopico. Se qualcuno ha bisogno di sentirsi rassicurato o cerca un appiglio che lo autorizzi a credere, sappia che la storia non ha mai offerto nulla che si avvicinasse alla Società dell’Utopia. L’esito ultimo, ad esempio, delle comuni, e in particolare di quelle cristiane, costruite attorno alla solidarietà assistenziale, è stato di assicurare a ciascuna persona il minimo indispensabile per sopravvivere. Il che, come risultato, sta in posizione diametralmente opposta al Progetto che qui si intende prospettare. In assenza di classi da confortare, poveri da soccorrere, contraddizioni da sanare, verranno difatti a cadere le motivazioni di quel mutuo soccorso finalizzato ad alleviare lo stato di afflizione con il pianto del conforto.
Non è che nella Società dell’Utopia debba esistere soltanto il pianto della gioia, ma certamente non ci saranno più le sofferenze legate alle svantaggiate condizioni di classe e, di conseguenza, si dissolverà l’attuale funzione “strategica” della solidarietà. Ovviamente, i buoni eredi di chi si rifiutò di osservare, attraverso il cannocchiale galileiano, la conformazione fisica degli astri, saranno, a maggior ragione, incapaci di capire, con gli occhi della mente, i mondi, oggi immateriali, che verranno qui raffigurati. E sicuramente da costoro, ma non solo, pioveranno le accuse di predicare la morale peccaminosa dei frutti proibiti. Ma proprio queste “mele” (di una nuova moralità), una volta assaggiate e ingerite, apriranno le porte del giardino dell’Eden, per le quali in verità nessuno mai è passato. Gli increduli, invece, potranno invocare i fumi della follia. Che sia! Giacché, senza una dose di furore, di esaltazione, di entusiasmo della ragione, non si potrà mai avere la ‘forza’ di muovere l’Evento della nuova Era.
Alfa
tratto dal cap. III del “Preludio alla società dell’utopia”
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