PERCHE' ODIAMO LA NATURA
di Max Strata
L'essere umano odia la Natura ? E' una domanda che è legittimo porsi considerando la grave crisi ecologica planetaria che investe questo periodo storico e che non ha precedenti, in quanto provocata dall'azione della nostra specie. Prima di tutto, vediamo alcune definizioni del termine Natura come contenute in quattro dizionari della lingua italiana.
- L'insieme degli esseri viventi e delle cose inanimate che costituiscono l'universo e in particolare il mondo terrestre, come entità retta da un ordine proprio e governata da leggi costanti, che l'uomo può conoscere ma non modificare .
- Il fondamento dell'esistenza nella sua configurazione fisica e nel suo divenire biologico, in quanto presupposto causativo, principio operante, o realtà fenomenica (la natura, madre di tutte le cose e operatrice).
- Il sistema totale degli esseri viventi, animali e vegetali, e delle cose inanimate, che presentano un ordine, realizzano dei tipi e si formano secondo leggi.
- Il complesso delle cose e degli esseri dell’universo, in quanto si ritiene che abbiano in sé un principio costitutivo che ne stabilisce l’ordine e le leggi.
Si tratta di definizioni non univoche ma dalle quali emergono con chiarezza i termini e i concetti di ordine, leggi, principi, in modo del tutto simile a quanto avviene per i principali dizionari, inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, ecc.. 1 Si riconosce dunque che quando si parla di Natura si ha a che fare con qualcosa di sovraordinato, di immanente, di precostituito, con qualcosa che ci precede e che ci seguirà, che ci irretisce in dinamiche dalle quali non si può prescindere.
Dato questo presupposto, risulta significativa la circostanza per cui l'idea di una Natura associata a Dio o di una Natura comunque oggetto di contemplazione spirituale, appare, quando appare, solo nelle note che seguono la definizione principale, finendo spesso per essere relegata in un paragrafo dedicato alla teologia. E' chiaro che il significato delle parole si aggiorna con il mutare dei tempi e nel nostro caso, ciò che emerge è che nella cultura del mondo occidentale contemporaneo la concezione della Natura assume la connotazione di un sistema complesso e autoregolato ma svincolato da ogni concezione non strettamente materialistica.
Se le parole hanno un senso e se per l'appunto è "il verbo" che ci permette di concepire il divenire delle cose del mondo, allora è chiaro che questa espulsione dell'idea di Natura come un'ampia epifania di fenomeni che può essere ricondotta anche alla dimensione spirituale che ha percorso la storia dell'umanità, ha un significato ben preciso. Ne consegue infatti che se la Natura non ha affinità con il mondo spirituale e di conseguenza con il sacro, questa rientra esclusivamente in una sfera fisica con cui la specie umana può avere un rapporto non mediato, non subordinato, in cui la nostra azione tesa a "intaccare" o meglio a "infrangere" le leggi che la regolano, non solo risulta possibile ma addirittura auspicabile.
E' questa la grande novità che compare con l'Età dei Lumi, con la rivoluzione industriale e con il successivo processo di evoluzione tecnico scientifica che oggi contraddistingue il nostro agire.
In un importante articolo apparso molti anni fa sul quotidiano La Stampa, Primo Levi, non solo insuperabile narratore delle orribili vicende di Auschwitz ma anche straordinario autore avveniristico (si ricordino le sue raccolte di short-stories, Storie Naturali e Vizio di Forma), scrisse con molta chiarezza che la nostra specie aveva puntato tutto sulla sopravvivenza individuale, relegando la Natura a palcoscenico della nostra esistenza. Niente di più vero se consideriamo che gli strumenti offerti dal progresso scientifico e tecnologico hanno concesso ad una parte dell'umanità di vivere, o quanto meno di provare a vivere, "al di sopra" delle leggi naturali.
Il confronto con tali leggi è sempre stato aperto e praticamente in ogni cultura compare nei miti dell'antichità, tuttavia è nella tradizione occidentale qui intesa in senso ampio come quella veicolata dalla cultura pagana greco-romana e soprattutto dalle tre religioni abramitiche, che tale confronto si manifesta apertamente. Il mito di Icaro e l'allontanamento di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre (inteso come "Natura inviolata") ne rappresentano i casi più emblematici.
L'idea di una Natura concepita come limite alle aspirazioni e ai desideri umani e quindi come costante "antagonista", ovvero come un qualcosa contro cui bisogna battersi, segue dunque una particolare evoluzione nel pensiero occidentale trovando una sorta di formazione di compromesso quando questa viene da Dio "affidata" alle mani dell'uomo non solo per utilizzarla ma anche per conservarla e quindi per riconoscerne la sacralità. Un compromesso che non ha sortito i risultati attesi, poichè questa idea di fondamentale importanza si è nel tempo progressivamente indebolita fino a venire sostanzialmente soppressa.
Oggi, dunque, l'oggettivazione della Natura come insieme di fatti fisici con i quali il potere concesso dal progresso scientifico e tecnologico consente di interagire in modo del tutto inconcepibile anche solo un secolo fa, rappresenta, sul piano concettuale e pratico, sia il punto più alto mai raggiunto dalla evoluzione intellettuale della nostra specie, sia il momento di maggiore separazione dalla nostra Madre comune intesa come fonte di vita e come antico oggetto di venerazione. Sebbene riservato solo ad una parte dell'umanità, poter volare, solcare i mari, comunicare in tempo reale pressochè con ogni luogo del pianeta, sondare il cosmo, godere di immumerevoli comodità e vincere o comunque contrastare efficacemente molte malattie spostando in avanti la durata media della vita dei singoli, è oggi un 3 punto di arrivo consolidato al quale nessuno tra i beneficiari di questa nuova condizione intende rinunciare.
La contemporaneità è dunque segnata, contraddistinta, da questa nuova realtà che dimostra come l'eterno conflitto con le leggi di Natura possa essere affrontato con mezzi adeguati, anche se non ancora conclusivi e anche se non disponibili per tutti. L'essere riusciti a combattere e a vincere alcune importanti battaglie di questo costante confronto, ha ingenerato nell'essere umano una eccezionale fiducia in sè stesso, uno stato di vera e propria esaltazione, che lascia intravedere/sognare come ultimo e decisivo passo in avanti la prospettiva dell'immortalità (solo per chi se la potrà permettere ovviamente), ovvero la sua potenziale trasformazione in quel Dio non a caso fatto a sua immagine e somiglianza.
Si conferma pertanto come in questa nuova condizione, sia la Natura, sia Dio, o se si vuole la Natura/Dio, risultano sempre più marginalizzati e tendono ad uscire a grandi passi dalla sfera concettuale dell'umanità organizzata secondo il nuovo modello che si è affermato, per regredire a qualcosa di non particolarmente rilevante. L'essere umano, nella versione in cui trionfa l'io strettamente personale, ha dunque vendicato la cacciata dall'Eden e ora ne dispone come vuole. E' chiaro che si tratta di un equivoco. O se si vuole di una bestemmia.
Per una lunga serie di ragioni, non c'è e non può esserci alcun tipo di dominio totalizzante da parte della nostra specie nei confronti della Natura ma questa, oggi, appare la sensazione diffusa, la fantasticheria condivisa. Questa idea che ci rende tanto entusiasti e anche tanto aggressivi, è in realtà un perfetto esempio di "delirio di omnipotenza", una patologia descritta in psicoanalisi, una sofferenza mentale di cui siamo gravemente affetti ma di cui non ci rendiamo conto.
Ma come è stato possibile arrivare a convincersi che i pur concreti vantaggi della modernità possano sostituire de facto e su larga scala le leggi naturali, ovvero quell'articolatissimo sistema fisico - chimico - biologico ed ecologico che consente la vita su questo pianeta? 4 L'emergere di questa convinzione si può imputare alla scienza in quanto tale oppure l'origine va cercata più in generale nella tradizione culturale che ha prevalso in occidente?
Secondo Guido Dalla Casa, per rispondere a questa domanda è utile guardare al mito delle origini esposto nella Genesi dell'Antico Testamento, in cui un Dio creatore esterno alla Natura e che anzi crea la Natura stessa, pone il suo popolo a fondamento del rapporto di sopraffazione verso gli altri esseri viventi, in cui la presenza del ciclo settimanale determina la divisione netta fra dovere-lavoro e riposo-divertimento e in cui l'ordine dello sviluppo e dell'espansione conferma la centralità della figura umana nel mondo. -Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: “siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela e abbiate dominio sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e su tutte le fiere che strisciano sulla terra”.- (Genesi, 26-28)
Una lettura in cui non sfugge come la stessa evoluzione della scienza e la produzione di mezzi tecnici sempre più potenti, in quanto prodotti dall'uomo, appaiono coerenti con il progetto di dominazione che Dio mette nelle mani della sua specie prediletta, giustificando la grandiosa mole di sofferenza causata alle altre specie animali in un contesto di costante aggressione e distruzione dell'ambiente naturale.
Nel 1864, riferendosi alla colonizzazione europea che aveva trasformato il paesaggio americano convertendolo in una terra di insediamenti agricoli, Henry David Thoreau scrisse: “Quando penso che qui gli animali più nobili sono stati sterminati: il puma, la pantera, la lince, il ghiottone, il lupo, l’orso, l’alce, il cervo, il castoro, il tacchino e altri ancora, non posso che sentirmi come se vivessi in un paese addomesticato ed evirato rispetto al suo stato originario”.
Chissà, come il grande naturalista e filosofo descriverebbe oggi la mostruosa perdita di biodiversità che stà determinando la sesta estinzione di massa e la monumentale quotidiana mattanza che viene perpetrata negli allevamenti industriali per l'appunto definiti "moderni".
Mantenendo una prospettiva storica, si può dunque affermare che attraverso una "forzatura culturale", sia stato questo sottofondo antropocentrico poi rafforzato dallo scientismo originato dal determinismo positivistico a creare i presupposti della malattia di cui stò parlando. Oggi, la distanza tra le aspettative del modello di vita che possiamo chiamare "dissipativo, eterotrofo e tendenzialmente abiotico" e la costante ricerca di equilibrio tipica delle dinamiche naturali, non è mai stata tanto grande. Nelle case dotate di ogni comfort, nei luoghi di lavoro, nelle città e più in genere nei luoghi urbanizzati, la Natura compare in tracce e quando è presente lo fa nelle modalità da noi disposte: il parco cittadino, le alberature stradali, il bonsai in salotto, il vaso di fiori sul balcone.
Ogni manifestazione di Natura che esula da quella ammaestrata e monocorde che abbiamo concepito per i nostri spazi di vita non è contemplata nè accettata. La zanzara o la mosca che ci infastidiscono durante i periodi caldi (sempre più lunghi e sempre più caldi), la pianta dell'orto che non produce come ci aspettavamo, perfino il cinguettio degli uccelli che ci sveglia troppo presto durante una domenica mattina di primavera, costituiscono una deviazione da quanto desideriamo, da come ci immaginiamo debba essere il mondo naturale posto al nostro servizio.
Figuriamoci se la pioggia guasta il nostro week end o se il vento abbatte qualche albero bloccando il traffico. La lontananza dai fatti e dai cicli naturali ha preso piede anche nelle campagne industrializzate, distraendo i nuovi agricoltori/operai dalla consapevolezza antica che sapeva riconoscere nell'imprevedibilità e nella mutabilità del tempo atmosferico e nella alternante risposta dei terreni, caratteristiche non eludibili di una Natura comunque Madre, alla quale, in epoca pre-moderna e ancora oggi presso alcune culture residuali, si facevano offerte, si chiedeva tolleranza e si portava rispetto. La intrinseca tristezza (e la follia) di questo nuovo rapporto, emerge in qualche modo quando ci diciamo che però la Natura è bella e che dobbiamo frequentarla.
E' questa la Natura dei Parchi naturali, delle aree "protette", delle gradevoli passeggiate nei boschi, dei tuffi nelle acque cristalline, del bel panorama che ci porta ad ammirare la solennità di una foresta, la maestosità di una montagna o la grandezza del mare. Ma la nostra attenzione ed il nostro uso finisce lì: in un tempo breve e superficiale. Chi fra di noi è disposto ad immergersi nelle "terre selvagge", nella wilderness dove l'essere umano privato delle sue dotazioni tecnologiche è posto di nuovo nella sua condizione originaria ? Chi è disposto a vivere in modo parco, essenziale, nutrendosi alla fonte di saggezza millenaria che sgorga dal contatto con gli elementi naturali ?
Se escludiamo una parte assolutamente minoritaria di individui che per scelta risiedono in spazi autenticamente naturali e li vivono intensamante come parte inscindibile del loro essere, tutto il resto dell'umanità, seppure a vari livelli, si è ormai trincerato dietro le mura offerte dalla cittadella di una modernità che guarda solo a sè stessa e che sganciata dai limiti che per millenni hanno costretto a poca cosa le azioni umane, ora si guarda allo specchio e si compiace.
Del resto, almeno nei paesi della cosidetta economia sviluppata, questo è il tempo in cui diamo tutto per scontato come l'abbondanza di energia che utilizziamo o del cibo che mangiamo, facendo finta di non sapere che questo stile di vita ha pesantemente intaccato il capitale naturale del pianeta, ha manomesso i servizi ecosistemici e che ciò di cui la parte ricca del mondo dispone oggi non sarà per niente garantita in un futuro molto prossimo. Sia chiaro, non mi riferisco genericamente all'umanità in quanto tale e non è certo mia intenzione mettere in comune lo speculatore di una multinazionale con un contadino di una regione povera che vive esclusivamente del suo lavoro in risaia: è fin troppo evidente che l'impronta ecologica e sociale del primo è straordinariamente più grande e più pesante di quella del secondo e che ciò chiama in causa la dimensione politica del problema.
Leggendo queste righe, immagino che qualche lettore intenda muovere qualche dura critica rispetto a quanto ho appena scritto. Vorrei anticiparlo, se mi è concesso, precisando che anch'io sono uomo del mio tempo e che ovviamente non vivo in una grotta isolato dal mondo cibandomi di radici, salvo uscire di tanto in tanto per scrivere utilizzando un computer. Non sto dunque esaltando la vita primitiva nè vi propongo come Rousseau l'adorazione del mito del buon selvaggio, sebbene la tentazione esista. Sto solo interrogandomi per proporre una riflessione su come questo atteggiamento umano si stia dimostrando deleterio e sia causa di una crisi senza precedenti che si presenta come crisi ecologica ma anche come crisi economica, sociale, intellettuale e morale.
Personalmente ritengo che sia proprio questo progressivo allontanamento dal sentirci parte di un tutto che si manifesta nelle leggi e nei fatti naturali, l'origine dei guai che abbiamo provocato. Del resto, se la contemporaneità offerta dal modello occidentale tutta centrata su un percepire individualistico totalmente intriso di materialismo fa proseliti anche presso culture e modelli di società molto diversi, una ragione c'è.
E qui torniamo alla generalizzazione da cui muove il mio ragionamento, ovvero all'esistenza, per così dire intrinseca alla nostra specie, di una sempiterna lotta contro i limiti imposti dal mondo naturale rappresentati dalla primordiale necessità di reperire il cibo, difendersi dalle intemperie, trovare modi per spostarsi velocemente. E' ancora Thoreau a ricordarci che "il rapporto tra l'essere umano e il mondo esterno non è fondamentalmente lo stesso ad ogni latitudine ?"
Il punto è che se l'accettazione di questi limiti, tra cui la sofferenza, la malattia e la morte, è stata in qualche modo secolarizzata e "metabolizzata" da chi ci ha preceduto anche grazie alla visione consolatoria di una vita che non si conclude ma che prosegue in altra forma ad esempio attraverso la reincarnazione o lo spostamento in un regno utraterreno, oggi, l'allontanamento del sacro e da quello che simbolicamente rappresenta da parte dell'ubriacatura edonista che ci fa credere di essere il soggetto centrale delle dinamiche del mondo, spinge fortemente affinchè questi limiti non siano più accettati.
Per giungere al punto in cui siamo, l'alienazione delle promesse o delle verità, espresse dal multiforme approccio spirituale che ha dato senso all'esistenza umana, ha giocato un ruolo fondamentale. La grande differenza tra noi, occidentali e occidentalizzati del XXI secolo rispetto ai nostri simili vissuti anche solo un paio di secoli fa, stà infatti nel sentirsi per la prima volta sostanzialmente indipendenti da un qualsiasi riferimento o supporto esterno, padroni del nostro presente e del nostro futuro, detentori di un'idea di libero arbitrio portato all'eccesso che in termini pratici ha permesso di travalicare ciò che ci è effettivamente consentito su un pianeta limitato, su questa Terra che fino a prova contraria resta la nostra unica casa comune.
Nel profilo psicologico di chi soffre di delirio di omnipotenza, che questo approccio sia determinato da una credenza, da una aspirazione o da un sogno fa poca differenza: a rafforzare la patologia ci pensa la spinta della forzatura culturale oggi sostenuta dalle potentissime e subdole armi dei media che costantemente lavorano per farci sentire in questo modo, che operano per convincerci e renderci protagonisti di questa assurda velleità in cui tutto è possibile e in cui tutto è consentito.
Mediamente, l'essere umano contemporaneo modellato a misura di homo consumens, autocentrato e autoreferente, lontano dalla Natura e dalla sua sacralità, non si interroga realmente o peggio non si interroga più, nè sulla distruzione delle basi ecologiche della vita, nè sulle enormi violenze che portano il nome di guerra, povertà e fame, spinte ad un livello di intensità mai visto prima.
Il punto è, come scrive Fritjof Capra, che "l'uomo moderno è consapevole di sé stesso, nella maggior parte dei casi, come un -io- isolato che vive all'interno del proprio corpo". E' un soggetto, scrivo io, che alla fine si è posto da solo in un angolo, adottando una sola prospettiva, vegetando dentro le sue assurde convinzioni. In questo nuovo universo non c'è spazio per chi non condivide, o peggio si oppone, alle regole che sono state definite: i romantici vagheggiamenti di una natura vitale e misteriosa appartengono ai nostalgici, agli antimoderni, ai superati e se non vi sono più idoli a cui prostrarsi per ringraziare di una buona pioggia o di un raccolto generoso, tutto ciò che c'è da sapere è per l'appunto contenuto nel riduzionismo scientifico, nell'efficacia della tecnica, nell'indagine della materia.
Non voglio essere frainteso e vi prego di non fermarvi ad una sbrigativa lettura di quanto stò sostenendo, poiché non è mia intenzione reclamare l'improbabile fascino del buon tempo andato in cui talune credenze irrazionali contribuivano a mantenere ignoranti e timorosi gli esseri umani, ma è piuttosto evidente che il nostro comportamento attuale rappresenta qualcosa di assai più grottesco e pericoloso.
Il punto è che non accettiamo il fatto che la Natura non è pro homines né adversus homines, ovvero che essa non è nè benigna, nè maligna, e che è totalmente indifferente al nostro destino: una realtà che “offende” il nostro orgoglio ingigantito dalla modernità, posizionandoci in una condizione di vulnerabilità in cui è la stessa “meravigliosa e progressiva“ sorte dell'umanità ad essere posta in discussione.
La nostra attuale inconsapevolezza riguardo agli eventi e ai cicli naturali, ovvero -il non sapere- che cosa c'è la fuori, è frutto della perdita di informazione che fino a non molto tempo fa ci arrivava dalle culture ataviche e da quelle contadine tradizionali, dalle nostre stesse modalità di vita e dalla chiara percezione dei limiti a cui siamo soggetti in quanto esseri umani: una sperimentazione diretta che non può essere certo supplita da un documentario o da uno studio teorico, per quanto ricchi di nozioni e di esiti forniti dalla ricerca.
La verità è che la teoria resta tale, insufficiente per un approccio concreto alla lettura della vita, se non si affondano le mani nella terra, se non ci si confronta con i successi e con le sconfitte di un'esistenza vissuta in prima persona a contatto con quanto la Natura offre, nel bene e nel male. La distanza che abbiamo messo tra noi e la Natura e ciò che la rappresenta sia come elemento di incognita sia come contenitore della nostra esistenza, è frutto del nostro desiderio inconscio di affrancarci definitivamente dalle paure che filogeneticamente ci hanno condizionato, dal timore con cui abbiamo affrontato il folto di un bosco, dall'incontro con un grande predatore, dagli estremi climatici, insomma dalla precarietà della nostra stessa condizione umana.
Ma se abbiamo il coraggio di fermarci e di guardarci dentro, scopriremo che stiamo vivendo una terribile illusione, apparentemente comoda, ma pur sempre un'illusione. La stessa scienza, con le tesi e le evidenze della nuova fisica, ci dice che il mondo in cui agiamo è pura apparenza e che ogni oggetto non è effettivamente separato dall'altro ma immerso in un tutto connesso e comunicante: figuriamoci dunque quale grado di realtà può avere l'idea del posto che ci siamo dati nel mondo.
Il tema, in ambito scientifico-filosofico, è quello degli esiti a cui si è giunti percorrendo la concezione del mondo determinata dal meccanicismo cartesiano. Diversamente da questa impostazione, la visione del mondo che emerge dalle più recenti teorie scientifiche può essere definita come organica, olistica ed ecologica, oppure sistemica, nel senso della teoria generale dei sistemi. Come ci ricorda Capra: “L'universo non è più visto come una macchina composta da una moltitudine di oggetti ma viene raffigurato come un tutto indivisibile, dinamico, le cui parti sono interconnesse e possono essere intese solo come strutture di un processo cosmico.
Da ciò emerge un nuovo paradigma in cui il rapporto tra le parti ed il tutto è invertito e in cui le proprietà delle parti possono essere comprese solo alla luce della dinamica dell'intero. In definitiva, le parti non esistono poiché ciò che chiamiamo parte è solo una configurazione in una rete inseparabile di relazioni”. Questo universo vibrante che non possiamo vedere con i sensi di cui disponiamo e che è fatto di oscurità e di correlazione tra le componenti della materia che in un alternarsi di densità maggiore o minore percepiamo come pieno, come vuoto o come nulla, spazza via ogni nostra illusoria certezza e la presunzione sulla supposta centralità della nostra specie rispetto al mondo vivente. In conclusione, noi siamo solo parte del tutto, non siamo il tutto.
Si tratta di una verità profonda, in altro modo già presente nelle culture ancestrali e che per l'appunto si manifesta con la concezione dell'unità di ogni cosa. Ad esempio, il tratto distintivo della cultura Lakota è il pensiero che gli alberi, gli animali, il fiume, siano tutte cose che hanno un'anima, che sono soggetti tra loro connessi e dotati di propria spiritualità densa di significato. Non di meno molte altre tradizioni si sono fondate su una simile concezione e hanno enfatizzato il ruolo del divenire naturale delle cose ridimensionando la figura umana e le sue aspettative.
I concetti di non attaccamento, di moderazione o di rinuncia al desiderio, di servizo verso gli altri ma libero dall'attesa dei risultati, costuiscono ad esempio la matrice delle sacre scritture Induiste che hanno come comune denominatore la pratica dello Swasta (l'armonia intesa come realizzazione del sè) e il raggiungimento di Moksa (la liberazione dal ciclo della vita e della morte), in un quadro in cui la vita del singolo ha un valore circoscritto. Se pur calata in un contesto molto diverso e confinata nei precetti cattolici, una visione che pone l'essere umano in un quadro di contemplazione della Natura e di solidale convivenza con il prossimo, è stata condivisa dagli insegnamenti e dalle pratiche francescane mediante le quali si è rinnovata la porzione più elevata del messaggio evangelico.
Una Weltanschauung (ben più diffusa di quanto normalmente si pensi) che se pur con modalità e sfaccettature diverse, una parte della scienza, della letteratura e della filosofia occidentale, sia in ambito religioso che laico, ha indagato a fondo grazie al contributo di pensatori del calibro di Giordano Bruno, Baruch Spinoza, Arthur Schopenhauer, John Ruskin, Lev Tolstoj, Bertrand Russel, Konrad Lorenz, dello stesso H.D. Thoreau, per citarne solo alcuni.
Questa idea dell'unità del tutto, arcaica e attuale al tempo stesso, questa immagine di un flusso che la mente è in grado di visualizzare e che crea corrispondenze tra la materia e quanto sottende al concetto stesso di materia, ci permette di vedere la dove non stiamo guardando, verso la realtà ultima delle cose, verso l'intimità del nostro essere per avvicinarci alla comprensione, o almeno alla intuizione, che effettivamente tutto è legato e che ogni nostra azione è possibile in quanto qualcuno o qualcosa la resa tale.
L'io, dunque, quell'io gigante a cui facciamo costante riferimento e che abbiamo piazzato il più in alto possibile, in questa prospettiva viene assolutamente ridimensionato, o più correttamente si può dire che si fa da parte. E' in questo modo che l'aggressione alla Natura che in definitiva è anche aggressione a noi stessi, può trovare soluzione. Duemilacinquecento anni fa, un indiano chiamato poi "il risvegliato", descrisse l'interdipendenza di tutti i fenomeni vedendone la "vacuità", ovvero come tutte le cose sono vuote di un sè separato e isolato. Una interdipendenza a cui si aggiunge l'impermanenza di tutto ciò che si manifesta ai nostri occhi.
"Se un chicco di riso non avesse la natura dell'impermanenza e del non sè, non potrebbe trasformarsi in una piantina. Se le nuvole non fossero prive di un sè e impermanenti non potrebbero trasformarsi in pioggia. Senza natura impermanente e priva di un sè, un bambino non potrebbe diventare un adulto" .
Osservando in questo modo le cose del mondo, si comprende come è solo la rete di relazioni tra gli oggetti che ne definisce la loro esistenza. La separazione tra di essi e quindi anche quella tra il sè e tutto il resto, in ultima analisi non sarebbe altro che un pregiudizio ontologico, una falsa distinzione operata dall'intelletto. Nei secoli passati non c'era la fisica quantistica a porre distinzioni tra cosa percepiamo e cosa è invece la realtà dei fenomeni ma fu l'affinamento del pensiero e lo stato meditativo dei praticanti a spingersi in quella direzione.
La perdita di percezione e di riflessione sul nostro reale stato, su quello che in effetti siamo, si configura come un male interiore che si è radicato nelle nostre viscere e che si esplicita esibendo insipienza e indifferenza, ricorso alla violenza, assenza di compassione. Ponendo la nostra attenzione unicamente sul soddisfacimento materiale e psicologico dei nostri desideri, soprattutto di quelli indotti, e rinunciando a qualsiasi ricerca di conoscenza e di condizione altra, si finisce con il disconoscere le potenzialità del nostro essere più intimo, del nostro possibile cammino interiore, della nostra coscienza, inibendo la nostra ricerca di equilibrio e felicità .
La malattia del -non pensiero- contemporaneo conduce così a vari tipi di sofferenza, considerata l'impossibilità pratica di soddisfare un io divenuto sempre più feroce ed insaziabile. E' l'istinto di morte, per usare una espressione freudiana, che si fa largo e ci consuma e in questo modo consuma il nostro rapporto con il mondo naturale.
Se, come ha insegnato Siddharta Gautama, la sofferenza trova origine nell'attaccamento, nella rabbia e nell'ignoranza (intesa come base di tutte le afflizioni mentali), la distanza che abbiamo messo tra noi e la Natura è dunque la misura di questa condizione. Sinceramente non so se, come comunità umana, saremo in grado di abbandonare la via che abbiamo intrapreso. Il progressivo affermarsi del modello univoco di comportamento globale ci dice che così non è, almeno per il momento. Troppo forte la tentazione di stare al centro di tutto, o almeno di pensarlo.
Troppo invadente la suggestione di poter fare a meno di ciò che è alla base della nostra esistenza: la dipendenza fisica, ovvero il limite che ci è imposto dai processi naturali. Ma se tutto è effettivamente impermanente anche questa situazione è destinata a mutare. La domanda è come e quando. I movimenti di pensiero e di azione che trovano fondamento nella ricollocazione della nostra specie nel contesto naturale come "parte del tutto", sia pure in una versione che non intende nè ripudiare, nè rinunciare almeno a parte delle utilità che il progresso ci ha consegnato, al momento rappresentano una quota insignificante della "massa umana".
Vivere in modo frugale e condiviso nel rispetto degli equilibri naturali, si pone infatti all'opposto di quanto viene generalmente pubblicizzato affinchè ci si possa dire effettivamente moderni. E' pur vero che più passa il tempo e più si manifestano con durezza gli effetti sgradevoli del modello dominante, più un numero sempre maggiore di persone si interroga rispetto a quello che stà avvenendo, a partire dalla propria mancata soddisfazione rispetto a quanto è stato promesso dai proclami materialistici.
Ma, in realtà, nessuno può indicare con una certa dose di sicurezza che cosa potrà avvenire e se questa maggiore consapevolezza sarà in grado di ricondurci sulla retta via di un comportamento non distruttivo. Certo è che se non si ricuce lo strappo, se non si accetta il fatto che noi non siamo separati dalla Natura e che è indispensabile accettarne i limiti, l'io individualistico che superando ogni confine geografico e culturale oggi si esprime con tanta irruenza, è destinato a deflagare definitivamente riducendo in pezzi l'ambiente che ci ospita e la nostra stessa specie.
Comprendere l'illusorietà del nostro sè e del mondo artificiale che abbiamo creato per ricollocarsi nella giusta posizione all'interno del fluire naturale è la scelta migliore che ciascuno di noi può fare. Occorre pertanto porsi in una posizione di non contrasto, di non dualità. Una visione unitaria invece che frammentata, una pratica amorevole invece che prevaricatrice, una percezione stabile piuttosto che disarmonica, sono segmenti di un percorso da ricostruire, a livello personale e come condotta sociale. Non abbiamo molto tempo per cambiare strada. Proviamo a farlo.
Max Strata
Riferimenti:
Fritjof Capra, Il Tao della Fisica, Gli Adelphi 1989
Guido Dalla Casa, L'Ecologia profonda, Mimesis 2011
H.D. Thoreau, Walden, BUR 1990.
Thich Nhat Hanh, Vita di Siddharta il Buddha, Ubaldini 1992
Mi piace questa ampia carrellata di punti di vista e riflessioni, che condivido e ringrazio tutti gli autori che ci spingono a sane riflessioni e prese di coscienza.
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