di Etain Addey
Sul pullman a Genova feci subito amicizia con una donna; capii dai suoi vestiti e dalla sua aria di patriarca che era diretta allo stesso incontro in un paesino dell’Appennino ligure. Parlammo del suo asino Pegaso, della sue galline, del suo tentativo di ammazzare un cinghiale con la balestra, delle nostre pecore, della lana che filavo mentre viaggiavamo.
I boschi di qua e di là della strada erano pieni di neve e i paesini che attraversavamo sembravano abbarbicati su dirupi con poca terra attorno. Mi domandai come campava la gente di quei luoghi quando non aveva ancora la scelta di scendere a valle a fare l’operaio. Simona mi indicò la deviazione per il suo paese nativo e mi raccontò la storia del suo nonno
“Era uno di otto figli e quando era piccolo si ammalò di polmonite. Sua madre lo mise fuori casa: era convinta che stesse per morire, e già le mancava il cibo per gli altri sette figli. Lo adagiò sotto un pero. Ma il nonno guarì!”
Rimanemmo in silenzio. Pensavo alla vita di quella donna, fatta di matematica rigorosità, una vita in cui contava ogni gesto, ogni patata, ogni cicco di granturco, ai calcoli che disegnavano i contorni del suo vivere. Immaginavo il suo togliere già dalla propria bocca la polenta tranne quel poco che le serviva per sopravvivere e lavorare, perché senza madre non ci sarebbe vita per nessuno dei figli.
L’immagine del bambino disteso bruciante sotto il pero non la posso dimenticare e medito sui limiti che ormai sembrano spazzati via dalla nostra vita.
Nel 1794 Don Michele Dondero, che si era prodigato a introdurre la coltivazione della patata proprio in questa zona dell’Appennino ebbe a dire, della sua parrocchia di Roccatagliata, che grazie alle patate “non ho perduto ben 40 famiglie che sarebbero senza di esse spiantate affatto e emigrate; e quel che più mi consola...non hanno dovuto finora molte fanciulle ed altre giovani andar vagabonde, e molti vecchi e bambini non sono andati a perire miseramente.”
Evidentemente nessuno vorrebbe più trovarsi in situazioni così drammatiche. Così in questi ultimi anni abbiamo eliminato dalla nostra vita, per quanto ci è possibile, la scarsità, il misurare ogni risorsa, dimenticando quei vecchi limiti della vita pre-industriale.
Tornai dall’incontro di Genova lunedì mattina presto e scesi subito nella stalla delle pecore perché a quell’ora Martino era sicuramente là a governare gli animali. Era la stagione degli agnelli e quando ero partita venerdì sera ne erano già nati diciannove. Mi incontrò sull’uscio Martino e senza perdere tempo in saluti, mi disse: “Qui abbiamo un brutto problema. Margarita ha fatto dei gemelli stanotte e stanno bene, ma ha partorito anche Pazienza stamattina e le è uscito l’utero.” “E l’agnello?” chiesi. “L’agnello sta bene, è grosso, ma capisci che la povera Pazienza è al primo parto? Anche se fosse possibile rimettere a posto l’utero ora che è pure sporco, si ripresenterebbe questo problema per tutti i futuri parti. Questo è solo il primo anno! No, bisogna ammazzarla.”
Entrammo nella stalla dove erano rimaste solamente le due pecore che avevano partorito e i tre agnelli. Pazienza era in uno stato pietoso, agitata e spaventata. Con molta pena, concordai. Non era un ragionamento solo economico, stavamo cercando soprattutto di stimare le future sofferenze della pecora e dei suoi agnelli, di conservare la salute globale del gregge.
“E l’agnello?” chiesi. “L’agnello è meglio ammazzarlo, con chi starà?” rispose Martino. Qui ci fu una discussione. Mi sembrava un peccato e volevo allevarlo con un biberon. Martino scosse la testa: “Ma da solo qui nella stalla gli prende il panico. E se lo facciamo uscire sul pascolo, si trova da solo e affamato.” È vero che un agnello solo è angosciato, ha bisogno di accodarsi al gregge. “Se lo mettiamo con la Margarita forse lei lo accetta”, dissi guardando l’altra pecora con i suoi piccoli gemelli. “Mah! Sono già molte ore che ha partorito Margarita, non credo che lo accetti ormai. E poi non ce la fa ad allattarne tre! Verranno tre agnelli deboli!”rispose Martino. “Ma io lo metto con la pecora solo perché abbia qualcuno da seguire fuori, gli dò il biberon mattina e sera!”
La povera Pazienza belava disperata più per la scomparsa delle altre pecore che per il dolore. Il suo agnello cercava di seguirla e la Margarita continuava a odorare i due agnelli che le giravano attorno nel piccolo scompartimento nell’angolo della stalla dove l’avevamo messa.
Spesso in questa vita si presentano emergenze come questa in cui bisogna considerare velocemente tutta una serie di variabili e lasciare da parte i lavori programmati. Martino andò ad organizzare la macellazione. Io andai a prendere acqua e aceto per lavare il freezer: lo teniamo in funzione solo pochi mesi all’anno. Non volevo togliere l’agnello a Pazienza finchè era viva, sembrava troppo crudele.
Tornai nella stalla. Martino, le mani insanguinate, stava mungendo il colostro dalla Pazienza. Poi prese la pecora e la portò via.
Versai quello che aveva munto nel biberon, presi in braccio l’agnello e gli feci bere il colostro ancora caldo. Non era facile ma era importante che bevesse almeno un po’ di questo primo latte che dà l’immunità. L’agnello non sapeva succhiare bene ancora ma alla fine scolò metà del biberon . Ora veniva la parte difficile. Presi su uno degli agnelli neonati di Margarita. La pecora mi guardò sospettosa. “Un momento Margarita, stai tranquilla!” gli mormorai. Strofinai l’agnello orfano su tutto il corpo con l’agnello di Margarita e poi misi entrambi i piccoli dentro il recinto di Margarita. Margarita abbassò la testa cercando di capire cosa era successo. Lo spazio era molto ristretto, l’avevamo creato apposta per metterci le pecore quando facevano gemelli, in modo che nessuno dei due si perdesse fra gli altri agnelli. Se la madre non ha l’agnello vicino nelle prime ore non lo riconosce più e non lo allatterà. C’è un momento fisiologico che bisogna cogliere.
Ora Margarita era confusa. Vedeva troppi agnelli e l’odore di uno le risultò ambiguo. L’agnello orfano subito si tuffò sotto Margarita e bevve. “Bravo! Sei uno che vuole vivere!” pensai. Margarita mise le narici vicino alla coda dell’agnello e improvvisamente decise che non andava bene. Si girò e gli diede una botta secca con la testa. L’agnello si coricò nella paglia con i due fratelli adottivi. “Bene, forse così si confondono meglio gli odori.” pensai.
Ogni tanto, durante quel giorno, andavo a osservare l’orfano. Margarita era indecisa, un po’ lo faceva bere e un po’ lo mandava via. L’agnello capì che era meglio avvicinarla da dietro. Per due giorni continuai a far bere l’orfano dal biberon, in modo da non pesare troppo su Margarita. Li facemmo uscire al pascolo con il gregge e l’orfano correva sempre con la sua famiglia adottiva. Qualche volta sembrava che stesse bene, qualche volta sembrava un piccolo emarginato.
Si aveva un senso di dispiacere misto alla sensazione di aver fatto quello che andava fatto, di aver agito entro i limiti che la situazione stabiliva. Dietro le nostre decisioni ci sono dei fatti: qui ci sono venti ettari di pascolo e non di più, le venti pecore noi le lasciamo morire di vecchiaia, a differenza di molti pastori che le tengono solo sei-sette anni, stanno fuori tutto l’anno sulle colline, mai chiuse nella stalla, almeno che non ci sia la neve alta oppure la pioggia torrenziale. Cerchiamo di fargli vivere una vita il più naturale possibile. E noi anche dobbiamo campare con quel che produciamo qui. Tutti questi fattori confluivano nella decisione che avevamo preso.
Due giorni dopo, partorì un’altra pecora con grandi difficoltà e l’agnello morì. Martino colse il momento magico quando la pecora Fatima, stremata e sconvolta, cercava il suo agnello e le mise davanti l’orfanello. Fatima lo prese con sè e così l’orfanello finalmente trovò un’accoglienza amorosa.
Stamattina partono tutti per il pascolo – venti pecore e ventidue agnelli che saltano, corrono e giocano insieme lungo il fosso sopra l’aia. Margarita ha un po’ l’aria di chi conta e riconta i figli, ma Fatima è felice.
Ecco, nella vita di campagna abbiamo ancora a che fare con i limiti concreti della vita e della morte e questi limiti hanno la virtù di rendere visibili dei confini, di far risaltare la necessità senza la quale manca una disciplina di vita. Non possiamo tenere più di un certo numero di pecore; se le teniamo per quindici anni devono essere in buona salute; la madre pecora ha i suoi tempi che vanno rispettati: questi sono alcuni limiti.
Credo che anche in mezzo alla miseria molti abbiano intravisto cosa si perda quando si elimina dalla vita la necessità, i limiti concreti che fanno parte della vita sulla terra. Nuto Revelli cita un contadino di Morozzo, Beppe, che ha intervistato nel 1979 : “Mi sono adattato a lavorare in una gabbia, peggio di un cane. Nessuna soddisfazione perché questa terra è mia, la fabbrica invece è della Michelin. Anche a costo di sopravvivere sarei rimasto volentieri a lavorare soltanto in campagna. Perché io la passione della terra non la poserò fin che vivo. ... Quanti sono ancora capaci di affilare una falce? ...Non un giovane che sia capace ad infilare una mano dentro e afferrare una zampa di vitello...”
Ieri mi capitò sotto mano il libro sui simboli di Cooper e cercai il significato tradizionale del pero. Pare che rappresenti “la speranza e la buona salute” mentre per i cinesi è ambiguo, simbolizza sia “la longevità che il lutto e il carattere effimero dell’esistenza”, perché il fiore del pero dura poco ed è di estrema fragilità mentre l’albero diventa anche molto vecchio.
Quella donna contadina sull’Appennino ligure, con il bambino ammalato tra le braccia forse in cuor suo colse la natura del pero quando lo coricò sotto quell’albero: lo stava affidando al grande mistero della vita. Può essere che quando si vive con dei limiti gravissimi si perda la sensazione di essere soli, si sia consapevoli di un’altra dimensione. Viviamo tutti sotto il grande albero della vita.
Etain Addey
GENNAIO 2009
della stessa Autrice
Una Gioia silenziosa
Acque profonde