NONVIOLENZA CONTRO OGNI TERRORISMO
di Nanni Salio
"Non vedo nessun'altra soluzione, veramente non ne vedo nessun'altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo piu' che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. E' l'unica lezione di questa guerra, dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove".
E' da queste parole di Etty Hillesum, scritte nel suo Diario 1941-1943, durante la seconda guerra mondiale, poco prima di morire nel lager, che bisogna partire per riflettere sulla tragica serie di attentati dell'11 settembre negli USA. "Il regno di Dio e' in voi", diceva Tolstoi, ma potremmo aggiungere: "...anche quello di satana".
Per i persuasi della nonviolenza, il compito e' oggi piu' difficile che mai. Bisogna riuscire a interrompere la spirale della violenza che quasi certamente verra' alimentata dalla ritorsione che il governo USA sta pianificando. La via maestra e' quella del dialogo con tutte le parti in causa, conoscerne e riconoscerne torti e ragioni, vedere e far vedere la sofferenza e il dolore di tutte le vittime, aiutare i persecutori a riumanizzarsi, analizzare i traumi subiti mediante una sorta di grande terapia collettiva che apra la strada alla riconciliazione del genere umano.
Dobbiamo aiutare i cittadini americani a prendere coscienza della irresponsabilita' della loro classe politica e del fallimento delle dottrine militari, anch'esse basate sul terrorismo (di stato), che li hanno resi piu' insicuri e vulnerabili. Cosi' come a suo tempo aiutammo i cittadini sovietici a scrollarsi di dosso un regime che cadde quasi senza colpo ferire, attraverso una strabiliante lotta nonviolenta culminata nel 1989, ora dobbiamo aiutare i cittadini americani a liberarsi dal giogo altrettanto odioso e pericoloso del complesso militare-industriale-scientifico che li ha portati in un vicolo cieco.
Al contempo, occorre aiutare le popolazioni dell'islam e piu' in generale i popoli oppressi a non cadere nella trappola della violenza e del terrorismo. E' necessario un gigantesco impegno di educazione alla lotta nonviolenta, l'unica strada che nel secolo scorso ha consentito di ottenere risultati significativi e duraturi senza seminare odio, vittime, vendette, massacri, tragedie ricorrenti e senza fine.
Non ci sara' vera pace senza giustizia e non ci saranno ne' pace ne' giustizia senza una cultura della nonviolenza attiva. E' la globalita' dei problemi che impone di riconoscere sia i limiti, i fallimenti e gli errori sia gli aspetti positivi, creativi, costruttivi di ciascuna cultura. Non ci sono popoli eletti ne' reietti, ma ciascuno ha il suo bagaglio di esperienze storiche, miti, traumi, successi e insuccessi dai quali partire per costruire una cultura che riconosca nella nonviolenza il seme comune dell'umanita', le verita' antiche come le colline.
Chi si fara' carico di questo progetto, della trasformazione nonviolenta di ogni conflitto, dal micro al macro? In tutte le principali tradizioni culturali e religiose sono presenti uomini e donne che hanno saputo assumere su di se' il dolore del mondo per compiere un'opera di redenzione: sono i "giusti" della tradizione ebraica, il redentore della religione cristiana, i bodhisattva della cultura buddhista, i rishi degli antichi Veda, i sufi dell'islam. Oggi, questa eredita' culturale dev'essere raccolta e disseminata da tutti coloro che hanno effettivamente a cuore le sorti dell'umanita' intera e che intendono dare alla propria esistenza un senso piu' profondo e autentico. Se ci sono persone disposte a immolare la propria vita per seminare il terrore, dovra' esserci un numero ancora piu' grande di satyagrahi preparati a donare la vita perche' persuasi della nonviolenza, come ci hanno insegnato Gandhi, Martin Luther King, Etty Hillesum e tanti altri che hanno vissuto in momenti della storia umana non meno drammatici del nostro.
Il "movimento di movimenti", venuto alla ribalta negli ultimi due anni per le sue iniziative di contestazione dei vertici dei potenti, si trova ora di fronte a una scelta ineludibile: deve farsi carico consapevolmente di questo ambizioso progetto e imboccare chiaramente e con determinazione la strada della nonviolenza attiva, costruttiva e creativa per non soccombere nella stretta fra i due terrorismi. La sua agenda diventa ancora piu' fitta e una priorita' assoluta dovra' essere assegnata alla lotta contro lo strapotere degli apparati militari, ovunque nel mondo, alla realizzazione di modelli di difesa basati sulle tecniche di lotta della nonviolenza, alla democratizzazione delle Nazioni Unite, al boicottaggio delle industrie belliche, all'abolizione degli eserciti, alla disobbedienza civile di massa.
Solo cosi' la lotta per la giustizia sociale, per la salvaguardia del pianeta, per la difesa dei deboli non si avvitera' nell'eterna e drammatica spirale autodistruttiva della violenza diretta.
Nanni Salio
( In questo stralcio di articolo, apparso il 9 novembre 1992, viene evidenziata l'urgenza di uno stile di vita più austero; l'austerità di cui ci parla Langer, tuttavia, non è quella pesante, quasi autopunitiva, funzionale al raggiungimento del benessere economico e destinata ad essere abbandonata nel momento in cui questo benessere fosse raggiunto; l'austerità di Langer è un valore in se stessa, è colei che ci sottrae al circolo vizioso dell'usa-e-getta, è amica dell'uomo e dell'ambiente.)
Vediamo dunque se il termine "austerità" può caratterizzare oggi uno stile di vita ed un'opzione sociale accettabile e persino desiderabile, o se invece si tratti sempre e di nuovo di un involucro mistificante per arrivare poi al solito dunque, quello di ri-capitalizzare e di dare impulsi a quella che chiamiamo ripresa economica.
Ci sono alcune verità assai semplici da considerare: nel mondo industrializzato si produce, si consuma e si inquina troppo, si spreca troppa energia non rinnovabile, si lasciano troppi rifiuti non riassorbili senza ferite dalla natura, ci si sposta, si costruisce e si distrugge troppo. Naturalmente sappiamo bene che la distruzione sociale di quei danni è inversamente proporzionale alla ricchezza: i ceti opulenti e benestanti esagerano più dei poveri, i quali hanno poco da sprecare perché mancano dei necessari presupposti economici. Ma essi non sono meno influenzati dalla cultura dominante, per cui aspirano - assai sovente a diventare al più presto esattamente come i più ricchi, e trovano spesso insopportabile l'idea che la felicità non esiga l'automobile, il video-recorder e le vacanze a Madagascar.
Accettare oggi la positiva necessità di una contrazione di quel "troppo" e di una ragionevole e graduale de-crescita, e rilanciare, di fronte alla gravissima crisi, un'idea positiva di austerità come stile di vita compatibile con un benessere durevole e sostenibile, sarà possibile solo a patto che essa venga vissuta non come diminuzione, bensì come arricchimento di vitalità e di autodeterminazione. E ciò dipende, ovviamente, da tutto un intreccio di scelte personali e collettive, di condizioni culturali e sociali, di sinergie ed intese. Ma qualcuno dovrà pur cominciare, e indicare un privilegio diverso da quello della ricchezza e dei consumi: il privilegio di non dipendere troppo dalla dotazione materiale e finanziaria, il privilegio di preferire nella vita tutte le cose che non si possono comperare o vendere, il privilegio di usare con saggezza e parsimonia l'eredità comune a tutti, senza recinti e privatizzazioni indebite.
L'austerità di una vita più frugale meno riempita da merci usa-e-getta, più ricca di doni, di servizi mutui e reciproci, di condivisioni e co-usi a titolo gratuito, di ricuperi e riciclaggi, di soddisfazioni senza prezzo. Ristabilire e rendere desiderabile questo genere di austerità come possibile stile di vita, liberamente scelto e coltivato come ricchezza, comporterà una notevole rivoluzione culturale ed una cospicua riscoperta della dimensione comunitaria. Perché con meno beni e meno denaro si può vivere bene solo se si può tornare a contare sull'aiuto gratuito degli altri, sull'uso in comune di tante opportunità, sulla fruizione della natura come bene comune, non riducibile a merce.
Tutto ciò non potrà essere proposto se lo si intendesse e lo si organizzasse come strada verso il rilancio del meccanismo perverso di accumulazione e crescita economica che ha generato l'inflazione selvaggia di natura, di piaceri e di valori che stiamo sperimentando: una "svalutazione" ben più grave di quella della lira (così come assai più grave appare il buco d'ozono rispetto al buco nelle finanze dello Stato) alla quale non si deve rispondere volendo "tornare nello Sme", cioè riprendere al più presto possibile l'economia degli sprechi, del degrado, dello svuotamento dei valori.
L'austerità potrà invece essere vissuta con piacere e come miglioramento della qualità della vita, se ci farà dipendere meno dai soldi, da apparati, da beni e servizi acquistabili sul mercato, ed esigerà che ognuno ridiventi più inter-dipendente: sostenuto dagli altri, dalla qualità delle relazioni sociali ed interpersonali, dalle conoscenze ed abilità, dall'arte di adattarsi ed arrangiarsi, dalla capacità non ottenibili con alcuna carta di credito, nè chiavi in mano, pronte ad essere passivamente consumate.
Può essere una grande occasione.
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Hetty Hillesum
Una volta io m’immaginavo un futuro caotico perchè mi rifiutavo di vivere il futuro più prossimo. Ero come un bambino molto viziato, volevo che tutto mi fosse regalato. A volte avevo la certezza – peraltro molto vaga – che in futuro sarei potuta diventare “qualcuno” e avrei realizzato qualcosa di “straordinario”, altre volte mi ripigliava quella paura confusa che “sarei andata in malora lo stesso”. Comincio a capire perché: mi rifiutavo di adempiere ai compiti che avevo sotto gli occhi, mi rifiutavo di salire verso quel futuro di gradino in gradino. …Una volta vivevo sempre come in una fase preparatoria, avevo la sensazione che ogni cosa che facevo non fosse ancora quella “vera” ma una preparazione a qualcosa di diverso, di grande, di vero, appunto. Ora quel sentimento è cessato. Io vivo, vivo pienamente e la vita vale la pena di viverla ora, oggi, in questo momento; e se sapessi di dover morire domani direi: mi dispiace molto, ma così come è stato, è stato un bene.
Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo. M’immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé. Ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo tra le mani, credo che cerchino Dio dentro di sé…
A volte vorrei rifugiarmi con tutto quel che ho dentro un paio di parole. Ma non esistono ancora parole che mi vogliano ospitare. E’ proprio così. Io sto cercando un tetto che mi ripari ma dovrò costruirmi una casa, pietra su pietra. E così ognuno cerca una casa, un rifugio per sé. E io mi cerco sempre un paio di parole.
A volte mi sembra che ogni parola che viene detta, e ogni gesto che viene fatto, accrescano il grande equivoco. Allora vorrei sprofondarmi in un gran silenzio e vorrei anche imporre questo silenzio agli altri. Sì, a volte qualunque parola accresce i malintesi su questa terra troppo loquace.
LA NON VIOLENZA IN AUSCHWITZ (1)
Ieri, per un momento, ho pensato che non avrei potuto continuare a vivere, che avevo bisogno di aiuto. La vita e il dolore avevano perso il loro significato, avevo la sensazione di "sfasciarmi" sotto un peso enorme, ma anche questa volta ho combattuto una battaglia che poi all'improvviso mi ha permesso di andare avanti con maggiore forza. Ho provato a guardare in faccia il "dolore dell'umanità".
Ho affrontato questo dolore, molti interrogativi hanno trovato risposta, l'assurdità ha ceduto il posto ad un po' più di ordine e di coerenza: ora posso andare avanti di nuovo. E' stata un'altra breve ma violenta battaglia, ne sono uscita con un pezzetto di maturità in più. Mi sento come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi o alcuni problemi del nostro tempo. L'unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità in qualche parte, in cui possono combattere e placarsi e noi dobbiamo aprire loro il nostro spazio interiore senza sfuggire.
Il marciume che c'è negli altri c'è anche in noi, continuavo a predicare; non vedo nessun'altra soluzione, veramente non ne vedo nessun altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappare via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. E' l'unica soluzione di questa guerra (seconda guerra mondiale): dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove.
Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M'innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offre riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più "raccolta", concentrata e forte. Questo ritirarmi nella chiusa cella della preghiera, diventa per me una realtà sempre più grande. Dappertutto c'erano cartelli che ci vietavano le strada per la campagna: Ma sopra quell'unico pezzo di strada che ci rimane c'è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci nulla, non possono veramente farci niente.
Possono renderci la vita un po' spiacevole, possono provarci di qualche bene materiale e di un po' di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a provarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati ed oppressi, col nostro odio e con la millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quello che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli.
LA NON VIOLENZA IN AUSCHWITZ (2)
Si deve anche avere la forza di soffrire da soli e di non pesare sugli altro con le proprie paure e con i propri fardelli. Lo dobbiamo ancora imparare e ci si dovrebbe reciprocamente educare a ciò, se possibile con la dolcezza e altrimenti con la severità.
Dobbiamo pregare di tutto cuore che succeda qualcosa di buono, finché conserviamo la disposizione verso questo qualcosa di buono. Infatti, se il nostro odio ci fa degenerare in bestie come lo sono loro, non servirà a nulla. L'unica cosa che possiamo salvare in questi tempi e anche l'unica che veramente conti è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì mio Dio sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi ad ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all'ultimo la tua casa in noi.
Esistono persone che all'ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d'argento, invece di salvare te, mio Dio. E altre persone che sono ridotte a ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessun se si è nelle tue braccia.
Mio Dio è un periodo troppo duro per persone fragili come me. So che seguirà un periodo diverso, un periodo di umanesimo. Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri tutta l'umanità che conservo in me stessa, malgrado le mie esperienze quotidiane. L'unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi e di prepararli fin d'ora in noi stessi. Vorrei tanto vivere per aiutare a preparare questi tempi nuovi: verranno di certo, non sento forse che stanno crescendo in me, ogni giorno?
La miseria che c'è qui è veramente terribile, eppure alla sera tardi quando il giorno si è inabissato dentro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato e allora dal mio cuore s'innalza sempre una voce: non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire in mondo completamente nuovo.
A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzettino di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita.
LA NON VIOLENZA IN AUSCHWITZ (3)
Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile ma non è grave: dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà da sé. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso; se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo; se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è chiedere troppo. E' l'unica soluzione possibile. E' quel pezzettino d'eternità che ci portiamo dentro. Sono una persona felice e lodo questa vita, nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra.
Le mie battaglie le combatto contro di me, contro i miei proprio demoni: ma combattere in mezzo a migliaia di persone impaurite, contro fanatici furiosi e gelidi che vogliono la nostra fine, no, questo non è proprio il mio genere. Non ho paura, non so, mi sento così tranquilla. Mi sento in grado di sopportare il pezzo di storia che stiamo vivendo, senza soccombere. Mi sembra che si esageri nel temere per il nostro corpo. Lo spirito viene dimenticato, s'accartoccia e avvizzisce in qualche angolino. Viviamo in un modo sbagliato, senza dignità. Io non odio nessuno, non sono amareggiata: una volta che l'amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito.
Bene, io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so: Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato, anche se non ho quasi più il coraggio di dirlo quando mi trovo in compagnia.
La vita e la morte, il dolore e la gioia e persecuzioni, le vesciche ai piedi e il gelsomino dietro la casa, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme e come tale lo accetto e comincio a capirlo sempre meglio.
Un'altra cosa ancora dopo quella mattina: la mia consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l'ingiustizia che ci sono al mondo, la coscienza che tutti questi orrori non sono come un pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma che si trovano vicinissimi e nascono dentro di noi: e perciò sono meno più familiari e assai meno terrificanti. Quel che fa paura è il fatto che certi sistemi possono crescere al punto da superare gli uomini e da tenerli stretti in una morsa diabolica, gli autori come le vittime.
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