UN BALLETTO PER IL SUK
A passeggio nel cuore di una città araba Amo il lavoro, il suo ritmo, sono forse un vetero-futurista, ma queste macchine ”aperte” ed i loro ritmi mi affascinano. Anche ai miei occhi di profano il loro battere, girare, tritare espleta funzioni comprensibili. Macchine meravigliose nella loro geniale semplicità, che non chiedono schiavi o robot. Entra filo ed esce maglia, entra caffè ed esce polvere, entra lamiera ed esce forma; mani abili battono i ritmi del lavoro, il concerto è comprensibile come un caldo blues.
La proto-industria non ti lascia estraneo. Tanto meno a Damasco, dove il lavoro ha luogo per lo più in cortili, gli antichi khan, i magazzini e botteghe aperte o direttamente sul vicolo. Ma nel suk più grande ed antico la pressione è tale da far arrampicare l’attività ovunque. I vecchi edifici, che costeggiano ogni galleria, diventano ghiandole di un grande apparato digerente. Macchine, materiali, uomini si inerpicano fino agli ultimi piani; ogni minuscolo spazio diventa laboratorio, la partecipazione al pulsare è inevitabile. In pochi metri quadri si fila, si tesse, si cuce, si taglia, si monta ed ovunque un tè od un caffè sono sempre disponibili.
Dal quarto piano al vicolo nessuna porta è chiusa, il ritmo batte fino a tarda sera; voci e rumori si integrano in un blues medio-orientale, scandito dai reiterati richiami commerciali. Un’offerta speciale, di dubbia provenienza, di mutande o pedali, sigarette o gioielli, può dare il tempo a tutto un settore di suk con, sotto, la base ritmica della proto-industria. Io non posso non immaginare su questa musica un balletto, un omaggio al lavoro.
Sarà forse la mia condizione di professionista, che raramente vive il lavoro manuale, ma questo clima mi entusiasma; far parte del pulsare, scambiare, trasformare, mi fa sentire vivo; le mie mille imprese sono un’ottima scusa per questa immersione. E non ci sono pregiudizi o pigrizie; fare una maglia, una borsa, o scoprire erbe medicinali: tutto è possibile nel suk. Certo, i limiti esistono, per la disorganizzazione, le difficoltà linguistiche, i problemi tecnici e politici, ma non sono niente in confronto alla scoraggiante arroganza degli artigiani nostrani, alla loro pigrizia fisica e mentale di vecchi, ostili a qualsiasi cosa nuova venga loro proposta. Non più bisognosi, ma neanche pregnanti, abbandonati dalla centralità storica. Niente a confronto con l’incomunicabilità delle ditte in ”pelle umana”, tutte vetro e moquette, ma senza più anima, prive di persone; solo computers e segretarie immotivate, dove nessuno può, vuole o si sente il diritto biologico di decidere.
Il suk è invece fabbrica, mercato, scuola, che convivono. Palestra di vita. la cultura materiale vi evolve e si trasmette e, con essa, l’identità della città che nel suk si incontra. L’obiettivo commerciale previene barriere di territorio; tutti hanno diritto di presenziare il suk, di far parte del grande gioco di scambio.
Dove maggiore è l’interdipendenza dei vari segmenti di attività, è più viva e leggibile l’integrazione sociale, maggiore la schiettezza, la semplicità. Ma per trovare questo clima bisogna entrare nel profondo del suk, lasciare le grandi gallerie dell’inizio ed immergersi nei vicoli. Non è attività di turismo di massa. Per questo ci sono i bravissimi commercianti della yamidia, il suk coperto dalla cittadella alta alla moschea degli Omayadi, con il loro richiamo e le mille lingue che sanno. Pochi anni ancora ed anche questo universo verrà distrutto dallo sviluppo, dall’integrazione nell’economia mondiale, dalle comunicazioni di massa, dalla scoperta di cui questo stesso testo è parte.
Allora permettetemi, il prossimo venerdì, quando il suk musulmano tace, un balletto silenzioso nelle gallerie deserte, un omaggio al diritto al lavoro, non solo per il profitto, ma per l’arte del fare.
Franco Paolinelli progettista, agronomo forestale [email protected]
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