KABUL
di Gino Strada
Najib e Waseem, Afizullah e Nasir, poi Waheed e Rafiq, e Noor Aga e baba Jabbar: sono in tanti ad aspettarci, in ospedale. Contenti di vederci, sono saluti caldi e abbracci forti. Chiamo subito Milano.
"Siamo arrivati. Siamo a Kabul," ripete ad alta voce Teresa a tutti quelli che le stanno intorno in sede.
Non capisco se sono applausi o urla di gioia quelli che fanno gracchiare il satellitare, poi sento Teresa pronunciare la frase di rito: "Ragazzi, adesso stappiamo".
Teresa, mitica presidente di Emergency, che ha dato all'organizzazione il proprio stile e regole precise, come quella che le buone notizie si danno con un bicchiere di vino in mano.
Teresa è una sorpresa, ogni giorno. Sorprende tutti coloro che la conoscono, per l'intelligenza e la simpatia, perché è bellissimo ascoltarla, e guardarla. Sorprende per la sua capacità, unica, di capire le persone, di tenere insieme un gruppo, dando molto a tanti anche nei momenti difficili.
Poi, quando c'è qualcosa da festeggiare, o una bella notizia che allenti la tensione, Teresa si rilassa. È allora, quando la fine della tensione è ufficialmente certificata dal bicchiere di rosso, che di solito se ne esce con commenti e domande bizzarre, e inizia a chiamare la gente con nomi altrui. Io sono stato per anni "Cecilia".
Teresa è contenta che siamo a Kabul. Si lamenta, con l'ironia che dice di aver imparato da me e Cecilia: "Nostra figlia, che mi vuole male, mi sta avvertendo che non devo essere così felice. Mi ricorda che non sei arrivato a Viareggio, ma a Kabul. Pazienza, anche questa è fatta. Ricordati di prendere l'aspirina".
Anche noi siamo contenti, molto.
Non smetto di camminare per l'ospedale, è come riappropriarsene. Le stanze vuote e fredde presto riprenderanno vita, torneranno à essere corsie per i nostri pazienti, la giostra e lo scivolo e le altalene si riempiranno ancora di bambini. Qualcuno ci critica per questi "particolari", i "lussi" non strettamente necessari alla sopravvivenza dei pazienti: le pareti affrescate nelle corsie pediatriche, la cura maniacale della pulizia, dei pavimenti lucidi, dei servizi igienici in cui si sente l'odore dei detersivi.
Dicono che c'è sproporzione rispetto al livello del paese, alle devastazioni della guerra che segnano il territorio appena fuori il muro di cinta dell'ospedale.
Ma perché? Costa poco di più mettere nel giardino bougainville, gerani e rose. E altalene. Costa poco e aiuta a guarire meglio. Sono sicuro che i nostri sostenitori, quelli che sottraggono cinquanta euro alla pensione, o che consegnano agli amici, come lista di nozze, il nostro numero di conto corrente postale, sono d'accordo con questa scelta.
Uno dei principi della nostra organizzazione, che spieghiamo al personale medico e paramedico disposto a partire con noi, è semplicissimo: "Non si va nei paesi del cosiddetto 'Terzo mondo' a portare una sanità da Terzo mondo. Un ospedale va bene quando tu saresti disposto, senza esitazione, a ricoverarci tuo figlio, tua madre, tua moglie".
Il nostro viaggio e la fatica di Marco e degli altri in Panchir sono parte di un progetto più grande, che coinvolge molti.
Noi abbiamo il privilegio di poter essere imnediatamente utili. Ma in Italia ci sono decine di migliaia di persone che rendono possibile tutto ciò, non solo sostenendoci economicamente, ma anche, come mi dicono da Milano quando mi sentono depresso, "circondandoci di affetto".
Ci fosse Aladino disposto a esaudirmi un desiderio, chiederei questo: che fossero tutti qui a vedere la riapertura dell'ospedale.
Sarà di nuovo il nostro ospedale, dove si cerca di cucire ferite e riannodare brandelli di umanità, di cominciare di nuovo a vivere in mezzo alle tragedie.
[...] Un taxi arriva veloce in ospedale, i sedili posteriori sono stati tolti. Safiullah è disteso, accanto a lui, accovacciato nel bagagliaio della macchina, il padre Azizullah. "Stava giocando coi suoi compagni, hanno visto un oggetto giallo, il bambino gli ha dato un calcio, racconta Azizullah.
"Potrebbe essere una cluster bomb," dice Marco.
"È possibile."
Le cluster bomb sono state lanciate in abbondanza dagli aerei americani soprattutto sui villaggi vicino al fronte. La bomba si apre a poca distanza dal suolo: ne fuoriescono circa duecento cilindri delle dimensioni di un piccolo thermos, con in cima un soffietto di tela bianca a fare da paracadute.
Il venti, forse il trenta per cento delle bombe non esplodono al contatto col terreno, e da quel momento in poi si comportano come una mina antiuomo.
Restano li, ad aspettare che un gruppo di bambini ci passi accanto - come non notare un cilindro giallo, dello stesso colore dei tanto propagandati "sacchetti gialli" di aiuti piovuti dal cielo? - e incuriositi decidano di saperne di più, dell'ultimo gadget della civiltà, magari incominciando a tastarlo con un piede.
Così deve avere fatto Safiullah, sei anni.
Lo scaricano dalla macchina avvolto in una coperta marrone intrisa di sangue. Safiullah è in condizioni drammatiche, la gamba e la coscia destra sembrano non esserci più: sangue coagulato, pezzi di vestiti bruciati, brandelli di muscoli ovunque.
Sei anni.
Marco corre a prepararsi in sala operatoria, bisogna fare in fretta o morirà dissanguato. Lo raggiungo dopo un quarto d'ora, ha già iniziato l'intervento. Chiedo se gli serve una mano, sperando mi risponda di no.
"Non ti preoccupare." Deve aver capito che la fatica e la tensione dei giorni scorsi si sono fatte pesanti. È che per me, in quel momento, sarebbe stata una pena troppo grande cercare di salvare qualche pezzo di bambino.
Mi trovo a maledire la guerra, a maledire tutti quelli disposti a uccidere e tutti quelli che danno l'ordine di uccidere.
"In anestesia generale, disarticolazione dell'anca a destra. Débridement di ampie ferite alla coscia e gamba sinistra, avambraccio destro, avambraccio sinistro." Nello stanzino del blocco operatorio, Marco registra l'intervento chirurgico nella cartella clinica di Safiullah.
Torno in sala. Il bambino è ancora sul tavolo, Muftakhar, l'anestesista, lo sta ventilando.
Sembra una mummia, il corpo avvolto da garze e bende.
È grottesca quella cosa bianca, che occupa un terzo del tavolo operatorio, potrebbe essere un sacco della biancheria anziché quel che resta di un bambino.
"Come va?"
"Ha avuto un arresto cardiaco, ma l'abbiamo massaggiato ed è ripartito subito."
"E adesso?"
"Vieni a vedere le pupille," mi dice Muftakhar.
"Da quanto tempo sono così?"
"Molto."
"Continua."
[...] Adesso ci sono i soldi della guerra. Quella che promette aiuti.
È diventata buona la guerra, umana, generosa, compassionevole, umanitaria? No, ma deve farlo credere.
È fondamentale creare consenso alla guerra, far vedere che belle cose produce.
Ci avevano già provato in Kosovo.
L'idea della 'guerra umanitaria' si è formata sostanzialmente in quell'occasione: quando si decide di bombardare, di ammazzare, conviene garantire che dopo arriveranno gli aiuti. Certo si tratta di molto danaro, ma in fondo costa quanto un giorno o due di guerra, è un costo aggiuntivo che vale la spesa: è pubblicità, è comunicazione.
E il mondo 'umanitario', in buona misura, è stato al gioco.
In Afganistan l'operazione è stata ripetuta, questa volta in modo più meticoloso, e su larga scala.
Evacuare l'Afganistan, adesso si bombarda. Non si preoccupino le organizzazioni umanitarie: verrà il loro turno, dopo che i militari avranno fìnito. Stiano tranquille, avranno tutti i soldi che vorranno, dopo.
Nella macchina della guerra, c'è posto anche per il mondo umanitario. Anzi, un posto importante, una specie di nuovo reparto Cosmesi della guerra.
Far vedere quanti aiuti arrivano con la guerra, quante belle cose si possono fare per questa povera gente. Per i sopravvissuti, naturalmente.
C'è chi ritiene che noi, medici e infermieri che lavoriamo in zone di guerra, dovremmo limitarci a fare interventi chirurgici e medicazioni, senza pensare né prendere la parola.
Mi dicono dall'Italia che qualcuno ha preso ad attaccare pubblicamente Emergency con vigore esattamente per questo motivo, perché abbiamo detto no alla guerra e ai soldi della guerra.
Nella sede di Milano hanno deciso di non rispondere a questi attacchi, impegnati come sono a mandare avanti i progetti di cui siamo tutti orgogliosi, e che ci legittimano a parlare contro la guerra, perché ne vediamo ogni giorno la vera sostanza: le vittime.
È normale che qualcuno si arrabbi, stiamo disturbando la televendita della favoletta della guerra "bella e giusta".
Opinionisti, politologi, studiosi hanno sfìlato nei salotti televisivi per l'omaggio di rito alla guerra, abbiamo persino visto generali in pensione e qualche "esperto militare" lanciarsi in previsioni di tattica e strategia, i Bernacca dei botti.
Ne ricordo uno che sulla guerra la sa lunga, e si indispettisce se un profano osa dire che le mine antiuomo - in tutte le loro varianti - possono perfino essere oggetti pericolosi.
È allora che allarga le braccia e scuote il capo, e l'espressione, da soavemente comprensiva, si fa severa mentre sentenzia: "Beh, se proprio ci si va a paciugare...".
Tradotto: se i ragazzini sono così stupidi da andarsele a cercare, le mine, se frugano nella sabbia o le inseguono nei prati, in quel caso, forse, possono essere pericolose, ma questo non vuol dire che le mine siano brutta roba, sono i bambini a essere un po' pirla.
[...] Forse noi ne diamo un'interpretazione un po' restrittiva, al nome associamo sempre l'immagine di un attentato. Invece, tra i nostri concittadini del villaggio globale, sparsi nei diversi continenti, sono in centinaia di milioni, forse qualche miliardo a pensare che ci siano forme di terrorismo ancora più devastanti di un'autobomba, perfino di un aereo che esplode in un grattacielo.
Le artni chimiche, per esempio, usate contro la popolazione.
I curdi pensano al 1988 quando a Halabja, città dell'Iraq del Nord, in un'ora cinquemila civili vennero uccisi con i gas dagli aerei di Saddam Hussein. Sono convinti che sia stato un atto di terrorismo, e considerano vergognoso che il massacro - di cui erano perfettamente a conoscenza gli alleati di Saddam, Stati Uniti e Gran Bretagna - non sia stato fatto conoscere al mondo, né condannato.
I vietnamiti ricordano ancora le armi chimiche usate dagli aerei americani sulla popolazione del Vietnam del Sud negli anni sessanta. E ricordano i morti, i malati di tumori e leucemie, e i nati con malformazioni, nei decenni successivi. Tragedia così simile a quella che vivono, ancora oggi, gli abitanti di Hiroshima e Nagasaki, che nell'agosto 1945 videro centinaia di migliaia di persone morire in pochi secondi, vittime della più sconcertante arma terroristica: la bomba atomica.
Poco importa che aerei ed elicotteri avessero la bandiera a stelle e strisce, il risultato sarebbe stato lo stesso con la stella rossa: moltissimi vietnamiti, come i curdi e i giapponesi, pensano che sia stato terrorismo.
Altri nostri concittadini, gli iracheni a esempio, ritengono che imporre per dieci anni un embargo devastante per la popolazione - ha già causato un milione di morti - sia un'altra forma di terrorismo generalizzato, protratto.
Hanno torto i vietnamiti e i curdi, gli iracheni e i giapponesi? No, al contrario. Hanno assolutamente ragione, è stata la forma di terrorismo che loro, le loro famiglie e il loro popolo, hanno sperimentato.
Esattamente come i cittadini di New York identificheranno per sempre il terrorismo con il World Trade Center che va in frantumi con tremila persone dentro.
Molti popoli, tra quelli che abitano il pianeta, conoscono una forma o un'altra di terrorismo.
La Corte internazionale di giustizia ha sentenziato il 27 giugno del 1986 che i bombardamenti sulle comuni agricole del Nicaragua, il deposito di mine nelle acque territoriali di quel paese, il sostegno ai terroristi della Contra, che avevano massacrato decine di migliaia di persone, siano stati "un'attività militare o paramilitare illegittima e del tutto ingiustificabile in territorio straniero" che ha colpito la popolazione civile: un atto di terrorismo internazionale. E ha condannato i responsabili, gli Stati Uniti d'America.
L'elenco dei popoli, delle persone che hanno conosciuto violenza per atti di terrorismo percorre quasi tutto il mappamondo. Chi ha subito attentati e chi l'embargo, chi è stato bombardato e chi gassato, chi è stato vittima della pulizia etnica e chi chiuso nei campi di sterminio, chi è finito nei gulag o nelle riserve o nei campi profughi, chi ha il filo spinato intorno a casa e non può raggiungere l'ospedale, e chi l'ospedale potrebbe raggiungerlo, se qualcuno non gli sparasse prima. E chi mangerebbe sassi pur di sopravvivere, chi è malato e non ha medicine e chi è disperato nella sua povertà.
Vittime del terrorismo, ciascuno del suo.
Il terrorismo è la nuova forma della guerra, è il modo di fare la guerra degli ultimi sessant'anni: contro le popolazioni, prima ancora che tra eserciti o combattenti. La guerra che si può fare con migliaia di tonnellate di bombe o con l'embargo, con lo strangolamento economico o con i kamikaze sugli aerei o sugli autobus.
La guerra che genera guerra, un terrorismo contro l'altro, tanto a pagare saranno poi civili inermi.
Sono quindici anni che vedo atrocità e carneficine compiute da vari signori della guerra, chi si diceva di "destra" e chi di "sinistra", e non ci ho mai trovato grandi differenze. Ho visto, ovunque, la stessa schifezza, il macello di esseri umani. Ho visto la brutalità e la violenza, il godimento nell'uccidere un nemico indifeso.
Ci ho abbastanza a che fare, e non posso non odiare le guerre, sante e profane, e il terrorismo, che sia quello di Saddam a Halabja, o di Johnson a Saigon, di Osama a New York o di Bush in Afganistan.
Il terrorismo, cioè la guerra di oggi, è il vero mostro da eliminare.
Due sale operatorie funzionano senza sosta da più di ventiquattro ore, ad aggiustare gli intestini degli alunni sforacchiati dalle schegge metalliche di una guerra che i media occidentali si ostinano a presentare come già finita da un pezzo.
da: Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra
Fonte: Teca Libri
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