STRADE SPIRITUALI
di Enrico Falqui, Chiara Serenelli
Il viaggio ha sempre rappresentato, per le popolazioni nomadi e stanziali, una dimensione quasi imprescindibile dell’esistenza individuale e collettiva, l’elemento costante dell’evoluzione antropica fin dalle origini, seppur motivato da esigenze sempre mutevoli e in stretta correlazione con i diversi contesti culturali. Divenuto progressivamente metafora della stessa condizione esistenziale dell’uomo, emblema del suo sentirsi in fugace passaggio su questa Terra, ha rappresentato nel corso dei secoli attitudini, esigenze, volontà e desideri1, atteggiamenti che hanno caratterizzato la situazione umana nelle diverse epoche storiche e nei vari contesti socioculturali.
Dall’atto di vagare alla ricerca di cibo e riparo, come condizione necessaria per trovarsi e costruirsi un proprio habitat, a quello spirituale e purificatorio del devoto e del pellegrino che si muove alla ricerca del contatto con il divino, lasciandosi alle spalle la materialità del vivere quotidiano, fino al “viaggio di conoscenza”, come strumento di apprendimento e istruzione. In tutti questi casi, per necessità o per attitudine religiosa e culturale, un elemento costante sembra aver accompagnato il viaggiatore, individuo o comunità: un diretto rapporto di reciproca influenza e positiva contaminazione con l’intorno, generatore di un atteggiamento rispettoso, per quanto non neutro, nei confronti dell’ambiente attraversato e vissuto; forse solo perché in questo modo esso poteva offrire cibo, riparo e conoscenza.
In alcuni casi, soprattutto nelle tradizioni popolari e indigene, non solo in età pre-moderna, il tema del viaggio e la sua simulazione, a volte anche ripetitiva, rafforza la sacralità dei luoghi destinati ai riti religiosi molto spesso ambientati in contesti quasi selvaggi o dalle parvenze il più possibile naturali, determinando così il definirsi di alcuni dei paesaggi o luoghi sacri che oggi si conoscono.
In quanto carattere ampliamente diffuso e accomunante molte culture anche lontane nel tempo e nello spazio, il “vagabondare” umano su questa Terra, con o senza meta, materiale o spirituale, nella dimensione spaziale ma anche temporale, ha contribuito a definire il sistema delle esperienze umane e del loro incrociarsi con le altre forme di vita; una “rete” non materiale, perché costituente una maglia di relazioni sfuggenti, per quanto documentate attraverso l’iconografia e i diari, ma anche tangibile e ben visibile, nel disegno reticolare delle strade, principali e secondarie, che costituiscono il supporto materiale di ogni viaggio, mutevole anch’esso a seconda del contesto culturale e dei significati che il muoversi assume.
La strada, elemento che non ha sempre avuto il solo scopo di unire due punti posti a una certa distanza tra loro, ma anche di disegnare territori e paesaggi3, è anche tra i segni più incisivi e durevoli che le grandi civiltà del passato hanno lasciato in eredità alle nostre generazioni: le consolari dell’impero Romano, che ancora oggi definiscono la struttura viaria dell’intera penisola italiana, disegnano un reticolo di vie in grado di mettere in comunicazione la sola Roma con il Mondo intero, allora conosciuto. L’impero Carolingio non fu da meno lasciando ai posteri il sistema di strade che diventerà l’ossatura portante degli itinerari religiosi francigeni, che al contrario di come si può pensare, pur esistendo un unico percorso ufficialmente riconosciuto come Via Francigena, ricostruito dal diario di Sigerico tra la Gran Bretagna e Roma, costituiscono un intreccio di vie di connessione di tutto il territorio europeo.
In America Latina l’impero Inca non ha lasciato il proprio segno solo nei manufatti architettonici, ma anche nella viabilità, come dimostra la strada di connessione di tutto l’antico impero dalla Colombia all’Argentina, attraverso Ecuador, Perù, Bolivia e Chile: la Gran Ruta, ampia strada di collegamento dei vari possedimenti dell’impero, pensata per un popolo in continuo movimento4. Sono solo alcune delle grandiose e durevoli espressioni dell’elevata capacità di controllo politico, amministrativo e culturale dei territori di un antico impero, suo strumento di pubblicizzazione, crescita economica e del consenso, ma anche simbolo delle capacità di comunicare, conoscere, muoversi, viaggiare, rimaste, nel susseguirsi dei secoli, testimonianze storiche e supporto di tante attività.
Queste antiche strade possono anche disfarsi, portando gli inevitabili segni del tempo, con il tramontare degli imperi che le hanno costruite e consacrate, ma non perdono la loro forza simbolica di maglia di connessione tra luoghi e popoli, continuamente ripresa nel corso dei secoli ed esistente ancora oggi, supportata dalle documentazioni iconografiche, cartografiche e archeologiche ancora esistenti.
In Italia alcune di queste strade hanno determinato l’antica fioritura di borghi altrimenti non così conosciuti, come San Gimignano, sorta all’incrocio dei percorsi più transitati della Toscana medievale, e Lucca, per citarne alcuni.
In taluni casi una strada percorsa per un motivo particolare, quale la presenza di un luogo di interesse religioso, grazie al via vai di pellegrini e curiosi e allo stanziarsi di alcuni individui organizzatisi successivamente in una comunità, determina la nascita improvvisa di un centro abitato stabile, che si sviluppa lungo la strada di attraversamento principale che ha fatto da generatrice urbana, i cui proventi per il sostentamento vengono prevalentemente dalla presenza di viaggiatori; è il caso di Loreto, nelle Marche6, il cui pellegrinaggio ha definito la morfologia della stessa città.
L’andamento del reticolo stradale, scandito da tempi di percorrenza associati agli antichi mezzi di trasporto (le gambe, il mulo, la carrozza) ha contribuito in passato al disegno del territorio oggi conosciuto, che raramente, per motivi di praticabilità e sicurezza degli itinerari, riusciva ad ignorare la morfologia naturale del sistema di valli fluviali e rilievi, contribuendo alla nascita, lungo le direttrici, di centri strategici di accoglienza e sosta8. La possibilità di viaggiare attraverso un territorio, per mezzo di una rete di percorsi, la capacità di andare e sostare, cercare e scoprire, hanno contribuito quindi a definire almeno in parte, la conformazione del nostro attuale ambiente di vita. Paradossalmente oggi questa conformazione, di antica memoria, spesso non è più riconoscibile, pur avvalendosi, la civiltà moderna, di una rete di strade, o più propriamente, infrastrutture, molto più fitta ed apparentemente agevole.
Probabilmente ciò è dovuto anche al fatto che la nostra epoca ha mutato, spesso degenerandolo, il senso del “viaggiare”; dalle moderne esplorazioni coloniali di “altri mondi” e loro non rispettosa conquista, fino al bisogno prevalentemente contemporaneo, di istantanea evasione dalle responsabilità sociali per assaporare attimi di relax o puro e semplice divertimento, atteggiamenti non a caso legati ad una rinnovata “visione economica” del mondo e delle sue risorse.
Il mito, già rivelatosi chimera, della crescita economica e del progresso successivi alle rivoluzioni industriali e allo sviluppo tecnologico, e l’annesso bisogno di efficienza, quantità e rapidità, hanno introdotto la necessità di velocizzare ogni istante di vita dell’uomo la cui essenza si avvicina sempre più a quella delle macchine che egli stesso ha costruito.
I ritmi incalzanti, il terrore di “sprecare” tempo “utile” (dove per utile si intende con fini utilitaristici), inquinano la nostra esistenza di malattie croniche facilmente legate allo stress, combattute a stento con i mezzi che la stessa società che le provoca spietatamente ci fornisce; si profila allora il miraggio della “vacanza-viaggio” per ritrovare quella dimensione umana e sostenibile altrimenti irraggiungibile nella schizofrenia quotidiana. I mezzi di cui comunemente disponiamo per effettuare questo “falso viaggio” sono gli stessi a cui cerchiamo di sfuggire, che inconsapevolmente usati o forzatamente imposti, generano ulteriore disagio e malessere: la necessità di rapidità, efficienza, utilità ci accompagna anche durante questa tipologia di “viaggio”, divenuto ormai anch’esso misuratore di benessere (materiale), ricchezza (economica), capacità di acquisto, in un’epoca in cui l’unico imperativo sembra essere “consumare”.
D’altra parte la globalizzazione dei costumi e la massificazione del sistema di comunicazione e informazione sembrano averci dato la possibilità di istruirsi e conoscere restando comodamente all’interno delle mura domestiche, svuotando in tal modo di significato l’andare per luoghi a questi fini; e lo sviluppo tecnologico di una società globale, creatrice di nuovi bisogni secondari e accessori9, imposti dal mondo economico a quello dei “consumatori”, ha contribuito a far perdere di vista il senso della reperibilità delle risorse primarie, ormai quasi totalmente inscatolate e distribuite “a domicilio”.
Mentre la rapidità della macchina si è impossessata anche delle “strade” quotidianamente percorse, così sostituite da auto-strade, superstrade, linee ad alta velocità, le quali, non prevedendo lungo il tragitto alcuna percezione umana dell’intorno, o comunque limitandola al massimo, non hanno bisogno di permettere al “viaggiatore” di entrare in contatto con esso, lasciando al limite intravedere dai finestrini dell’auto i colori intensi e le luci intermittenti delle linee del guard-rail e dei cartelloni pubblicitari, accuratamente posizionati, mentre tutto il resto sfugge, effimero e surreale. Perché in effetti il tragitto perde di significato quando il “viaggiare” diventa solo arrivare più in fretta possibile alla meta, meglio ancora se completa di ogni optional. Ma questo non può, in effetti, chiamarsi “viaggiare”.
Sarebbe più facilmente paragonabile a quel senso di “spaesamento” con cui Farina identifica la perdita di conoscenza e capacità di riconoscimento del paesaggio, nelle sue riflessioni sul concetto di “paesaggio cognitivo”.
Senza voler in alcun modo condannare lo sviluppo tecnologico contemporaneo, occorre riflettere tuttavia sul fatto che le “protesi” tecnologiche di cui l’uomo moderno si avvale, molto spesso in modo non del tutto consapevole, quindi spesso subite passivamente, pur avendo smussato molte difficoltà che prima erano all’ordine del giorno, grazie alla loro capacità di semplificare, hanno contribuito ad appiattire anche la complessità della percezione del nostro intorno, quindi anche quella del paesaggio. E con essa la sua conoscenza.
Per percezione non si intende la sola capacità di rielaborare oggetti, forme e colori su cui si posa il nostro sguardo, non rimanda cioè solo alla sfera visiva; la parola racchiude un concetto ben più profondo, in parte estrapolabile anche dal testo della Convenzione Europea del Paesaggio, e ha a che vedere con la “cultura” che un individuo, un gruppo, una comunità, hanno del proprio ambiente di vita, ciò che “consente di individuare (in esso) le risorse e i fenomeni ad esse collegate”12 e di riconoscerne i valori materiali e immateriali caratterizzanti il “sistema patrimoniale” che si configura nel paesaggio che siamo in grado di riconoscere. Cosa abbia a che vedere questo con il tema del viaggio è facilmente intuibile.
L’uomo moderno ha perso o comunque sta perdendo, la capacità di interagire con il proprio ambiente, quindi con la Natura e la sua fisicità, attraverso la propria Cultura e spiritualità. Di conseguenza si trova nell’impossibilità di conoscere (e riconoscere) il paesaggio, di cui l’uomo comune difficilmente riesce a dare una definizione, se non in termini spesso contradditori o utilitaristici.
Il viaggio, nel suo senso originario, connesso agli aspetti che legavano l’uomo e le comunità al proprio “habitat”, non sembra più possibile, tanti sono i filtri artificiali e cognitivi che si frappongono tra il moderno “viaggiatore”, più propriamente nominabile “turista”, e lo scenario o ambiente del proprio viaggio, quel contesto in cui natura e cultura si incontrano definendo la morfologia del paesaggio, che ci permette di entrare in simbiosi con l’elemento naturale (e comprenderne la valenza anche spirituale), accettandone il valore intrinseco, solo annullando la distanza che ci separa da esso.
Ciò era ed è ben noto al pellegrino, che accetta di mettersi in viaggio lasciando ogni surplus di “beni artificiali” per accingersi ad affrontare la sfida della piena conoscenza di sé, della Natura e del raggiungimento della dimensione divina.
La simbiosi con l’intorno, la cui separazione dalla propria interiorità si fa sempre più sottile, avviene per i pellegrini di ogni fede religiosa, e certamente è più forte se all’atto del peregrinare si associa un paesaggio naturale, anche selvaggio, ma pur sempre riconoscibile e non minaccioso, quindi appartenente alla sfera percettiva del viaggiatore, che può anche essere collettiva e condivisa, ovvero appartenente al suo background culturale.
Un moderno viaggiatore può ritrovare questa dimensione di conoscenza e simbiosi, quindi di rispetto e consapevolezza, che non lascia spazio a timore e malessere, rallentando i tempi di percorrenza tra il punto di origine e la meta, e recuperando la dimensione del peregrinare attraverso i paesaggi. Ricostruendo il diretto rapporto, prevalentemente perduto, almeno per l’uomo moderno occidentale, con la Natura e le risorse che essa mette a disposizione degli esseri viventi, uomo compreso.
Come nella scelta del proprio ambiente di vita, anche il contesto del viaggio è più facile che risulti meno ostile dove i luoghi appartengono all’immaginario del viandante, e in qualche modo definiscono la propria identità; il viaggio può avvenire però anche per paesaggi meno noti, accettando di esserne positivamente contaminati, con quel certo grado di umiltà di cui ciò necessita. Come infatti ricorda Farina, non è sempre possibile esperire un contesto, se di questo non si ha “cultura”: un deserto sarà insidioso e minaccioso per un cittadino europeo, che avrà bisogno di tutti i supporti tecnologici per sopravviverci, mentre per un indigeno costituisce l’unica casa e l’unico sostentamento, per questo un paesaggio percepito e riconosciuto13; ciò fa pensare al fatto che il valore di un paesaggio è determinato dalla percezione (cioè cultura) che i propri abitanti ne hanno, piuttosto che dall’appetibilità turistica dissipatrice, non utilizzatrice, delle risorse per l’uomo moderno. Ciò non entra in contrasto con il senso del viaggiare e peregrinare come definito sopra, in quanto quest’ultimo può essere di supporto all’acquisizione della consapevolezza del valore delle risorse del proprio territorio e della capacità di utilizzarle senza snaturarle.
“Viaggiare” nel vero senso del termine, quindi, come strumento di Conoscenza, proprio perché la grande difficoltà a comprendere il paesaggio come sistema complesso14, ci costringe ad una visione olistica di sintesi, difficilmente raggiungibile esclusivamente con gli strumenti analitici. Provare a sentirsi “pellegrini” in viaggio alla ricerca di una possibile interazione con il mondo che ci circonda e che ci definisce come parti di un grande e complesso sistema, dai profondi legami tra i suoi elementi.
Ciò è possibile anche nel mondo globale della tecnologia e dell’informazione di massa, in cui, se dal un lato, l’efficienza del moderno sistema infrastrutturale si rivela indispensabile ai rapidi spostamenti di persone e merci, ottimizzando i tempi di percorrenza e minimizzando gli sprechi, dall’altro l’esigenza di ritrovare una dimensione più umana della nostra esistenza, più prossima a quella naturale, rende necessari tempi più lenti e ciclici, misurabili nella dimensione del movimento peregrinatorio e spirituale del camminare. In quest’ottica sono sufficienti le ampie reti degli antichi itinerari da sempre percorsi da nomadi, santi, pellegrini, viandanti, di cui l’Europa è ricchissima.
Nel primo caso (le moderne infrastrutture) la strada, linea di collegamento più rapido tra due punti, diventa una barriera fisica per tutti gli esseri viventi non dotati di supporti tecnologici.
Nel secondo (l’antico “itinerario”) la strada può connessioni, non ecologiche, ma che rispettano, anzi, si fondano, sui principi ecologici, e di fruizione (a scala umana) delle risorse (naturali e culturali). Può, anzi, questa rete, costituire elemento stabile e duraturo di sviluppo (sostenibile) per le comunità locali generalmente tagliate fuori dai macro-modelli contemporanei, creando una rete di relazioni culturali, sociali ed economiche, nel rispetto dei valori naturali del paesaggio.
La rete che in questo modo si riscopre (perché in effetti già esistente), può andare a coincidere con l’insieme di quelli che la Comunità Europea chiama “itinerari culturali” concetto istituito negli anni Ottanta e ribadito, definendone i principi, con la risoluzione CM/Res(2007)12.
Essa può essere di stimolo alla ricerca del senso profondo del “viaggiare” attraverso il paesaggio e “(ri)conoscere” il paesaggio, contribuendo altresì alla definizione di un sistema strutturato di luoghi e paesaggi, naturali e culturali, dove l’Uomo e la Natura possono recuperare l’originaria relazione, senza per questo prescindere dalla sfera economica, ma con una necessaria trasformazione del modello di sviluppo oggi dominante. Non è un caso che tra gli attuali Itinerari Culturali l’Unione Europea riconosca tutto il sistema delle vie di pellegrinaggio Francigene e di Santiago, che permettono la fruizione ai luoghi dello spirito più popolari, e alle quali si prepara ad aggiungersi l’insieme degli itinerari di fruizione al più famoso santuario mariano d’Europa, Loreto, con la via Lauretana.
Fonte: Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio
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