di Max Strata
Qualche sera fa, dopo molte settimane, ho nuovamente acceso la TV e intorno alle 21 ho assistito ad un “talk show informativo” che veniva trasmesso da una rete nazionale. Sono davvero rare le occasioni in cui decido di dedicare del tempo a visioni di questo genere ma, con l'inconscia e assurda speranza che qualcosa fosse mutato, ancora una volta ho provato ad ascoltare i “capitori” (ovvero quelli che ne capiscono, che se ne intendono, come direbbe un mio anziano collega) che si accapigliavano sul tema della crescita economica di questo Paese. L'accento, per l'ennesima volta, era posto sul perchè la crescita sia necessaria, su come sia possibile ottenerla e su come andassero letti i più recenti dati macroeconomici e un modestissimo incremento del PIL.
Nel dibattito sono comparsi giornalisti, politici, sindacalisti, docenti universitari, “maître à penser”, e tutti, dico tutti, non mostravano alcun dubbio sulle loro competenze e su quanto stavano affermando: i punti di vista apparivano dissimili, ciascuno aveva una sua ricetta e i contenuti sembravano ben argomentati ma ogni dichiarazione rientrava nel grande contenitore del progresso inteso come sinonimo di crescita materiale e dunque di ricchezza prodotta e accumulata, di importexport, di acquisti e di vendite, di salari e livelli di tassazione e quindi di trasporti, uso di energia, produzione industriale, secondo uno schema chiaramente consolidato e considerato sostanzialmente immutabile, se non in alcune sue sfaccettature.
Insomma, il tutto avveniva senza la minima considerazione dei pochi essenziali elementi di riferimento che oggi, con lo stato delle conoscenze aquisite, rendono non solo ozioso ma intrinsecamente inutile un simile dibattito. Il “talk show” (perchè di spettacolo si tratta) aveva seduto tra il pubblico un convitato di pietra che tutti hanno finto di non vedere: il suo nome è noto ed è quello di limite alla crescita.
Un limite fisico, quantificabile, che nei suoi molteplici aspetti ha da tempo reso evidente come su un pianeta dalle risorse non infinite sia illogico continuare a confidare nella tenuta di un sistema economico “estrattivista” che processa materie ridudendole in scarti, che consuma molto di più di quanto potrebbe e che spendendo il capitale naturale più velocemente della sua capacità rigenerativa ha compromesso un corretto utilizzo delle risorse naturali e reso altamente instabile l'intero edificio sociale. Non c'è alcun bisogno di essere dei tecnici esperti per comprendere che continuare ad attenersi ai canoni del modello dominante significa percorerre un vicolo cieco, un “cul de sac” che non offre via d'uscita.
Gli studi scientifici che ci dicono che così non si può più dare avanti, sono oramai numerosissimi e facilmente disponibili in rete: non prenderne atto significa rinunciare alla proprie capacità intellettive e decidere allegramente di andare a sbattere contro un muro a tutta velocità. In proposito, è sufficiente ricordare come il picco del petrolio estratto in modo convenzionale sia stato raggiunto nel 2005 e che da quell'anno questo tipo di produzione registra oltre un 5% in meno all'anno, ovvero circa 4 milioni di barili in meno al giorno. Una carenza che, rispetto all'incremento della domanda, non viene e non potrà essere colmata dalle nuove tipologie di estrazione “non convenzionali” (appena un + 0,3% all'anno), peraltro decisamente più costose e impattanti rispetto a quelle tradizionali e per questo definite come “risorse fossili estreme”.
E non deve ingannare la temporanea diminuzione del prezzo determinata dalle aggressive strategie dei produttori più forti sul mercato che controllano la produzione sulla base di strategie politiche piuttosto che sul profitto immediato, nell'insieme, si prevede che la produzione dei giacimenti attuali subirà un declino di due terzi già entro il 2035 con una perdita di circa 40 milioni di barili al giorno. Un bel problema per un sistema che nell'uso e nella disponibilità del petrolio a basso costo trova il suo fondamento e visto che oltre l'80% dell'energia prodotta nel mondo è ancora di origine fossile; la stessa percentuale presente durante lo shock petrolifero del 1973.
Il picco totale della produzione mondiale di petrolio e gas naturale nel secondo decennio del XXI secolo. Fonte A.S.P.O. International .
I combustibili fossili non finiranno domani ma nella nostra era segnata da “rendimenti decrescenti” sono destinati ad un declino molto rapido e già oggi producono una forte instabilità dei mercati internazionali che, nella sostanza, permangono governati dalla loro disponibilità e dal loro prezzo di vendita e quindi, in ultima analisi, dagli investimenti che vengono effettuati nel settore estrattivo. Se per ipotesi, da domani, venissero tagliati i fondi pubblici che in particolare vengono utilizzati per incentivare in varie forme l'uso del petrolio (sussidi, sconti sulle tassazione, ecc.), il prezzo finale sarebbe sensibilmente più alto evidenziando un aspetto non secondario dell'assoluta fragilità di questo sistema.
Ciò detto è facile intuire come la nostra società “termo – industriale” con l'organizzazione economica che esprime e da cui al tempo stesso è generata, non ha davanti a sè alcuna prospettiva positiva. “La trappola energetica” come sofferenza energetica-economica, ovvero il circolo vizioso che si innesca quando l'economia non considera i limiti energetici intesi come costi richiesti per la produzione. (Fonte: Post Carbon Institute)
Teniamo presente che oltre la situazione ora descritta, ci troviamo di fronte ad una più generale crisi da scarsità delle risorse che riguarda anche l'estrazione di numerosi minerali comunemente utilizzati nei processi industriali, il pescato, la produzione agricola mondiale e la disponibilità di acqua dolce.
Chi parla di crescita in un scenario di questo tipo, inoltre non sà o non vuole tenere conto degli effetti che il modello produttivo dominante ha sugli ecosistemi in termini di perdita di biodiversità e di compromissione dei servizi naturali quali fornitura di acqua, aria, fertilità dei terreni, riciclo dei nutrienti, barriera agli agenti patogeni, ecc., e respinge, nei fatti, le evidenze del repentino riscaldamento globale con il relativo aumento delle condizioni meteorologiche estreme, ovvero la drammaticità degli impatti e gli elevatissimi costi determinati dall'intensificarsi di siccità, alluvioni, ondate di calore, diminuzione delle rese agricole, approvigionamento idrico, erosione delle coste, ecc..
Oggi, continuare a parlare di crescita ignorando l'approssimarsi di una vera e propria eclissi di quella “stabilità climatica locale” che la nostra specie ha conosciuto da alcuni millenni a questa parte e che non poco ha contribuito allo sviluppo delle attività agricole e ad una maggior pianeta, gli indicatori della crescita di alcune economie nazionali potranno anche registrare un lieve incremento.
Un valore positivo che tuttavia suona come un canto del cigno, come un ultimo ed esausto battito d'ali, prima di un funerale in cui verrà seppellito anche il più inadeguato tra gli indicatori della presunta ricchezza di un Paese, quel Prodotto Interno Lordo, che richiamando la definizione di François Roddier, non misura il benessere ma “il tasso di produzione di entropia di una società” e al quale i nostri decisori politici hanno follemente agganciato l'illusoria speranza di una “ripresa”. La crescita economica fondata sull'uso dell'energia a buon mercato prodotta da fonti fossili e sulla predazione delle risorse primarie semplicemente non c'è più: quello a cui assistiamo oggi ne è il simulacro.
Coloro che evitano di prenderne atto e hanno compiti di governo, di amministrazione pubblica, di educazione e di informazione, non solo compiono un grave errore ma portano su di sé una responsabilità enorme: quella di non preparare la collettività ad un futuro assai incerto, probabilmente ancora più complesso e problematico del presente e che tuttavia potrebbe risultare decisamente meno traumatico se solo si iniziasse -da subito- a costruire un sistema diverso, meno rigido e più resiliente, ovvero capace di ridurre le negatività prodotte dalla globalizzazione neoliberista e di attivare in primo luogo e su scala locale, processi virtuosi nella produzione e nella commercializzazione del cibo, nella produzione di energia da fonti rinnovabili di proprietà collettiva, nell'efficienza e nel risparnio energetico, nella incentivazione del riuso e nella realizzazione di distretti dedicati al recupero dei materiali, nella formazione di un nuovo tipo di imprenditorialità cooperativa. Azioni che sono in grado di sviluppare un nuovo tipo di economia decentrata e che porterebbo non pochi benefici sul piano dell'occupazione.
Non si tratta quindi di passare ad una “green economy” che ambisce ad insediarsi nel sistema attuale senza modificarne i presupposti. Non è il caso di aspirare ad una “crescita verde” che in qualche modo “sostituisca” quella tradizionale, solo per continuare a garantire determinati livelli di consumo e di gestione delle risorse mantenendo intatte le diseguaglianze economiche e sociali. Inoltre, su un pianeta abitato da sette miliardi di persone, con la tecnologia attualmente disponibile è difficile immaginare di riuscire a produrre solo da fonti rinnovabili tutta l'energia che serve ad un sistema perennemente in crescita.
Questione di densità energetica, ovvero di fisica e di chimica, questione di numeri. Altra cosa è utilizzare le opportunità fornite dalle rinnovabili per lo sviluppo di una “democrazia energetica” locale in un contesto non subordinato al dogma mercantilistico ma che permetta alle comunità di sottrarsi alle forniture esterne e al controllo dei prezzi che viene esercitato dai soggetti economici che gestiscono le fonti, il trasporto e la distribuzione dell'energia.
Più in generale, come ci ricorda Richard Heinberg nel suo “
The end of the growth”, è necessario tenere conto della combinazione di tutti quei fattori che rendono impossibile e certamente non auspicabile la crescita economica e che, oltre al tema energetico-ambientale-climatico, riguardano la vasta montagna dei debiti accumulati e l'insufficiente apporto delle innovazioni tecnologiche nel mitigare i danni che derivano dall'adozione del modello “business as usual”. Il punto è dunque come attutire il colpo, come frenare la discesa, come affrontare lo shock causato dall'insieme delle criticità che abbiamo davanti agli occhi, insomma, come imparare a convivere con le nuove normalità. Qui il dibattito è aperto, anche se, a parere di chi scrive, sono molti i punti di contatto tra le varie possibilità e scuole di pensiero.
Per chi volesse approfondire il tema, tra i testi disponibili, consiglio la lettura di “
La grande transizione” di Mauro Bonaiuti (Edizioni Bollati Boringhieri) e di “
Prosperità senza crescita” di Tim Jackson (Edizioni Ambiente) che partendo da punti di osservazione e da metodologie diverse, analizzano con cura i molteplici aspetti di una situazione esplosiva che di fatto rappresenta la questione centrale del nostro tempo. In conclusione, urge un'immediata opera di decostruzione di una pericolosa fantasia.
Il mito della crescita materiale infinita (che per molti versi si è dimostrato antitetico allo sviluppo umano) tende a persistere perchè ha una connotazione più emotiva che razionale. In fondo, nonostante tutti i problemi di questo mondo e le preoccupanti prospettive che ci attendono se non facciamo nulla per modificare l'esistente, vorremmo che molte cose rimanessero al loro posto e che le comodità, o meglio il “surplus” cui ci siamo abituati in questa parte del pianeta, fossero garantire all'infinito. Ciò spiega, in buona parte, perchè le sirene dei “capitori” che ci spiegano quanto sia necessaria la crescita economica a tutti i costi, trovi molti tra noi ancora disposti ad ascoltarli.
Ma, oltre il sogno, c'è la realtà di tutti i giorni e quanto ci aspetta nell'immediato futuro. Per evitare il naufragio è necessario abbandonare definitivamente il richiamo delle sirene, guardare con umiltà che cosa abbiamo combinato e avviarci sulla strada che più ragionevolmente possiamo percorrere.
Ora più che mai è indispensabile accettare il fatto che dovremo fare con meno e che sarà necessario adattarci a situazioni diverse, talvolta imprevedibili, che rigettare la concentrazione dei poteri sarà decisamente utile e che ri-conneterci con la nostra comunità per progettare e sviluppare una maggiore resilienza locale è davvero un percorso praticabile e indispensabile. All'orizzonte compare dunque la possibilità di avviarci verso un sistema economico stazionario, che impone di adeguarci ai limiti determinati dalla necessaria conservazione degli ecostistemi e dalla rinnovabilità delle risorse naturali e all'interno del quale gli attuali flussi di materia e di energia dovranno certamente diminuire imponendo standard di vita meno dissipativi; un sistema variabile ma alla costante ricerca di equilibrio all'interno del quale i parametri economici fluttuano intorno a valori stabili e non in crescita.
Un sistema in cui la condivisione, l'equità sociale e il rafforzamento dei diritti per il soddisfacimento dei bisogni essenziali (e non dei desideri indotti), non rappresentano istanze da rappresentare ma elementi fondanti del vivere in comune. Un sistema che su inizativa di piccoli gruppi prende ora forma nelle sperimentazioni in corso in innumerovoli contesti, in aree rurali, piccole città e quartieri urbani, e che sempra più spesso coinvolge anche le amministrazioni locali su un percorso di costruzione o se si vuole di ricostruzione della propria sostenibilità locale, un percorso che non significa e non può significare “isolazionismo comunitario” ma che mostra come in un diverso quadro di corrispondenze territoriali, ci si può organizzare per affrontare il futuro in modo più realistico.
Insomma, la transizione che ci aspetta è inevitabile, ma un conto è subirla scivolando sul versante più acclive della montagna con il rischio concreto di una moltiplicazione dei conflitti e di una sofferenza generalizzata, altra cosa è preparare il passaggio ad una nuova condizione cogliendo le potenzialità che derivano da questa occasione e puntando, come direbbe Serge Latouche, ad una maggiore frugalità e ad una solidarietà diffusa, dove i valori relazionali contano e si oppongono alla “mercificazione” dell'esistenza.
Max Strata
Lucca, 13-04-2018
*Max Strata è consulente ambientale ed esperto di ecologia applicata, nel maggio 2015 per
Dissensi edizioni è uscito il suo saggio “
Oltre il limite: noi e la crisi ecologica.”