LA POESIA CHE VINCE L'EGOISMO DELL'UOMO
intervista a Sandro Boato
E' un poeta vero, Sandro Boato. La sua parola scava dentro la realtà, anche quella che non si vorrebbe vedere o qualcuno cerca di celare. I poeti, come gli artisti, non raccontano solo se stessi, ma anche il proprio tempo frammentandolo, giudicandolo, offrendo una lettura disincantata e sincera. Ecco perché la poesia è innanzitutto consapevolezza del fare, progettazione interna che attiva ogni giuntura, anche minima, dell’invenzione. Nella silloge di versi intitolata «Metamorfosi», Sandro Boato testimonia ancora una volta il suo impegno irrevocabile con la parola, quella che non lascia scampo, quella che porta dentro la vita di tutti. È il poeta stesso a spiegare il perché di questo libro.
Monologhi non intimisti e filastrocche per adulti, più in generale poesia civile, lei definisce i componimenti presenti nel suo ultimo libro. Esiste ancora il valore civile nella poesia contemporanea? «La poesia è un’arte a più dimensioni nel corso della storia: dall’haiku naturalistico giapponese alla narrazione fantastica indiana, dall’epica omerica greca alla poesia elegiaca inglese, dal verso drammatico esistenziale russo alla lirica amorosa persiana. Quella civile – se non scade nella retorica – ha radici profonde anche in Italia, a partire dalla Eneide di Virgilio e dalla Commedia di Dante, su su in varie tappe fino all’Ottocento di Foscolo e Leopardi, Porta e Belli, Manzoni e Carducci e infine al Novecento di Tessa e Noventa, Sereni e Pasolini, Caproni e Zanzotto. Gran parte della versificazione dal tardo Novecento ad oggi è invece come inaridita (fenomeno riguardante anche altri paesi latini e latino-americani), tra avanguardie sempre più separate dalla realtà e corporazioni locali vernacolari o accademiche in lingua. È l’implosione della creatività nella autosufficienza, nell’intimismo sentimentale e nella autoreferenzialità dei mille pseudoconcorsi e premi». Attraverso la natura parla del proprio impegno verso il mondo e pone l’accento su quello che lei chiama l’egoismo suicida e l’ignoranza dell’uomo. Il suo intento è quello di catturare il lettore con un’immagine di serenità per poi condurlo all’interno di un’altra realtà e di una nuova consapevolezza? «Servirsi della consapevolezza della crisi climatica e ambientale per vincere l’ignoranza e l’egoismo degli umani, è un latente desiderio del mio lavoro in versi, che però non dovrebbe soverchiare il distacco dall’immediato, la necessità del silenzio, il tocco dell’emozione, la contemplazione e la sorpresa».
Le poesie aprono su immagini da sogno, per avvolgerle poi di inquietudine. Sembra che non ci sia più posto per l’illusione, quando si legge: «Acqua, questa sarebbe acqua» o riferito all’aquila «lassù era il suo regno: dove salvarsi?
«La risposta sta nelle tue parole: l’inquietudine è indispensabile, non l’illusione; per non abbandonarsi alla disperazione, che rafforzerebbe i modelli di comportamento asociale e immorale e il disorientamento di una Italia nemica di se stessa e devota al caudillo eversore ed ai suoi yes men».
C’è ancora un rifugio per il poeta, per l’uomo?
«Non c’è rifugio se non sappiamo salvare nemmeno i parchi naturali e i centri antichi – natura e cultura – se non garantiamo i diritti umani agli immigrati ai carcerati ai disoccupati, se non rispettiamo la democrazia nella divisione dei poteri, se il maschilismo trionfa e si ridicolizza la conoscenza e l’educazione». Per lei la poesia è memoria, metrica, metafora, ma anche mistero, musica. Cosa significa mettere in poesia la memoria e il mistero? «La mia definizione delle cinque emme – memoria, metrica, metafora, mistero, musica – riguarda non il contenuto, ma il verso stesso come soggetto che può esprimersi, oltreché col ricordo più o meno lontano, con la scansione ritmica, l’immagine metaforica, una propria musicalità e un che di misterioso dal significato plurimo e/o da un’ambivalenza connessa all'ispirazione.
«Dare significato alle parole, togliere il superfluo», definizione che Ezra Pound dà della poesia, è una dichiarazione di poetica che lei condivide? «È la mia persuasione e metodologia. Non trascuro l’importanza della ispirazione, che talvolta manca, ma ricordo la sua definizione secondo Baudelaire: “L’ispirazione è lavorare tutti i giorni”. È l’antiretorica».
Il libro presenta anche una metamorfosi linguistica, dall’originale veneziano, alla tradizione italiana, alla versione inglese. Scrivere in dialetto e tradurre in italiano quali difficoltà comporta? «La traduzione è stata il mio maggior impegno negli anni recenti: dai testi di un centinaio di poeti del Novecento, della Europa occidentale e dell’America (Nord e Sud), a partire dalla “Ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde (Milano, 1996). L’obiettivo è rendere poesia con poesia, misura con misura, rima con rima per quanto possibile. Ezra Pound sostiene che la traduzione non può essere letterale e piatta, deve ricreare il testo, fare come lo stesso autore lo scriverebbe nella lingua del traduttore. Tema difficile e controverso: certo è che se si vuole una versione attraente e convincente il traduttore deve essere lui stesso poeta. Se l’italiano non è una lingua straniera e se non viene contrapposto ritualmente al dialetto, la traduzione diventa occasione per migliorare l’uno e l’altra. Tanto più per me che tratto il veneziano come lingua con retroterra letterario, al di là dell’uso che va – come altrove – riducendosi».
Sandro Boato, «Metamorfosi de aqua e tera de aria e fogo», videoimpaginazione e stampa Maria Gabriella Pangrazzi.
|