La musica è probabilmente
il più antico rito religioso.
I primi sacerdoti erano probabilmente musicisti,
le prime preghiere probabilmente canti.
Come membro del trio pop di fama mondiale The Police,
Sting si è affermato come uno dei più raffinati musicisti del mondo. Infatti la sua carriera di solista è stata ugualmente piena di successo. Sting fu insignito di una laurea honoris causa in musica da parte della famosa Berklee School of Music e tenne un discorso ai laureati per condividere con loro le sue radici musicali.
"Eccomi qua in piedi con uno strano cappello e una strana toga fluente, sul punto di fare qualcosa che non faccio molto spesso, cioè parlare in pubblico. Mi sto domandando com’è successo che io sia arrivato fin qui. Devo dire di essere un po’ nervoso. Ciò potrebbe apparirvi strano, per uno il cui stile di vita è quello di suonare negli stadi, ma io spesso sto nel mezzo di uno stadio pieno di gente e mi domando la stessa cosa: “Come diavolo ho fatto a finire qui?”.
La risposta è semplice: sono un musicista, e per qualche ragione non ho mai avuto altre ambizioni se non quella di essere un musicista. E dunque, per spiegarmi meglio, comincerò dall’inizio. Il mio primissimo ricordo coincide con una reminiscenza di tipo musicale. Mi vedo seduto ai piedi di mia madre mentre lei suona il pianoforte. Si trattava di un pianoforte verticale con i pedali di ottone consumati, e quando mia madre suonava uno dei suoi tanghi sembrava essere trasportata in un altro mondo: i piedi che dondolavano ritmicamente fra i pedali di alto e basso, le braccia che andavano su e giù seguendo le cadenze irregolari del tango, gli occhi concentrati sopra lo spartito di fronte a lei.
Per mia madre, suonare il piano rappresentava l’unico momento nel quale io non ero al centro del mondo, l’unico momento nel quale mi ignorava. Così appresi qualcosa di significativo, cioè che in quelle occasioni veniva messo in atto un importante rituale. Suppongo che si trattasse della mia iniziazione a una sorta di mistero:
il mistero della musica.
Cominciai quindi ad aspirare al pianoforte e a passare ore martellando su di esso sequenze atonali nell’illusione che, se avessi insistito abbastanza a lungo, il mio rumore sarebbe divenuto musica. Tuttora lavoro sotto l’effetto di questa illusione. Mia madre, disgraziatamente, mi ha dato l’orecchio fino di un musicista, ma le mani di un idraulico. Comunque, fummo costretti a vendere il pianoforte allo scopo di risolvere un buco finanziario, e la mia carriera di compositore di musica dodecafonica fu pietosamente troncata sul nascere.
Soltanto quando uno dei miei zii emigrò in Canada, lasciandosi dietro una vecchia
chitarra spagnola con cinque corde arrugginite, le mie dita goffe ed enormi trovarono un rifugio musicale, e io scoprii quella che sarebbe diventata
la mia migliore amica. Laddove il pianoforte mi era sembrato inconprensibile, con la chitarra fui capace di fare musica quasi istantaneamente, e melodie, accordi, strutture della canzone cominciarono a formarsi subito sulle punte delle mie dita. Per qualche motivo, potevo ascoltare un brano alla radio e poi provare a suonarlo in maniera passabile. Era un miracolo. Trascorsi ore, giorni, mesi solo a suonare, esultando nel miracolo, e probabilmente facendo ammattire i miei genitori. Ma in primo luogo era stata colpa loro.
La musica è una mania, una religione e una malattia: non esiste cura, non c’è antidoto. E io ero diventato fanatico.
C’era solo una stazione radio in quel tempo in Inghilterra, la BBC, e si potevano ascoltare i Beatles e i Rolling Stones insieme a pezzi di Mozart, Beethoven, Glenn Miller, e anche musica blues. Questa fu la mia eclettica educazione musicale, integrata dalla collezione di dischi, appartenente ai miei genitori, di Rodgers e Hammerstein, Lerner e Loewe, Elvis Presley, Little Richard e Jerry Lee Lewis; ma fu solo quando entrarono in scena i Beatles che compresi di potermi, forse, guadagnare da vivere con la musica. I Beatles venivano dalla mia stessa classe sociale, quella degli operai; erano inglesi, e Liverpool non sembrava più stravagante o più romantica della mia città natale.
Così, da compagna della mia solitudine, la chitarra si trasformò in un mezzo d’evasione. Non ho ricevuto una formazione musicale convenzionale, perciò suppongo di avere avuto successo grazie a una combinazione di cieca fortuna, scarsa abilità e tendenza a rischiare sull’onda della curiosità. Anche adesso agisco allo stesso modo, sebbene la curiosità per la musica non sia mai interamente soddisfatta. Si possono riempire biblioteche con tutto quello che non conosco riguardo alla musica: c’è sempre qualcosa in più da imparare.
Oggigiorno i musicisti non rappresentano, agli occhi della società, modelli di comportamento particolarmente rassicuranti, anzi possiamo dire di non godere di una buona reputazione. Donnaioli, alcolisti, tossicomani, persone prive di mezzi di sostentamento, evasori fiscali. E non sto parlando solo dei musicisti rock. Anche i musicisti classici hanno la stessa cattiva reputazione. E i musicisti jazz, meglio dimenticarli! Ma quando osservate un musicista suonare – quando lui o lei entrano in quel mondo musicale privato – spesso vedete un bambino intento a giocare, innocente e curioso, pieno di meraviglia per ciò che può essere adeguatamente descritto solo come un mistero, perfino
un sacro mistero.
Qualcosa di profondo, qualcosa di strano, allo stesso tempo gioioso e triste. Qualcosa d’impossibile da spiegare con le parole. Voglio dire, cosa potrebbe tenerci a suonare scale e arpeggi ora dopo ora, giorno dopo giorno, anno dopo anno? È forse qualche vaga promessa di gloria, denaro, o fama? O è qualcosa di più profondo? I nostri strumenti musicali ci collegano a questo mistero, e un musicista manterrà un simile senso di meraviglia fino al momento della morte. Ebbi il privilegio di passare del tempo con il grande arrangiatore Gil Evans nell’ultimo anno della sua vita, e costui era sempre in ascolto, sempre aperto a nuove idee, sempre disponibile alla meraviglia della musica. Sempre un bambino pieno di curiosità.
Così eccoci qua, oggi, nelle nostre toghe con i nostri diplomi, i nostri titoli di studio: alcuni solamente onorari, altri diligentemente guadagnati. Abbiamo imparato a fondo le leggi dell’armonia e le norme del contrappunto, le tecniche dell’arrangiamento e dell’orchestrazione, dello sviluppo di temi e motivi ritmici.
Ma qualcuno di noi sa realmente che cos’è la musica? È semplicemente fisica? Matematica? L’argomento di una romanza? Commercio? Perché è così importante per noi? Qual è la sua essenza? Non pretendo certo di saperlo. Ho scritto centinaia di canzoni, le ho pubblicate e sono entrate in classifica, ho ricevuto alcuni Grammy e possiedo abbastanza prove scritte da dimostrare che sono, in buona fede, un affermato compositore.
Tuttavia, se qualcuno mi domanda come faccio a scrivere canzoni, devo dire che davvero non lo so. Non so proprio da dove vengano.
Una melodia è sempre un dono proveniente da qualche altro posto. Devi solo imparare a essere grato, e pregare affinché quel dono ti arrivi di nuovo qualche altra volta. Succede lo stesso con i testi delle canzoni: non puoi scrivere una canzone senza metafore. Puoi meccanicamente comporre versi, cori, intermezzi, mezze ottave, ma senza una metafora centrale non ottieni niente. Spesso mi chiedo: da dove vengono le melodie? Da dove vengono le metafore? Se si potesse comprarle in un negozio, sarei il primo in coda, credetemi. Passo molto del mio tempo cercando questi misteriosi beni, cercando ispirazione.
Paradossalmente comincio a credere
nell’importanza del silenzio nella musica. Il potere del silenzio dopo un frase musicale, per esempio: il drammatico silenzio dopo le prime quattro note della Quinta Sinfonia di Beethoven, o lo spazio fra le note di un assolo di Miles Davis. C’è qualcosa di molto specifico in relazione alla pausa nella musica. Togliete il piede dal pedale e prestate attenzione. Mi chiedo se, come musicisti, la cosa più importante che facciamo non sia semplicemente di creare un’impalcatura per il silenzio, e
se il silenzio stesso non sia quel mistero che sta nel cuore della musica. È forse il silenzio la più perfetta forma musicale? Scrivere canzoni è la sola forma di meditazione che conosco. Ed è soltanto nel silenzio che ci vengono offerti i doni della melodia e della metafora.
Noi persone del mondo moderno raramente sperimentiamo
il silenzio puro, è quasi come se cospirassimo per evitarlo. Tre minuti di silenzio ci appaiono come un tempo molto lungo, poiché siamo costretti a fare attenzione a quelle idee e a quelle emozioni per le quali non troviamo quasi mai momenti idonei. Per qualcuno tutto ciò è spaventoso.
Il silenzio disturba. Disturba perché rappresenta
la lunghezza d’onda dell’anima. Se non lasciamo alcuno spazio nella nostra musica – e anch’io sono colpevole come chiunque altro a questo riguardo – priviamo il suono che creiamo di un contesto determinante. Spesso è la musica nata dall’ansietà a creare una maggiore ansietà, quasi come se avessimo paura di lasciare dello spazio. La grande musica si trova tanto nello spazio fra le note quanto nelle note stesse: una battuta di pausa è significativa quanto la battuta di biscroma che la precede. Quello che sto cercando di dire è che se qualcuno mi chiede se sono religioso, io rispondo sempre: “Sì, sono un devoto musicista”.
La musica mi mette in contatto con qualcosa oltre l’intelletto, qualcosa di ultraterreno, qualcosa di sacro. Come può succedere che
certi tipi di musica ci spingano alle lacrime? Perché talvolta la musica è indescrivibilmente bella? Non mi stanco mai di ascoltare l’Adagio per archi di Samuel Barber, o la Pavana di Fauré, o un pezzo come Dock of the Bay di Otis Redding. Queste opere mi parlano nell’unico linguaggio religioso che posso capire, mi fanno scivolare in uno stato di profonda meditazione, o di meraviglia. Ed esse mi rendono silenzioso.
È molto difficile spiegare la musica con le parole, poiché queste ultime risultano superflue rispetto al potere astratto della musica. Possiamo modellare le parole fino a farle diventare poesia in modo che esse vengano comprese come viene compresa la musica, ma in tal caso le parole aspirerebbero solo a raggiungere quella condizione dove la musica già si trova.
La musica è probabilmente il più antico rito religioso. I nostri antenati usavano la melodia e il ritmo allo scopo di attingere al mondo spirituale per realizzare i loro propositi, per cercare di dare un senso all’universo. I primi sacerdoti erano probabilmente musicisti, le prime preghiere probabilmente canti. Così ciò che sto tentando di dire è che, come musicisti, sia che raggiungiamo un grande successo esibendoci di fronte a migliaia di persone ogni sera, sia che ci dobbiamo accontentare di suonare in bar e in piccoli club, o anche nel caso che il successo non ci arrida per nulla e ci tocchi far musica per il gatto in solitudine a casa, ci stiamo pur sempre impegnando in
qualcosa che può guarire l’anima, e che ci aiuterà quando siamo giù di morale.
Sia che uno guadagni un milione di dollari o neanche un centesimo, la musica e il silenzio sono doni senza prezzo. Vi auguro di possederli sempre. E che loro posseggano voi. "
Sting (Novembre - Dicembre 1998)
estratto dal libro
Terra Anima società vol 1
vedere le cose in connessione
FioriGialli Edizioni
settembre 2006