RELIGIONE E UTOPIA
Parlare di Dio è stato quasi sempre problematico per chi si è collocato in una prospettiva rivoluzionaria. Ma la contrapposizione politica alle religioni ha indotto al rifiuto del trascendente, producendo così una spiritualità e una sensibilità di gran lunga inferiori a quella religiosa. Come se, osservando l'abbazia di San Galgano, priva del tetto di copertura, si venisse colpiti solo dal cielo attraversato da nubi o dalla geometria degli astri. Non si tratta comunque di sciogliere l'eterno dubbio su Dio (che, forse, appartiene al segreto della morte), quanto di provare che l'etica religiosa non è né la 'teoria' in assoluto né la più alta affermazione della vita.
È noto che un ruolo non marginale nell'invenzione della religione è stato giocato dal bisogno di elaborare, secondo un modello piramidale con all'apice il concetto della divinità, una teoria che spiegasse il processo del divenire dell'universo, della natura e degli esseri umani. Su tale discendenza verticale si sono poi fissati i princìpi metafisici e la relativa architettura politico-sociale che ne è conseguita. L'etica umana è stata perciò costruita sull'imposizione di un 'dover essere' religioso, piuttosto che a partire dalle norme di una ragionata convivenza. In quella prima fase, d'altronde, per imporre e far accettare regole sociali più avanzate, era forse necessario accreditare l'esistenza di un mondo sovrannaturale che superasse la parzialità e la finitezza dell'uomo. In tal modo la specie umana ha potuto prendere le distanze dalla sua radice primitiva, saldamente ancorata alla istintualità, per approdare a un primo sistema di rapporti sociali mediati. Ma se le religioni hanno potuto convivere con l'evoluzione delle società è perché, tutto sommato, le società hanno ruotato attorno ai loro capisaldi e non viceversa. Utilizzando un linguaggio sentenzioso e senza mai staccarsi dal grande tema della salvezza eterna, hanno parlato e parlano 'più compiutamente' di politica di quanto non sappia fare, ancora oggi, qualsivoglia ideologia. In questo senso le religioni fanno più politica con la loro filosofia morale che non i partiti con le loro alleanze e strategie. Questo spiega anche perché le religioni, diversamente da quanto avviene per gli Stati e le forme di governo, sopravvivono agli scandali e alla corruzione, a inesattezze anche grossolane, a guerre e scismi. Spesso, anzi, le loro pecche sono state addebitate a errate applicazioni dei princìpi, così che l'invocazione del 'ritorno alle origini' ha scavalcato a piè pari l'analisi delle loro contraddizioni strutturali. Ma nessuna deviazione, neanche la più grave, ha mai modificato i fondamenti della loro filosofia morale, che sono rimasti sostanzialmente in linea con il messaggio essenziale dei fondatori. Se da un lato tuttavia è possibile smascherarne i raggiri, dal momento che basta trovarvi 'una sola' imperfezione per escludere l'origine divina delle religioni, dall'altro, la dimostrazione delle loro antinomie, da sola, serve a ben poco. Il bisogno di rassicurazione continuerà infatti a ossigenarsi con il respiro metafisico della preghiera, poiché quella pratica è così consolidata da apparire impermeabile a qualsiasi critica. In tal senso (questo) Dio non è ancora morto, e non è detto che, quando si sarà scoperta la strada della felicità terrena, l'idea dell'Assoluto debba necessariamente morire.
Se il Dr. Cristo ha individuato nella povertà lo strumento della liberazione degli uomini, è anche perché non è riuscito a concepire la ricchezza come valore positivo. Nelle società pre-industriali, d'altronde, le masse vivevano una vita così indigente che neppure un'equa distribuzione della ricchezza esistente avrebbe potuto migliorarla in misura significativa. Di conseguenza per millenni la miseria è stata assunta come condizione naturale. Ed essendo inimmaginabile (utopica) la produzione di una gran quantità di beni e ancor più la loro diffusione di massa, anche le ideologie erano prigioniere della povertà. Ecco perché la tensione verso la società del 'meno peggio' (la proposta cristiana) era il massimo cui si potesse aspirare. E difatti il Dr. Cristo non solo ha supposto (dogmaticamente) che la povertà non potesse essere eliminata, ma è giunto addirittura a indicarla come valore. In verità (è proprio il caso di dire "in verità") Gesù, anche se in buona fede, ha solo illuso i poveri di poter arrivare sul piolo dei primi. Imponendo loro di restar poveri, e quindi ultimi, non ha fatto altro che ribadire, consapevolmente o no, che la scala di classe è l'unico metro possibile della storia umana.
Ai cristiani infatti non si è mai vietato di possedere schiavi, mentre agli schiavi si è comandato di amare il proprio padrone. In realtà soltanto nel Settecento, con la nascita del pensiero liberale, è stata messa in discussione la schiavitù, e non certo grazie al cristianesimo, che (in questo) ha seguito le orme del pensiero di Platone e di Aristotele. E tale 'svista' non è stata casuale. Ma è fin troppo ovvio che la felicità non può realizzarsi in presenza della povertà o della differenza di classe, bensì in un quadro di 'sana ricchezza'. Di una ricchezza, cioè, che è sana perché ricca, contemporaneamente, di beni materiali e spirituali. La 'ricchezza della povertà' rispecchia, al contrario, uno stato di desolazione esteriore che non può non divenire interiore, fino a coincidere con l'infelicità. L'aspirazione a una 'sana ricchezza', che rappresenta la premessa a ogni progetto utopico, manca però totalmente al cristianesimo, ridottosi a gestire l'organizzazione pauperistica dei bisognosi.
Oggi, invece, può nascere il desiderio del 'molto meglio' (l'idea centrale dell'Utopia), poiché finalmente si può immaginare una società più sviluppata del capitalismo. Che comunque ha il merito storico di aver fornito la dimostrazione 'tecnica' di come, attraverso la rivoluzione industriale, si possa moltiplicare in modo laico "il pane e il vino" e sconfiggere così il dogma della povertà. "Beati voi, che siete poveri", recita il Vangelo. E così di seguito: "Beati voi, che ora avete fame, [...] Guai a voi, che ora siete sazi, [...] Guai a voi, che ora ridete, [...]". Ma non ci sarebbe più beatitudine se ognuno vivesse in condizioni materialmente agiate e ricco di spiritualità amorosa? Ora, uno dei limiti strategici del Dr. Cristo è che il razzo della sua liberazione non riesce mai veramente a decollare, incatenato com'è alla terra dal 'dovere della povertà' e da un amore di tipo sacrificale. Che, non potendo essere desiderato, è divenuto un atto di dolore (l'amore della santissima addolorata), accreditato falsamente come il più alto degli amori. È evidente, a questo punto, che fatica e travaglio siano connaturati alla promessa cristiana. L'amore di Cristo perciò non può non essere mediocre, perché mediocre è la forma di vita che Egli ha immaginato.
Strano a dirsi, ma ciò che manca alla proposta di Gesù, di Colui che ha postulato l'amore come verbo onnipresente, è appunto la forza onnipotente del desiderio: la sola capace di far bruciare d'amore gli esseri umani. Anzi, per sopperire all'assenza di una 'sana ricchezza' e di un 'sano amore', è stato frapposto, tra la felicità irrealizzabile nel regno umano e quella custodita esclusivamente nel regno dei cieli, un baratro invalicabile. Nonostante ciò, sarebbe falso sostenere che nel cristianesimo non sia presente la domanda di utopia. L'idea del paradiso ne è la dimostrazione. Ma quella domanda è stata pignorata dal comandamento religioso, che ha mutato il bisogno di amore umano in bisogno di amore divino. Di tracce utopiane rimangono perciò, nel messaggio cristiano, solo dei frammenti indecifrabili, poiché la religione ha trasferito la domanda del paradiso utopico fuori dal mondo reale, eludendo il progetto originario dell'Eden nello spazio e nel tempo della vita. In questo modo l'amore c'è, ma non si vede, non si tocca, né tantomeno può scendere in mezzo a noi.
Il pregare, in questo senso, rappresenta la più straordinaria invenzione (psicologica) relativa ai modi di comunicazione tra uomo e Dio, poiché permette non solo di instaurare un dialogo con la divinità, ma anche di entrare in 'possesso' del suo amore. La preghiera è infatti simile a una telefonata che non esige risposta. Anzi, presupponendo che Dio stia in ascolto, ogni argomento può divenire oggetto del proprio interrogarsi. Se la leva del pregare è nel dio immaginato, la sua potenza è, quindi, soltanto nel credente, cioè nel monologo interiore. L'essere espressa in forma rituale è infatti parte integrante e sostanziale del suo contenuto psicologico. E oltretutto il dialogo 'in absentia' possiede un potere evocativo e suggestivo senza pari. Se da una parte tuttavia non si intende escludere la possibilità di una preghiera laica come forma di concentrazione dello spirito, dall'altra è fin troppo evidente che la preghiera religiosa risponde a ben altre esigenze. Rappresenta quasi sempre l'ultima spiaggia davanti alla morte o alla necessità di alleviare la sofferenza. La forza della sua suggestione non solo placa, ma fornisce anche un sostegno immaginario, al tempo stesso evanescente e forte, labile e autorevole, e perciò più 'solido' di quelli concreti e razionali. La preghiera contiene, dunque, tutta la forza del bisogno e tutta la debolezza della risposta differita al bisogno. Salda tuttavia la distanza e la contraddizione tra realtà supposta e realtà vissuta, cioè tra amore e non-amore, e si propone come il principale strumento terapeutico di liberazione dal male, entità indefinita (extra-logica) che sovrasta, come presenza 'naturale', ogni paesaggio umano.
"Ego te absolvo a peccatis tuis..." Questo tracciato (che ben esemplifica la logica del cristianesimo) è tutto legato alla visione del bene come 'sottrazione del negativo'. Anziché infiammare l'anima di desiderio, si comanda infatti di 'non fare' ciò che 'non va fatto'. Per cui liberarsi dal male, come dal peccato, si risolve in un'operazione che toglie e non aggiunge nulla. E proprio perché suppone un futuro immodificabile, tale operazione prevede, con matematica certezza, che dopo il perdono si debba tornare a peccare, così da rendere l'uomo da una parte obbligato e dall'altra libero di sbagliare sempre. Il 'peccato' non è perciò utilizzato come elemento di analisi sociale per indicare un diverso sistema di rapporti che spezzi la coazione a ripetere. E la riflessione che innesca si risolve, in definitiva, tutta nell'interiorità del soggetto. Ragion per cui l'intero meccanismo è raffigurabile come la corsa prevedibile di un treno che ritorna sempre nelle stesse stazioni. Analizzare la natura del peccato equivarrebbe, d'altronde, a esaminare le condizioni che lo determinano. E ciò porterebbe inevitabilmente alla messa in discussione di tutta l'architettura sociale.
Il 'dio immaginato', infatti, non contempla la possibilità di altri percorsi, ma soprattutto non ha interesse a che gli uomini si emancipino. E intanto, avendo avocato a sé tutto l'amore, quel dio autorizza la flagranza di reato. L'incurabilità del peccato diventa perciò, prima ancora che trasgressione delle regole, l'unica vera regola eterna, dato che al di fuori dei comandamenti passivi del 'non fare' non sono stati mai indicati quelli attivi del 'fare positivo'. Una teoria che pretenda di essere veramente 'divina' dovrà, allora, più che indicare la mediazione delle contraddizioni, realizzarne la definitiva soppressione. Dopodiché i comandamenti-divieti non avranno più ragione di essere, venendo a cadere le condizioni del loro determinarsi. Non più quindi i comandamenti del 'non fare', bensì le regole della felicità. Questa è la vera profezia mai rivelata! Ora, creare una nuova socialità è molto difficile, molto più difficile che inventare una religione, molto più difficile che inventare Dio. Verrebbe voglia di dire che il concetto dell'utopia comunista e il concetto di Dio si equivalgono, nel senso che nessuno li ha finora mai conosciuti. Un dio, però, è stato inventato e sarà sempre possibile inventarlo, poiché nessuno potrà mai dimostrarne la non-esistenza. Creare l'Utopia significa, invece, sottoporne la validità a una permanente verifica. Anche per questo la progettazione dell'Utopia sarà molto più complicata dell'invenzione di Dio. Ma quando si sarà realizzata, si entrerà in un concetto più ampio dell'attuale idea del divino.
Se qualcuno tuttavia pensa di chiudere la ricerca sull'Infinito, costui chiuda pure la sua attività di pensiero.
Alfa Alfredo Alì
Non insegna niente. Non ha mai pubblicato niente. Non è un politico di professione. Non è un intellettuale. Non dedica il libro a nessuno... in particolare.
Tratto dal libro Preludio alla Società dell'Utopia - Pubblicato dalla Casa Editrice Editing & Printing - ISBN 88-900133-0-3 - Printed in Italy, gennaio 1997 - www.utopia.it
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