DIVENTARE BAMBU’
di Paolo Lagazzi
“Senza il nulla, non c’è naturalezza, non c’è vero essere. Il vero essere scaturisce dal nulla, attimo per attimo. Il nulla è sempre presente, e da esso appare ogni cosa. Di solito però, completamente dimentichi del nulla, vi comportate come se possedeste qualcosa.”
così, con un tono di voce tanto dolce e tranquillo da esorcizzare qualsiasi possibile resistenza o alibi, in noi occidentali, al suono della parola nulla, uno dei più autentici maestri giapponesi contemporanei, shunryu Suzuki, tenta di spiegarci cos’è lo Zen.
nato anzitutto per opera dei grandi patriarchi Eisai e Dogen, vissuti in Giappone all’inizio dell’epoca Kamakura (tra il 1100 e il 1200), lo Zen porta alle conseguenze più radicali la critica d’ogni forma di attaccamento dell’ego alle proprie categorie giaà sviluppata nell’ambito della più originale tra le correnti buddiste cinesi (la scuola Ch’an). la Grande Mente del Buddha è, secondo lo Zen, quella capace di trascendere le continue trappole, le continue illusioni intrinseche a ogni visione “realistica” del mondo. Non c’è realtà, infatti, che non contenga in sé il germe del proprio dissolvimento, della propria metamorfosi: il vuoto o (appunto) il nulla. Solo nel nulla, o “attraverso” il nulla, l’essere si dà e si sottrae: si incarna e si sposta: si realizza e si fa subito altro. La sola realtà è dunque mu: l’impermanenza, il movimento: il risolversi inarrestabile e infinito del vuoto nella forma, della forma nel vuoto. Non c’è una sostanza cui aggrapparsi: non ci sono mete o beni o valori (nemmeno spirituali) cui abbia senso tendere, per una mente sgombra dall’illusione della solidità, della durata delle cose.
. Solo maturare questa consapevolezza (tutt’altro che nichilista, se per essa è vero che nemmeno il nulla è un assoluto) può, secondo i maestri Zen, schiuderci davvero il gusto della vita. Libera, d’un tratto, dalle sue rigidezze e isterie (dal suo bisogno di distinguere, di analizzare, di scegliere tra le proprie illusioni equivalenti; o dalla sua ansia di afferrare certi oggetti, di distruggerne altri) la mente illuminata dallo Zen può finalmente abbandonarsi al mondo così com’è, senza nessuno schermo deformante: può scoprirlo (il mondo) con gioia, o persino con ebbrezza, come una serie inarrestabile di apparizioni, di fioriture improvvise, di doni e di colori gratuiti. Ma questa riscoperta non può essere solo abbandono: esige un’estrema, sempre rinnovata attenzione. Una volta riconosciuto mu (l’impermanenza) come la chiave paradossale di un universo senza scopo (mushotoku), nessuna delle categorie abituali della mente, infatti, può reggere: le cose, che da un certo punto di vista risultano irreali, sono, nondimeno, reali; il vuoto è il pieno, il bene è il male, la vita è la morte: ogni fenomeno si muta senza tregua nel suo opposto; e se è vero che tutto rinvia a tutto (tutto non è che il Grande Corpo del Buddha Cosmico), è altrettanto vero che ogni cosa (persino il più piccolo granello di sabbia) ha una sua esistenza autonoma e irripetibile, che va colta con un’attenzione duttile e rigorosa, nutrita di compassione.
Riconoscere tutto ciò potrebbe indurre un senso di vertigine o di spaesamento in una coscienza comune. Ma nessun ostacolo, nessuna complicazione, nessun muro mentale, nessun dualismo sembra resistere al tocco folgorante e semplice dell’insegnamento Zen. Scrive Dogen in una delle sue opere-chiave, lo Shobogenzo Zuimonki: “I monaci sono come le nuvole e non hanno fissa dimora. Come l’acqua che scorre essi non si attaccano a nulla”. E sembra rispondergli, in versi, Daito (tra il ‘200 e il ‘300): “Finalmente ho infranto la barriera di Unmon! /Dovunque un’uscita: est, ovest, nord, sud. (…) Ogni mio passo solleva una brezza leggera”. Questa leggerezza non si ritrae di fronte all’esigenza di assumere, per ragioni pedagogiche, le forme della severità. A tratti, è persino un cipiglio feroce che il volto del maestro sa assumere, al fine di sgombrare con forza le nubi egoiche annidate nella mente dei discepoli. E’ raro, tuttavia, che la severità sia disgiunta, in questa tradizione, dai riflessi dello humour: dalla piega sorniona di una saggezza sottilmente, finemente caustica – in primo luogo nei confronti di se stessa.
Nulla davvero, è intentato dai maestri per sottrarre lo spirito dei non risvegliati ai loro automatismi, alla loro cecità. Oltre la forma classica della meditazione seduta (zazen) e l’uso di una sorta di enigma insolubile (il koan), tale da spingere la mente a riconoscere la debolezza della logica e del linguaggio, e dunque la necessità di superare la logica e il linguaggio per “capire”, molto vari, in apparenza assurdi e certo assai fantasiosi sono i mezzi ricordati neglli annali Zen come atti a suscitare nei discepoli (e prima di loro nei maestri stessi, discepoli di altri maestri) il satori : l’esperienza del risveglio. Condensando in pochi tratti tutta una serie di famose parabole, scrive un altro fra i più grandi Roshi> Zen contemporanei, Taisen Deshimaru. “un dito, una bandiera, un ago, un martello, uno scacciamosche, un pugno, un bastone, un grido”: nessun oggetto, nessun aspetto dell’esserci è inutile ai fini di una comprensione profonda, non dualista, del mondo. Nel provocare il risveglio attraverso tutte queste (e altre) occasioni con un inesauribile genio inventivo, i maestri Zen ci appaiono spesso sottilissimi artisti del vivere: impareggiabili attori comici: insuperabili conoscitori dello spirito catartico del nonsense. Questa vocazione “umoristica” non comporta affatto, d’altronde, che lo Zen sia esente da esperienze più che serie, dure e spinose, o da momenti tristi, dolorosi, angosciosi. Proprio perché il risveglio va guadagnato – e guadagnarlo è arduo – un prezzo di dolore deve comunque pagarsi, da parte di chiunque intraprenda questa che è (sulla linea autentica del Buddha) la via per eccellenza della liberazione dal dolore.
Allo sguardo consapevole della “porosità“, dell’inconsistenza, del perpetuo fluttuare e cangiare die volti dell’essere – ma forse non ancora abbastanza forte per accettare questa verità – una sfumatura sui generis di melanconia non può, in certi momenti, non clonare il mondo. Ma in questa melanconia la bellezza si acuisce, si fa struggente, si esalta: le cose riescono tanto più preziose per chi se ne riconosca la natura effimera. Della tensione di fondo alla bellezza di tutta la tradizione Zen fanno fede, tra l’altro, le numerose arti coltivate, con risultati supremi, da molti maestri Zen, o praticate da laici vicino allo Zen: anzitutto le “vie” – tra loro intimamente correlate – della calligrafia, della pittura a inchiostro e della poesia; ma anche le arti del giardinaggio e dell’architettura, la cerimonia del tè e le attività, con essa per più versi intersecatisi, della ceramica e della disposizione dei fiori; l’arte teatrale No; persino il tiro con l’arco, il maneggio della spada e altre forme di combattimento considerate arti a tutti gli effetti.
Un filo invisibile ma tenace lega tra loro tutte queste svariatissime modalità di ricerca espressiva e d’impegno esistenziale: la convinzione dell’irriducibile inadeguatezza del linguaggio rispetto al compito di testimoniare la verità. Come osserva uno dei testi classici del buddismo cinese, il Mumon-kan (“La porta senza porta” di Mumon), “Le parole non possono descrivere tutto; il messaggio del cuore non può essere enunciato in parole; se prendi le parole alla lettera, sarai perduto”. Ma non è solo il linguaggio verbale a offrirsi come bersaglio agli strali pungenti dei maestri: osserva un altro patriarca cinese, Huong Po, che solo “con il percepire che tutti i segno non sono affatto segni” è possibile entrare in risonanza col messaggio del Buddha. Cosa comporta ciò, in concreto? Ancora una volta, una logica (ma sarebbe meglio dire: una non-logica) del paradosso. Solo giovando i vari linguaggi con l’eleganza icastica, lucente e tagliente di uno spadaccino che abbia in sé la forza di una mente vuota – che sappia cioè combattere, anzitutto, contro se stesso, contro il proprio ego – è possibile sperare d’infrangere, ogni volta, quella tela opaca che separa i segni dal reale “così com’è”: questa è la convinzione profonda che guida le creazioni, in particolare, dei pittori e dei poeti Zen. Nessuna intenzione mimetica o descrittiva muove i passi dei maestri Zen della pittura a inchiostro (suibokuga o sumie ) e dello haiku (la strofa di diciassette sillabe). Ciò che per essi conta non è riprodurre le apparenze statiche o i dettagli, ma rendere “presente” il mondo nella sua essenza, nella forza luminosa e impalpabile del suo offrirsi, nelle curve erratiche del suo movimento. Per ottenere ciò, si dice che un pittore debba “diventare il bambù prima di dipingerlo. Non tentare di dire il mondo, ma lasciarsi dire dal mondo: lasciare che l’energia cosmica (il Tao, il ki) circoli attraverso i propri segni, piegandoli, come un vento sottile, in tutte le direzioni: questa è la meta, e la forza vera, degli artisti Zen.
Osservate da questa angolazione, la pittura e la poesia ispirate allo Zen non ci appaiono molto lontane dalla misteriosa e liberatoria suggestione dei koan . Proprio come in quelli indovinelli senza soluzione, i disegni a inchiostro e gli haiku ci parlano attraverso il sentimento dlel’impossibile o del vuoto (di ciò che sfugge a ogni nome, categoria, misura), arrestando i nostri pensieri consueti e schiudendo il nostro sentire a una serie di pure “epifanie”. Per questo, non avrebbe alcun senso tentare di spiegare (ovvero di piegare a un commento esterno, a un’interpretazione, a una traduzione simbolica) versi del più grande poeta Zen, Basho, quali, ad esempio, “-sonnecchiando a cavallo / dai fuochi delle foglie del tè il fumo / sale verso la luna”. Nell’apparente povertà e quiete di queste figure, ciò che risuona è un invito radicale a riconoscere, in silenzio, le vibrazioni indefinibili del mondo: poiché solo nel silenzio (della mente) l’effimero e l’eterno possono incontrarsi e scoprirsi identici.
a cura di Paolo Lagazzi
tratto dall’introduzione al libro “La saggezza dei Maestri Zen” edizione Guanda
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