di Paolo Quircio
Prima di parlare dei Mantra, sarà utile, almeno per chi non abbia già almeno un’infarinatura di Yoga e Vedanta, fornire al lettore alcune informazioni utili a capire meglio cos’è un Mantra, come è strutturato, quali sono i tipi di Mantra, perché è così importante e onnipresente nella pratica dello Yoga e che uso ha nella Meditazione.
I Mantra, sotto varie forme, esistono in molte vie spirituali e religiose, si pensi all’Amen o al Kyrie, ma forse solo nelle filosofie spirituali Indiane e negli altri percorsi che provengono da questa parte del mondo, come il Buddhismo o lo Zen, ha assunto una completezza tale da diventare una vera e propria scienza, oltre che una branca del Raja Yoga, il Mantra Yoga, appunto.
Vorrei brevemente sottolineare il fatto che i nomi ‘India’ e ‘Induismo’ sono, in realtà, estranei all’India, essendo stati creati dai primi viaggiatori provenienti dall’Occidente. Essi erano giunti sulle sponde del fiume Indo, che allora si chiamava Sindhu, e che attualmente scorre per quasi tutto il suo corso in Pakistan, pur nascendo nel versante indiano dell’Himalaya. Quindi, tutto ciò che era aldilà del fiume venne chiamato India e, di conseguenza, le genti che lì vivevano, Indiani, e la loro religione, Induismo.
In effetti, gli ‘Indiani’ chiamano la loro terra Bharatavarsha, la terra dei discendenti di Bharata, grande re leggendario, e la loro religione Sanatana Dharma, l’antica via. Antica perché precede la venuta dell’uomo sulla Terra, è sempre esistita, via, perché non ha dogmi, né profeti, né obblighi, ma solo insegnamenti spirituali atti ad elevare gli individui verso la fonte divina originale, quella da cui noi tutti proveniamo e, soprattutto, a condurli fino a Moksha, la liberazione dal ciclo di nascite e morti. Nell’ambito del Sanatana Dharma, esistono sei scuole riconosciute, o meglio, sei Darshana, visioni, punti di vista, perché, anche se realtà, Sat, è e non può essere che una e immutabile, i modi per accostarsi ad essa sono molti, e le Darshana rappresentano i sei principali sistemi epistemologici e gnoseologici.
Le sei Darshana e i Rishi, i saggi veggenti, che le hanno codificate nelle forme che oggi conosciamo, sono: Samkhya, del saggio Kapila; Yoga, messo in forma compiuta da Sri Patanjali nel suo testo ‘Raja Yoga Sutra’; Vaisheshika, esposta dal Rishi Kanada; Nyaya, basata sui Nyaya Sutra di Akshapada Gautama; Purvamimamsa, basata sui Mimamsa Sutra di Jainini, e Uttaramimamsa, meglio noto come Advaita Vedanta, che si fonda sul Brahma Sutra Karika, il commentario dei Brahma Sutra ad opera di Badarayana, e in seguito perfezionata e diffusa dal grande Rishi Adi Shankaracharya. Le due Darshana di cui ci occupiamo sono lo Yoga di Patanjali e l’Advaita Vedanta di Shankara.
Il Vedanta
Questo sistema si basa su un monismo assoluto (Advaita vuol dire non dualistico) che viene sinteticamente espresso nella Mahavakya (grande affermazione):
BRAHMA SATYAM, JAGAN MITHYA, ovvero: Brahma è reale, l’universo, la natura sensibile, è irreale. Non irreale in quanto non esistente, ma in quanto transitorio: nasce, cresce, decade e muore, o più precisamente, si trasforma in qualcos’altro. “Sharira parigraha dukham eva”, “Il possesso del corpo è sicuro dolore”. In altre parole, la causa di ogni dolore e affanno è l’incarnazione dell’Atman, la porzione individuale del Brahman, l’anima cosmica, mai nata ed eterna, in un corpo. Cercare di spezzare questa catena carica di dolore e sofferenza, il Samsara, è lo scopo del Vedanta e dello Yoga.
Vediamo quindi che il Vedanta si basa su un’apparente dicotomia: Brahman - Anima Cosmica da una parte, e Prakriti o Maya o Jagad, natura o illusione o universo, dall’altra. Una falsa dicotomia, però, perché solo Brahman è reale, gli altri sono sue produzioni momentanee (anche se il ‘momento’ dura miliardi dei nostri anni). Quindi, tutta la Sadhana, la pratica spirituale, ha come obiettivo l’elevazione spirituale del Jiva, dell’Atman incarnato. All’elevazione spirituale corrisponde l’elevazione del livello vibratorio del Jiva. Qui bisogna fare una nuova, importante, digressione.
Materia-Energia-Livelli vibratori
Nel mondo occidentale si è sempre considerata la materia come qualcosa di inerte che, solo quando è investita del respiro divino diventa viva. La materia inerte si può suddividere in un’immensa quantità di particelle che la compongono, gli atomi. Questi mattoncini di base sono, come dice la parola stessa, indivisibili. Negli anni 30 del ‘900 la visione della fisica occidentale comincia a cambiare. Grazie anche alla possibilità di utilizzare strumenti di analisi sempre più complessi e raffinati, ci si accorge che l’atomo è tutt’altro che immobile e tutt’altro che indivisibile. Al suo interno si riproduce una struttura simile a quella del sistema solare, con un nucleo, intorno al quale orbitano a velocità vorticosa una miriade di particelle subatomiche, elettroni, neutroni, neutrini ecc. Tutte particelle di massa infinitesimale, ma cariche di energia. Da questo si può facilmente dedurre che il concetto di materia inerte e inamovibile è ampiamente superato, perché sbagliato.
La materia, in un certo senso, non esiste. Esiste solo l’energia che, a seconda del suo livello vibratorio, cambia di stato. Se scaldiamo un pezzo di ghiaccio, ossia gli comunichiamo dell’energia, in questo caso termica, diventa acqua; se scaldiamo ancora, diventa vapore. Quando l’energia contenuta nel vapore comincia a dissiparsi nell’ambiente, esso si condensa e torna ad essere acqua; se togliamo ulteriore energia, avremo di nuovo il ghiaccio. È sempre H2O, ma la forma cambia radicalmente in base alla quantità di energia che possiede e al livello vibratorio dell’energia stessa.
Se l’idea che l’intero Universo sia in realtà composto di sola energia è, per noi Occidentali, qualcosa di relativamente recente, lo stesso non si può dire per le scuole filosofiche indiane. Gli antichi Rishi sapevano benissimo, non solo che l’intero Universo è una massa viva e vibrante di energia, ma sapevano anche che il livello vibratorio di quest’energia ne determina, oltre alla forma (ghiaccio-acqua-vapore), anche la consapevolezza. Un’energia di basso livello darà vita a cose statiche, con nessuna consapevolezza di sé, come i minerali; un’energia di livello un po’ più alto produrrà esseri più complessi e dotati di una consapevolezza di base, come le piante. Salendo di livello in livello, alla sottigliezza dell’essere corrisponde una sempre maggiore consapevolezza di sé. Si passa dalla pianta al batterio, dal batterio all’insetto e così via fino all’uomo, e dall’uomo comune all’uomo spiritualmente evoluto, l’uomo il cui livello vibratorio è talmente elevato, da conferirgli la consapevolezza del suo essere divino. Tutta la Sadhana è rivolta all’innalzamento del livello vibratorio del praticante, affinché, con esso, si innalzi il suo livello di consapevolezza.
Per spiegare meglio tutto ciò, dobbiamo parlare, brevemente, della concezione cosmogonica indiana; cosmogonia che negli ultimi cento anni è stata in qualche modo accettata anche dalla fisica moderna. La teoria del ‘big bang’, la grande esplosione, coincide, anche se esposta in termini più crudi e meno fioriti, al concetto di nascita dell’universo che troviamo negli antichissimi Shastra indiani. Secondo la fisica moderna, l’energia accumulata e concentrata in uno spazio minimo, un buco nero, a un certo punto si libera, dando il via ad un’immensa esplosione. Questa massa enorme di energia, man mano che si allontana dalla fonte originaria, inizia a rallentare, abbassando il proprio livello vibratorio, e diventando sempre più grossolana, trasformandosi prima in gas, poi in liquidi e infine in materia solida. Quando la forza centrifuga iniziale si sarà esaurita completamente, l’Universo smetterà di espandersi e la forza centripeta del buco nero avrà di nuovo il sopravvento, richiamando a sé tutto quello che ne era uscito.
La Creazione
Il racconto indiano della Creazione è analogo, anche se un po’ più variopinto. All’inizio, non dei tempi, ma di ogni ciclo cosmico, Mahavishnu, l’Essere Supremo, dorme disteso su un immenso serpente che galleggia nell’oceano cosmico, lo spazio infinito. Il serpente è arrotolato in tre spire e mezzo, come la Kundalini nel Muladhara Chakra prima del suo risveglio. Dall’ombelico di Mahavishnu spunta un fiore di loto, all’interno del quale siede Brahma, il dio che presiede alla Creazione dell’universo. Per motivi legati al Karma, l’equilibrio tra i Guna viene alterato, e da questo disequilibrio nasce la vibrazione primigenia, Shabdabrahman, il suono senza suono, la vibrazione talmente sottile da non essere percepibile. Man mano, la vibrazione, allontanandosi dalla fonte primigenia, tende a rallentare. La massa di energia continua ad espandersi e, ogni volta che raggiunge un punto in cui non può espandersi più, si differenzia. La Creazione procede quindi per espansioni e differenziazioni, fino ad assumere tutte le forme della Natura che conosciamo. È importante ricordare che tutte queste forme che conosciamo sono in realtà diversi aspetti di un’unica energia divina, di Brahman, che si manifesta in innumerevoli modi.
Karma
Abbiamo appena usato due termini, Karma e Guna, che sono legati tra loro e che vanno spiegati, seppur concisamente. Il Karma è quella legge inderogabile che fa sì che ad ogni azione ne corrisponda un’altra, uguale e contraria. Quello che chiamiamo destino, con tutto il suo carico di ineluttabilità, non è un tiro mancino, non è un arbitrio della sorte o un capriccio dell’Onnipotente. È semplicemente la conseguenza di ciò che noi abbiamo fatto, in questa e, soprattutto, nelle vite precedenti. Nasciamo in una data situazione, corpo, intelligenza, famiglia, salute, agiatezza ecc., non casualmente, ma per poter riprendere il cammino spirituale, l’avvicinamento alla fonte divina, dallo stesso punto in cui lo avevamo lasciato nella vita precedente.
Nella Bhagavad Gita, quando Arjuna chiede all’amico e Maestro Krishna cosa accade a coloro che, pur avendo percorso la via dello Yoga, sono morti prima di aver raggiunto Moksha, la liberazione, Krishna così risponde: “L’uomo che hai descritto non sarà perduto né in questo mondo né nell’altro, perché chi persegue il bene non può mai percorrere i sentieri della rovina. Dopo aver raggiunto i mondi dove vivono i giusti, ed esserci rimasto per una successione ininterrotta di anni, colui che ha fallito in questo yoga rinasce quaggiù, nella casa di persone prospere e virtuose.” B.G. VI, 40-42. E poi aggiunge: “Nel nuovo corpo egli ritroverà comunque il raccoglimento che aveva conseguito nella vita precedente, e potrà impegnarsi ulteriormente verso la perfezione.
Anche senza cercarlo, egli sarà spontaneamente e irresistibilmente attratto dai principi della meditazione. Tenterà così di riafferrare la conoscenza, e solo facendo questo egli sarà già più avanti di chi ha eseguito tutti i riti purificatori raccomandati nelle scritture.” Ogni vita dipende dalle precedenti, nel bene e nel male, e pone i presupposti per le successive. Tutto quello che ci accade dipende esclusivamente da noi, anche se non ne siamo sempre coscienti.
I Guna
Abbiamo parlato anche dei tre Guna: Sattva, Rajas e Tamas, purezza, azione e inerzia. I Guna pervadono l’intero Universo, tanto che Jagad, l’Universo, in realtà corrisponde ad essi. Jagad non potrebbe esistere senza Guna, di cui è manifestazione, né i Guna senza Jagad, di cui sono causa. È importante notare che in ogni cosa i tre Guna sono sempre presenti contemporaneamente. Nulla e nessuno, finché appartiene a Prakriti, la Natura, può essere completamente privo di uno dei tre. Quello che cambia è la proporzione tra loro. Un cibo sano, fresco, ottenuto senza violenza, è prevalentemente Sattvic. Un cibo un po’ meno puro, ma molto energetico, è Rajasic. Un cibo morto, stantio, derivato dalla violenza, che altera la mente, è Tamasic.
Lo stesso criterio si applica a tutte le cose che appartengono alla Natura, inclusi gli esseri umani. A livello vibratorio, Sattva è ovviamente molto più sottile sia di Rajas che di Tamas. Per questo è importante, nella Sadhana, capire bene il significato dei Guna e come si manifestano. Poiché gli strumenti di cui disponiamo per il nostro progresso spirituale sono corpo, mente, respiro, Prana e, in qualche modo, i Guna, è su questi strumenti che dobbiamo fare affidamento nel nostro percorso karmico verso la fonte divina. Quindi, se siamo indolenti, dobbiamo imparare a superare l’indolenza dovuta ad una prevalenza di Tamas, con l’attività di Rajas. Questa indispensabile attività va però disciplinata e resa sottile da Sattva. Dobbiamo quindi sempre tendere verso quest’ultimo Guna, sapendo però che anch’esso andrà poi superato, in quanto comunque parte di Prakriti, la Natura sensibile.
C’è, a tal proposito, una storia molto istruttiva. Un mercante viaggia per il suo lavoro, quando, attraversando un bosco, viene aggredito da tre ladri. Dopo averlo derubato, cercano di decidere cosa fare del mercante. Uno propone di ucciderlo subito e scappare; un altro dice di legarlo ad un albero e andarsene. Quindi, lo legano ad un albero e lo abbandonano. Il terzo ladro, impietosito, torna indietro, lo slega e lo conduce sulla strada, salvandolo. I tre ladri sono ovviamente i tre Guna, Tamas ti uccide, Rajas ti lega e Sattva ti libera. Ma Sattva è pur sempre un ladro, e qualsiasi attaccamento, anche il più puro, costituisce un impedimento alla liberazione. Nella Bhagavad Gita, Sri Krishna ci spiega il concetto con chiarezza: “La Fede degli esseri incarnati, che è radicata nella loro disposizione naturale (derivante dalle impressioni delle nascite passate), è di tre tipi: quelle della natura di Sattva, di Rajas e di Tamas. Ti prego di ascoltare. La Fede di ognuno è in relazione alla sua disposizione naturale (derivata dalle impressioni passate). L’uomo è costituito dalla sua Fede. Ciò che la sua Fede è, quello egli è.” B.G. XVII, 2-3.
Per arrivare ad una fede Sattvic, bisogna rendere Sattvic tutto il nostro essere, corpo, respiro, Prana, mente. Questo è il compito dello Yoga. Portare gradualmente il praticante ad essere Sattvic in ogni parte della sua vita. È una sfida immensa, ma va affrontata.
I quattro percorsi dello Yoga
Lo Yoga è una disciplina spirituale estremamente complessa, così com’è complesso l’essere umano. Non c’è un aspetto dell’uomo che non prenda in considerazione, dal corpo al respiro, dalla mente al superamento della mente. Per questo abbiamo più sentieri dello Yoga, anche se i principali sono quattro: Karma Yoga, lo Yoga che trasforma l’azione da causa di legami, a strumento di liberazione; il Bhakti Yoga, lo Yoga della devozione, che trasforma l’amore umano, solitamente egoistico, in amore disinteressato e universale, Prem; Jnana Yoga, lo Yoga della conoscenza, che, tramite lo studio degli Shastra e l’autoanalisi, permette alla mente superiore di calmare quella inferiore e di elevarsi a livelli divini; infine, il Raja Yoga, la via reale o lo Yoga dei poteri psichici. Del Raja Yoga fanno parte tutte le pratiche più note, dall’Hatha Yoga al Mantra Yoga o allo Yoga Kundalini, pratica molto avanzata, riservata a chi ha già fatto un percorso di purificazione e di consapevolezza di buon livello.
La Meditazione
Ci soffermiamo leggermente sul Raja Yoga, detto anche Ashtanga Yoga, lo Yoga delle otto parti, in quanto diviso, appunto, in otto parti, ognuna propedeutica all’altra. Le otto parti sono: i cinque Yama e i cinque Niyama, dieci norme etico-comportamentali per la purificazione e la preparazione alla pratica vera e propria; Asana, le posture yogiche; Pranayama, il controllo del Prana, ottenuto attraverso il controllo del respiro; Pratyahara, il ritiro all’interno dei sensi; Dharana, la concentrazione, tendente a portare la mente a fermarsi su un unico punto; Dhyana, la meditazione vera e propria, e infine Samadhi, l’unione dell’Atman, l’anima individuale, con Brahma, l’anima cosmica.
Su quanto sia prezioso ed insostituibile il percorso dello Yoga, e della meditazione in particolare,
Swami Sivananda così scrive:
“
Condurre una vita virtuosa non è sufficiente in sé per ottenere la realizzazione di Dio. È assolutamente necessario raggiungere la concentrazione della mente.
Una vita buona e virtuosa prepara semplicemente la mente ad essere uno strumento adatto alla concentrazione e alla meditazione. Sono la concentrazione e la meditazione che alla fine conducono alla realizzazione del Sé.
Senza l’aiuto della meditazione non potrete raggiungere la Conoscenza del Sé. Senza il suo aiuto non potrete sviluppare lo stato divino. Senza di essa non potrete liberarvi dalle pastoie della mente e ottenere l’immortalità.
La meditazione è l’unica via regale per il conseguimento della salvezza, di Moksha. È una scala misteriosa che conduce dalla terra al cielo, dall’errore alla verità, dalle tenebre alla luce, dal dolore alla beatitudine, dall’inquietudine alla pace permanente, dall’ignoranza alla conoscenza. Dalla mortalità all’immortalità.” BLISS DIVINE
Ma cos’è la meditazione e come si pratica? Patanjali, nel secondo dei 196 aforismi dello ‘Yoga Sutra’, dice che “Yogas Chitta Vritti Nirodah”, ovvero “Lo Yoga è l’arresto delle alterazioni della mente”, cioè l’arresto delle onde di pensiero, di ogni attività mentale. Perché è così importante fermare la mente fino all’immobilità totale? Un esempio che si usa spesso per spiegare questo concetto, è il seguente: quando il mare è agitato, l’acqua intorbidita ci impedisce di vederne il fondo, che contiene un grande tesoro. Calmando l’acqua, fino a fermarla del tutto, essa diventerà trasparente, permettendo di vedere quel tesoro che prima era nascosto. Così la mente, in costante movimento, erige una sorta di cortina fumogena davanti alla parte divina, l’Atman, impedendoci di percepirlo e, di conseguenza, di prendere coscienza della nostra vera natura, che è divina. Naturalmente, queste non sono cose che si ottengono facilmente e in tempi brevi.
Lo Yoga riconosce 5 stati della mente, essi sono:
Kshipta ……. Mente disturbata e dispersa
Mudha………Mente stordita e intontita
Vikshipta……Mente distratta, attenta solo occasionalmente
Ekagra………Mente concentrata su un unico punto
Niruddha……Mente completamente ferma e sotto controllo nella concentrazione.
È fin troppo ovvio che Kshipta, è uno stato, purtroppo molto comune, in cui la mente conclude ben poco, disperdendo la propria energia in mille rivoli inutili. Per fortuna, anche nelle persone comuni la mente non è sempre in quello stato. Spesso è solo un po’ distratta, a volte concentrata, a volte tanto concentrata che si va in un’apnea involontaria, si trattiene il respiro. L’obiettivo è quello di rendere, tramite la pratica yogica, la mente sempre più presente a se stessa; questo migliorerà non solo il nostro livello spirituale, ma anche la nostra vita di ogni giorno.
Prima di praticare Dhyana, non è indispensabile essere dei maestri assoluti dei sei ‘Anga’ precedenti, ma bisogna praticarli assolutamente, altrimenti i progressi nella meditazione saranno ben pochi. Swami Vishnudevananda sostiene che non si possa insegnare a meditare, come non si può insegnare a dormire; però, come è sicuramente più facile dormire su un buon letto, in una camera silenziosa, anche osservare certe regole di base può non essere sufficiente a meditare, ma certamente ridurrà gli ostacoli che si frappongono tra il praticante e l’obiettivo. Queste regole di base sono: costanza e, possibilmente, uniformità di orario; l’ora migliore per la meditazione è il Brahma Muhurta, prima dell’alba; cercare di avere una stanza, o almeno un angolo protetto e tranquillo, dove si pratica solo la meditazione, con un altare dov’è esposta l’immagine dell’Ishta Devata, la divinità preferita; utilizzare le energie migliori della Terra, orientandosi verso est o verso nord; utilizzare il respiro per calmare la mente, perché, se la mente è agitata, meditare diventa quasi impossibile; concentrare la mente sul punto tra le sopracciglia o sul Chakra del cuore. Ultimo, ma non meno importante: recitare il proprio Mantra, per coloro a cui è stato impartito da una persona qualificata, o il Mantra universale OM, adatto a tutti.
Il Mantra
Perché l’uso del Mantra è così importante e che cos’è un Mantra? Ci sono molte definizioni di Mantra, ma quella che appare particolarmente calzante, è quella data da Swami Vishnu: “
Il Mantra è energia mistica racchiusa in una struttura sonora.” È quindi energia divina, quella stessa energia che è alla base della creazione dell’universo e che tutto pervade, troppo sottile per essere percepita e che, leggermente meno sottile, si fa suono. Ripetere il Mantra, dapprima ad alta voce, poi sussurrandolo a fior di labbra, infine solo mentalmente, significa far vibrare tutto il nostro essere ad una frequenza che altrimenti riusciremmo a raggiungere solo con enormi difficoltà.
Quando recitiamo un Mantra, non creiamo quel suono, perché quel suono già esiste, è sempre esistito, ma noi non abbiamo i mezzi per percepirlo, come non riusciamo a percepire le onde radio se non disponiamo di un apparecchio adatto. Quando recitiamo il Mantra, non facciamo che sintonizzarci, attraverso il suono grossolano, sulla sua essenza sottile, che è diretta espressione dell’energia divina. Abbiamo detto che l’intero Universo non è che energia; dietro ad ogni manifestazione grossolana di Prakriti, la natura sensibile, si nasconde un’essenza sottile, e dietro l’essenza sottile si nasconde una natura divina. Mettendo il nostro corpo e la nostra mente in vibrazione, dapprima grossolana, poi via via più sottile, ci avviciniamo sempre di più alla nostra vera, profonda natura, quella divina.
Se tutta la Sadhana è tesa ad alzare il livello vibratorio del praticante, a renderlo sempre più sottile, quale sussidio migliore del Mantra? Esso ci permette di fare in brevissimo tempo un percorso che sarebbe altrimenti lungo e difficoltoso.
La parola Mantra deriva dalla radice
Man, mente e da
Trai, che vuol dire sia proteggere che liberare. Quindi, il Mantra protegge la mente, o libera attraverso la mente; probabilmente sono entrambe giuste.
Perché un Mantra possa definirsi tale, deve possedere sei caratteristiche:
1. Deve avere un
Rishi che ha raggiunto la realizzazione del Sé per la prima volta tramite questo Mantra, e lo ha donato al mondo. È il veggente di questo Mantra. Il saggio Vishwamitra, per esempio, è il Rishi del Gayatri mantra.
2. Il Mantra deve avere una metrica,
Pada, che governa l’inflessione della voce. Alcuni invece di
Pada, parlano di
Raga, musica, nel senso che il Mantra ha degli accenti che ne stabiliscono il ritmo e la musicalità, essenziali perché esso mantenga tutto il suo potere.
3. Il Mantra deve avere un particolare
Devata, la divinità che presiede al Mantra stesso.
4. Il Mantra ha un
Bija o seme. Il seme è l’essenza più sottile del Mantra, e gli conferisce un potere speciale.
5. Ogni Mantra ha una
Shakti. La Shakti è l’energia divina insita nel Mantra. L’energia creatrice che si manifesta nel Mantra stesso.
6. Il Mantra ha un
Kilaka, una sorta di tappo. Kilaka chiude la Mantra Chaitanya, la coscienza che è nascosta nel Mantra. Quando questo ‘tappo’ viene gradualmente consumato e, infine, eliminato, con la ripetizione costante e prolungata del nome dell’Ishta Devata, la divinità di riferimento, la Chaitanya, la coscienza nascosta si rivela e il devoto ottiene la Darshana, la visione, dell’Ishta Devata.
Intraducibilita dei Mantra
Un altro punto molto importante da sottolineare è che i Mantra sono in lingua Sanscrita e sono assolutamente intraducibili, non perché non ne sappiamo il significato, ma perché traducendoli in una lingua diversa dal Sanscrito, essi perdono buona parte, se non tutta, la loro forza spirituale ed evocatrice. Abbiamo visto, accennando alla cosmogonia indiana, che essa procede per espansioni e differenziazioni. Gli Shastra ci dicono che alla quinta differenziazione appaiono i Varna, colori o sfumature, da cui, per ulteriori differenziazioni, avranno origine tutti i suoni e tutte le lingue. Oggi, la cosa più vicina ai Varna sono le 54 lettere dell’alfabeto Sanscrito, i Devanagari, la scrittura degli dei. I suoni del Sanscrito, e quindi i Mantra, sono i suoni conosciuti più puri e più prossimi alla fonte divina originale, e proprio in questo consiste la loro straordinaria forza. Traducendoli, il significato rimane, ma l’energia spirituale svanisce. Per questo motivo è oltremodo importante che i Mantra vengano recitati con la pronuncia appropriata.
Japa
“Mettete una barra di ferro in una fornace ardente, diventerà rossa come il fuoco. Toglietela dalla fornace e perderà il suo colore rosso. Se volete mantenerla sempre rossa, dovrete tenerla sempre nella fornace. Allo stesso modo, se volete mantenere la mente carica del fuoco della saggezza brahmica, dovete tenerla sempre in contatto col fuoco brahmico della conoscenza, attraverso una costante ed intensa meditazione. Dovete mantenere un flusso ininterrotto di coscienza brahmica. Se riuscirete a meditare per mezz’ora, sarete capaci di impegnarvi nei compiti di ogni giorno con pace e forza spirituale. Questi sono gli effetti benefici della meditazione. Poiché nella vostra vita quotidiana dovete muovervi usando diversi aspetti peculiari della vostra mente, prendete la forza e la pace dalla meditazione. Poi, non avrete più né problemi né preoccupazioni.”
Swami Sivananda - Pratica dello yoga
Se, come dicevano i Romani,
Repetita juvant è un’affermazione valida per qualsiasi pratica a cui si riferisca, dallo studio, all’arte, allo sport, ancora di più è vera quando si parla di plasmare non il corpo o la mente inferiore, ma la psiche profonda. Solo una pratica regolare e, soprattutto, prolungata, Abhyasa, può produrre risultati che tendono a stabilizzare la mente. Man mano che si procede nella pratica, vi accorgerete che il tempo che impiega la mente ad entrare in uno stato meditativo, si riduce sempre più. Per stabilire nella mente questo tipo di memoria, l’uso del Mantra è un sostegno straordinario, e anche per questo, una volta adottato un Mantra, non bisogna cambiarlo. Ci vuole un po’ di tempo, a volte un bel po’ di tempo, perché il Mantra manifesti tutta la sua Shakti, che è poi il tempo che serve alla nostra sensibilità per diventare abbastanza sottile da percepirla.
La Japa si può praticare in tre modi: ad alta voce, e viene chiamata
Vaikhari Japa; sussurrando a fior di labbra, ed è detta
Upamsu Japa; mentalmente,
Manasika Japa. Questa è la forma di ripetizione più potente e richiede una concentrazione più intensa, poiché la mente dopo un po’ tende a chiudersi. Nel caso ci si accorga che ci si sta assopendo, si può ripetere il Mantra ad alta voce per un po’, oppure fare un ciclo di Kapalabhati, e ricominciare.
Uno strumento molto utile per tenere il conto dei Mantra, quando si fa la Japa, è il Mala. Una corona di perline, simile al Rosario, composta da 108 grani più uno, il Meru, che non va superato. Quindi, quando si arriva al Meru, si gira il Mala e si ricomincia a sgranare nell’altro senso. Sul perché di questo numero, 108, che peraltro troviamo spesso nell‟Induismo e nel Buddhismo, ci sono parecchie risposte: sul Chakra del cuore, l’Anahata, convergono 108 Nadi; i Devanagari, le lettere dell’alfabeto sanscrito, sono 54 e ognuna ha un suo doppio, maschile e femminile; nello Sri Yantra, lo Yantra dell Dea, ci sono 54 Marma, intersezioni, e anch’esse hanno un doppio, maschile e femminile; 12 segni zodiacali x nove pianeti ecc. ecc. Il Mala può essere composto di vari materiali, anche se i più usati sono la Rudraksha, il seme di una bacca comune in India, il legno di Tulsi, una pianta sacra simile al basilico con un gambo legnoso, o di sandalo, il cristallo di rocca, e poi qualsiasi pietra preziosa o semipreziosa. Normalmente, durante la Japa, il Mala viene tenuto con la mano sinistra, all’altezza dell’Anahata Chakra, al centro del petto, e si sgrana con la destra, evitando di toccarlo con l’indice, che è considerato il dito che rappresenta l’io e l’egoismo.
Tipi di Mantra
Normalmente i Mantra vengono divisi in 5 grandi gruppi:
Saguna, o personali,
Nirguna, impersonali. I Nirguna, a loro volta, si dividono in
Gayatri,
Bija e
Mantra astratti.
Saguna Mantra
Saguna vuol dire ‘con qualità’. I Saguna Mantra sono tutti quei Mantra che si riferiscono ad una divinità specifica, come Om Ganapataye Namah, il Mantra di Ganesha, Om Namo Narayanaya, il Mantra di Vishnu, On Namah Sivaya, il Mantra di Siva, e così via. A questo proposito, vorrei riportare un bellissimo pensiero di Swami Sivananda, rivolto in particolare a chi pensa che quella di invocare una divinità specifica sia una forma di idolatria ‘pagana’, politeista:
“Dio Si rivela ai Suoi devoti in vari modi. Egli assume esattamente la forma che il devoto ha scelto per il suo culto. Se Lo adorate come Signore Hari con quattro mani, vi Si presenterà come Hari. Se Lo adorate come Siva, vi darà Darshan come Siva. Se Lo adorate come Madre Durga o Kali, verrà a voi come Durga o Kali. Se Lo adorate come Rama, Krishna o Dattatreya, verrà a voi come Rama, Krishna o Dattatreya. Se Lo adorate come Cristo o Allah, verrà a voi come Cristo o Allah.
Sono tutti aspetti di un unico Isvara o Signore. Sotto qualsivoglia nome o forma, è sempre Isvara ad essere adorato. L’adorazione va a Colui che è dentro, il Signore nella forma. Pensare che una forma sia superiore ad un’altra è pura ignoranza. Tutte le forme sono esattamente la stessa cosa. Adoriamo tutti lo stesso Dio, le differenze sono solo differenze di nome dovute alle differenze in coloro che adorano, ma non nell’oggetto dell’adorazione.
Il vero Gesù o il vero Krishna sono nel vostro cuore. Egli vive lì eternamente, dimora dentro di voi. È sempre il vostro compagno, non c’è un amico migliore di Colui che dimora dentro di voi. Affidatevi a Lui, rifugiatevi in Lui, realizzateLo e siate liberi.” (Swami Sivananda - BLISS DIVINE)
Identificare Dio con un Ishta Devata, una divinità preferita, di riferimento, è soltanto un modo di rappresentare Brahman, il Divino universale, in maniera più confacente alla nostra mente limitata, che altrimenti non sarebbe in grado di concepire l’inconcepibile, l’illimitato. È un gradino utile, spesso indispensabile, per prepararci a passare dallo stato umano, con i suoi limiti e le sue miserie, a quello divino. L’aspirante spirituale solitamente inizia la sua ricerca con Saguna, perché è più accessibile, più facile e può dare risultati tangibili in tempi ragionevoli. Solo quando è arrivato ad un considerevole livello di sviluppo, può cominciare a utilizzare nella sua pratica elementi Nirguna, privi di qualità, che sono certamente molto più potenti, ma, proprio per questo, richiedono purezza, forza e capacità di gestire le immense forze spirituali che sprigionano.
Nirguna Mantra
I
Nirguna Mantra, come abbiamo appena accennato, sono quei Mantra privi di Guna, che non hanno qualità, e sono fondamentalmente dei Mantra astratti, a volte composti da un’unica sillaba priva di un significato apparente, ma carica di energia spirituale. Talmente carica, che il loro uso è consigliabile esclusivamente ai praticanti più esperti, che già hanno acquisito la capacità di gestire al meglio questa massa di energia sottile senza fare danni.
I Nirguna più usati sono i
Bija Mantra. Bija vuol dire seme, e così come il seme, benché piccolissimo, racchiude in sé tutta la potenza dell’albero maestoso che da esso nascerà, così il Bija, monosillabico, racchiude in sé una potenza spirituale straordinaria. Ogni Chakra ha il suo Bija, che ne rappresenta ed è lo stesso Bija dell’elemento associato a quel Chakra. Partendo dal basso, i Bija dei Chakra sono: Lam per il Muladhara, elemento Terra; Vam per lo Svadistana, Acqua; Ram per il Manipura, Fuoco; Yam per l’Anahata, Aria; Ham per il Vishuddha, Etere, e infine OM per l’Ajna. Il Sahsrara, il loto dai mille petali, alla sommità della testa, non ha un Bija, ma solo silenzio. Anche i Devata hanno il loro Bija, che spesso si aggiungono all’inizio del loro Mantra, per conferirgli ulteriore forza spirituale. Così il Mantra di Ganesha diventa Om
Gam Ganapataye Namah, quello di Durga, Om
Dum Durgaye Namah, quello di Sarasvati, Om
Aim Sarasvatye Namah e così via. L’uso dei soli Bija Mantra nella meditazione è solitamente sconsigliato a chi non abbia già raggiunto una notevole esperienza nella pratica, e andrebbe sempre usato sotto la guida di un insegnante qualificato.
Altri Nirguna Mantra sono quelli astratti, come
Soham, che indica l’identificazione del praticante col Divino ed è collegato anche al respiro cosmico, e OM, il Mantra universale, di cui parleremo un po’ più in dettaglio tra breve.
I
Gayatri sono dei Mantra che hanno una particolare metrica, di solito 24 sillabe, in parte lode ad Ishvara, il Creatore, in parte preghiera per l’illuminazione. È un Mantra molto popolare in India, e questa è la forma più diffusa:
Meditiamo sulla gloria di Ishvara, che ha creato l’universo, che è degno di essere adorato, che è l’incarnazione della conoscenza e della luce, che toglie tutti i peccati e l’ignoranza. Possa Egli illuminare i nostri intelletti.
OM Simbolo del Para Brahman
Bhur Bhu-Loka (piano fisico)
Bhuvah Antariksha-Loka (piano astrale)
Svah Svarga-Loka (piano celeste)
Tat Quello; Paramatman trascendente
Savitur Ishvara o Creatore
Varenyam Degno di essere venerato o adorato
Bhargo Che elimina peccati ed ignoranza.
Splendore di gloria
Devasya Risplendente; luminoso
Dheemahi Noi meditiamo
Dhiyo Buddhi; intelletto; comprensione
Yo Che; chi
Nah Nostro
Prachodayat Illumina; guida; spinge a fare
Oltre a questo, che è il Gayatri Mantra fondamentale, esistono anche i Gayatri delle varie divinità, così abbiamo il Gayatri di Ganesha, di Vishnu, di Durga e così via.
Mahavakya
Vak vuol dire ‘parola’ e ‘maha’ grande. Quindi, Mahavakya vuol dire ‘grande espressione verbale’ o ‘grande affermazione’. Sono delle frasi brevissime che racchiudono l’essenza della saggezza del Vedanta. Le quattro più conosciute e più importanti sono estrapolate ognuna da uno dei quattro Veda, e sono le seguenti:
Prajñānam brahma - "La coscienza è Brahman" – Rig Veda
Ayam ātmā brahma - "Questo Sé (Atman) è Brahman" –Atharva Veda
Tat tvam asi - "Tu sei quello” - Sama Veda
Aham brahmāsmi - "Io sono Brahman" – Yajur Veda.
Tutte e quattro affermano in maniera inequivocabile l’identità dell’Atman col Brahman. Nella prima l’Atman viene indicato come pura coscienza, Prajñānam, cioè, per unirsi al Brahman, bisogna essere coscienti della nostra natura divina, che è un riflesso del Brahman stesso. Nella seconda, l’identità è tra Atman e Brahma. Nella terza Tat, quello, indica l’incommensurabile, l’Essere Supremo; tvam, tu, il Jiva, e asi, sei, l’unione tra i due. Nella quarta, lo stesso concetto viene espresso in prima persona, Aham.
OM
“La sillaba
Om è tutto l'universo. Eccone la spiegazione. Il passato, il presente, il futuro: tutto ciò è compreso nella sillaba Om. E anche ciò che è al di là del tempo, che è triplice, è compreso nella sillaba Om. Infatti, ogni cosa è il Brahman; l'Atman è il Brahman. Questo Atman ha quattro modi di essere.” Mandukya Upanishad, 1-2
Om è il Mantra universale, il Mantra della Creazione, il suono dell’Universo. Om è l’espressione sonora o, in assenza di suono, di vibrazione sottile dello stesso Brahman. È causa ed origine di ogni suono e di ogni cosa nel Cosmo intero. Il Vangelo di Giovanni inizia con queste parole: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.” Non è difficile cogliere il parallelo tra il Verbo del Vangelo e la Vibrazione prima, lo Shabdabhraman che si trasforma in Om. Om, come il Verbo, è causa di ogni cosa.
Pur essendo normalmente considerato un suono unico, in realtà OM è composto da tre suoni distinti: A, U e M. Parte dalla parte posteriore della bocca (A), passa al centro (U) e si conclude anteriormente verso le labbra (M). È consigliabile fare una piccola pausa di silenzio alla fine di ogni Om, vedremo presto perché. I tre suoni coinvolgono anche tre Chakra, sede dei Granthi, sorta di nodi, cancelli, che impediscono alla Kundalini di salire lungo la Sushumna Nadi fino a quando il praticante non è pronto a gestirla. I tre Granthi sono il Brahma Granthi, nel Muladhara Chakra (perineo), il suono è A; il secondo è il Vishnu Granthi, nell’Anahata Chakra, il suono è U; il terzo è il Rudra, o Siva, Granthi, nell’Ajna Chakra, il suono è M. Om rappresenta molte triadi presenti nel Vedanta: Creazione (Brahma), preservazione (Vishnu) e cambiamento, Pralaya (Siva); passato, presente e futuro, i tre Guna, Tamas, Rajas e Sattva; i tre mondi o piani, Bhur, la Terra, Bhuva, l’atmosfera e Svah, il Cielo; i tre Sharira, corpi: Sthula Sharira, il corpo grossolano, fisico, Sukshma Sharira, il corpo astrale, e Karana Sharira, il corpo causale. Ma la triade più importante, rappresentata dalle tre componenti dell’Om, è quella degli stati mentali: veglia, sogno e sonno profondo
1. Dall’analisi della mente in questi tre stati si può comprendere l’irrealtà del mondo sensibile e che l’unica realtà eterna e immutabile, Sat, è il Brahman, e il suo riflesso nel Jiva, l’Atman. Il silenzio alla fine della recitazione dell’Om rappresenta il superamento del tempo, l’infinito, del corpo e dei Guna, Moksha, dei mondi, la dimensione divina, e il quarto stato della mente, Turiya, lo stato di fermezza vigile e imperturbabile.
Lo stato che si raggiunge quando il nostro livello di consapevolezza ci rende capaci di identificarci, non più, erroneamente col complesso corpo-mente-prana, ma con la nostra vera essenza divina, l’Atman.
Hari Om Tat Sat
Paolo Quircio
Roma, 23-02-2019
1 Per approfondire questo argomento, suggerisco, a chi è interessato, di leggere “La filosofia dei sogni” di Swami Sivananda, in versione PDF scaricabile gratuitamente dal nostro sito.