Il problema dell'umanità è che gli stupidi sono sempre molto sicuri,
mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi. (B. Russell)

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I SENTIERI DELL' ESSERE
Le mille Vie della Spiritualità
I SENTIERI DELL' ESSERE
LA PRATICA DA SEGUIRE
Un monaco chiese a Dong-Shan:
C'è una pratica che le persone debbano seguire?
Dong Shan rispose:
quando diventi una vera persona c'è una tale pratica.
Sai essere freccia, arco, bersaglio?
<b>Sai essere freccia, arco, bersaglio?

Sai essere freccia, arco, bersaglio?
Conosci la sequenza delle costellazioni?
La fusione dell'idrogeno in elio?
Sai misurare la tua integrità?
Se rispondi
Avrai l'immortalità.

Laura Scottini

MEDITAZIONE TAOISTA
<b>MEDITAZIONE TAOISTA </b>





 

Chiudi gli occhi e vedrai con chiarezza.
Smetti di ascoltare e sentirai la verità.
Resta in silenzio e il tuo cuore potrà cantare.
Non cercare il contatto e troverai l'unione.
Sii quieto e ti muoverai sull'onda dello spirito.
Sii delicato e non avrai bisogno di forza.
Sii paziente e compirai ogni cosa.
Sii umile e manterrai la tua integrità.

 

IL VUOTO CHE DANZA
IL VUOTO CHE DANZA










di H.W.L. Poonja


Rimani ciò che sei ovunque tu sei.
Se fai così, saprai immediatamente
di essere Quello che hai cercato
per milioni di anni.

Non c'è ricerca,
perchè si cerca solo qualcosa che si è perso.
ma quando niente è andato perduto
non ha senso
cercare qualcosa.

Qui semplicemente Stai Quieto.
Non formare nemmeno un pensiero nella mente.
Allara saprai
Chi sei realmente.

per tre motici la ricerca e la pratica
sono follie fuorvianti
sono l'inganno della mente
per posporre la libertà.
Continua...

PAROLE SU DIO
PAROLE SU DIO

di Simone Weil

Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio. … Così pure, la prova che un bambino sa fare una divisione non sta nel ripetere la regola; sta nel fatto che fa le divisioni.

Il bello è ciò che si desidera senza volerlo mangiare. Desideriamo che sia. Restare immobili e unirsi a quel che si desidera senza avvicinarsi. Ci si unisce a Dio così: non potendosene avvicinare. La distanza è l’anima del bello.

Nella prima leggenda del Graal è detto che il Graal, pietra miracolosa che in virtù dell’ostia consacrata sazia ogni fame, apparterrà a chi per primo dirà al custode della pietra, il re quasi paralizzato dalla più dolorosa ferita: “Qual è il tuo tormento?”. La pienezza dell’amore del prossimo sta semplicemente nell’essere capace di domandargli: “Qual è il tuo tormento?”, nel sapere che lo sventurato esiste, non come uno fra i tanti, non come esemplare della categoria sociale ben definita degli “sventurati”, ma in quanto uomo, in tutto simile a noi, che un giorno fu colpito e segnato dalla sventura con un marchio inconfondibile. Per questo è sufficiente, ma anche indispensabile, saper posare su di lui un certo sguardo. Continua...
I BAMBINI
DAGLI OCCHI DI SOLE

I BAMBINI<br> DAGLI OCCHI DI SOLE










Vidi i pionieri ardenti dell’Onnipotente
superando la soglia celeste che è volta alla vita
discendere in frotta i gradini d’ambra della nascita;
precursori d’una moltitudine divina,
essi lasciavano le rotte della stella del mattino
per l’esigua stanza della vita mortale.

Li vidi traversare il crepuscolo di un’era,
i figli dagli occhi di sole di un’alba meravigliosa,
i grandi creatori dall’ampia fronte di calma,
i distruttori possenti delle barriere del mondo
che lottano contro il destino nelle arene della Sua volontà,
operai nelle miniere degli dei,
messaggeri dell’Incomunicabile,
architetti dell’Immortalità.

Nella sfera umana caduta essi entravano,
i volti ancora soffusi della gloria dell’Immortale,
le voci ancora in comunione coi pensieri di Dio,
i corpi magnificati dalla luce dello spirito,
portando la parola magica, il fuoco mistico,
portando la coppa dionisiaca della gioia,
Continua...
IL SEGRETO DELLE STELLE CADENTI
IL SEGRETO DELLE STELLE CADENTI

di Maurizio Di Gregorio

Tutti cerchiamo qualcosa. Se lo cerchiamo nel mondo materiale pensiamo di trovarlo all’esterno di noi stessi. Se lo cerchiamo nel mondo spirituale siamo portati a credere di poterlo trovare all’interno di noi. Una massima dice: la risposta è dentro di te. Una battuta invece dice: la risposta è dentro di te, ma è sbagliata. Ambedue le affermazioni sono vere perché si riferiscono a due esseri diversi. Uno vero e l’altro falso. Come si fa a sapere quale é l’Io interiore che contiene tutte le risposte della vita? Dalla felicità. Nel primo caso si sa solo che si è felici, sia pure per un attimo, si è completamente, immensamente e interamente felici e più correttamente si dovrebbe chiamarla beatitudine. Nel secondo caso sappiamo solo, che a dispetto di ogni altra cosa, momentanea soddisfazione o eccitazione, non si è veramente felici. 
Aivanhov, definendo la natura umana, parla della coesistenza di una natura inferiore e di una natura superiore. All’interno di ognuno è una continua lotta tra due esseri (o stati di essere) in competizione che Aivanhov chiama Personalità e Individualità. “Persona “ è la maschera e in ogni incarnazione la maschera è diversa, “Individualità” è l’abitante della maschera, colui che non cambia, il vero Sé divino. La personalità è in parte ancora inesistente nel bambino ma già tracciata, si sviluppa con l’età come la trama di un tessuto e si consuma nella vecchiaia. Il risveglio dell’anima consiste nel riconoscimento del Sé interiore e nell’abbandono momentaneo della maschera della personalità. Ora anche se possiamo capire qualcosa del nostro essere maschera, né la mente, né il cuore né la volontà sono risolutivi.
E questo perché mente cuore e volontà sono una triade che esiste tanto nella natura delle Individualità quanto nella natura della Personalità.
“Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” Quale è, in ogni dato momento, il cuore che chiede, la mente che cerca, la volontà che agisce? La strada dell’evoluzione spirituale, cioè della evoluzione dell’essere allo Spirito, è insidiosa perché ad ogni sviluppo della Individualità segue uno sviluppo della Personalità. Differentemente il discernimento è possibile solo dal punto di vista della Coscienza Superiore che è esattamente ciò che si illumina.
Fuori da questa esperienza si persiste sempre in un tipo di coscienza media, anche se ampliata o sofisticata, una coscienza media perché media in un equilibrio precario le necessità delle due nature....Continua...
I SETTE ASPETTI DELLA NUOVA COSCIENZA
I SETTE ASPETTI DELLA NUOVA COSCIENZA

di Ervin Laszlo

Il grande compito, la grande sfida del nostro tempo è cambiare se stessi.
Questo elenco delle principali caratteristiche della nuova visione, della nuova coscienza, è scritto per stimolare la trasformazione, perché è possibile acquisire una nuova consapevolezza, perché tutti possono evolvere, tante persone l'hanno già fatto ed è diventata una conditio sine qua non della nostra sopravvivenza sulla Terra.
La prima caratteristica è l'olismo, la visione olistica, per contrastare la visione frammentaria, disciplinaria, atomistica, che separa tutto: la mente dalla natura, l'uomo e la società dalla biosfera, e tutti i campi della realtà l'uno dall'altro. La visione olistica è proprio quella comprensione Continua...
I FIGLI DELLA LUCE
I FIGLI DELLA LUCE




 


I Figli della Luce si nutrono di Pace, Libertà, Amore, Giustizia, Grazia, Benevolenza, Comprensione, Compassione, Generosità, Bontà, Luce, Verità, Positività, trasmettendo tutto questo intorno a loro. Le creature che vengono in contatto con i Figli della Luce percepiscono la Positività dell’operato della “Luce Amore” e uno stato di benessere entra in loro. Non sono consapevoli della fonte di questa Positività, ma stanno volentieri in compagnia dei Figli Luce dispensatori d’Amore.
Continua...
UNA SPIRITUALITA' ECOLOGICA
UNA SPIRITUALITA' ECOLOGICA

di Matthew Fox

L’ecologia e la spiritualità sono le due facce della stessa medaglia. La religione deve lasciar andare i dogmi in modo da poter riscoprire la saggezza del mondo.
Come dovrebbe essere una religione ecologica? Negli ultimi 300 anni l’umanità è stata coinvolta in una grande desacralizzazione del pianeta, dell’universo e della propria anima, e questo ha dato origine all’oltraggio ecologico. Saremo capaci di recuperare il senso del sacro?La religione del futuro non sarà una religione in senso stretto del termine, dovrà imparare a lasciare andare la religione. Il Maestro Eckhart, nel quattordicesimo secolo disse, “Prego Dio di liberarmi da Dio”. Per riscoprire la spiritualità, che è il cuore autentico di ogni religione vera e fiorente, dobbiamo liberarci dalla religione. Sembra un paradosso. La spiritualità significa usare il cuore, vivere nel mondo, dialogare con il nostro sé interiore e non semplicemente vivere a un livello organizzativo esterno.
E. F. Schumacher, nel suo profetico modo di scrivere, disse, nell’epilogo di Piccolo è bello, “Dappertutto la gente chiede, ‘Cosa posso fare praticamente?’ La risposta è tanto semplice quanto sconcertante, possiamo, ciascuno di noi, mettere in ordine la nostra casa intima, interiore. Per far questo non troviamo una guida nella scienza o nella tecnologia, poiché i valori sui quali esse si poggiano dipendono sommamente dal fine per il quale sono destinate. Tale guida la si può invece ancora trovare nella tradizionale saggezza dell’umanità”.
Tommaso d’Aquino, nel tredicesimo secolo disse, “Le rivelazioni si trovano in due volumi – la Bibbia e la natura”. Ma la teologia, a partire dal sedicesimo secolo, ha messo troppa enfasi nelle parole della Bibbia, o del Vaticano o dei professori, ha messo tutte le uova nel paniere delle parole, parole umane, e ha dimenticato la seconda fonte della rivelazione, la natura!
Il Maestro Eckhart disse, “Ogni creatura è la parola di Dio e un libro su Dio”. In altre parole, ogni creatura è una Bibbia. Ma come ci avviciniamo alla saggezza biblica, alla saggezza sacra delle creature? Col silenzio. C’è bisogno di un cuore silente per ascoltare la saggezza del vento, degli alberi, dell’acqua e della terra. Nella nostra ossessiva cultura verbale, abbiamo perso il senso del silenzio. Schumacher disse, “Siamo ormai troppo intelligenti per sopravvivere senza saggezza”. Continua... 
SULL'ANARCHIA BUDDISTA
SULL'ANARCHIA BUDDISTA di Gary Snyder

Da un punto di vista buddista, l'ignoranza che si proietta nella paura e nel vano appetito impediscono la manifestazione naturale. Storicamente, i filosofi buddisti non hanno saputo analizzare fino a che punto l'ignoranza e la sofferenza erano dovuti o favoriti da fattori sociali, considerando il timore e il desiderio come fatti intrinseci alla condizione umana. Così, la filosofia buddista si interessò principalmente alla teoria della conoscenza e la psicologia fu svantaggiata, per dare più spazio allo studio dei problemi storici e sociologici. Anche il buddismo Mahayana possiede un'ampia visione della salvezza universale, la sua realizzazione effettiva si è concretizzata nello sviluppo di sistemi pratici di meditazione per liberare a una minoranza di individui da blocchi psicologici e condizionamenti culturali. Il buddismo istituzionale è stato chiaramente disposto ad accettare o a ignorare le disuguaglianze e le tirannie sotto il sistema politico che vigeva. È stata come la morte del buddismo, posto che è comunque la morte che riesce a far comprendere il significato della compassione. La saggezza senza compassione non sente dolore.
Continua...
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TROVARSI E ARRENDERSI
YAMA E NIYAMA VI



di Paolo Quircio
 
Abbiamo visto in precedenza che nel primo Sutra del Sadhana Pada, il secondo capitolo dell’opera, Patanjali Maharishi spiega che il Kriya Yoga, lo Yoga pratico, si fonda su quelli che verranno poi citati nuovamente nei sutra 43, 44 e 45 come gli ultimi tre Niyama. Abbiamo già parlato di Tapas, gli altri due sono Swadhyaya e Ishvara-pranidhana. Il primo vuol dire ‘studio del sé’, il secondo ‘sottomissione al Divino’.

Prima di affrontare questi due ultimi punti, sarà bene fare un’osservazione: se nel primo capitolo, il Samadhi Pada, Patanjali aveva già spiegato in maniera ampia (sempre compatibilmente con lo stile molto stringato dei Sutra) quali sono gli obiettivi dello Yoga e come raggiungerli, inclusa la distinzione fra i vari tipi di Samadhi e le diverse pratiche spirituali volte al loro conseguimento, perché dà inizio ad un secondo capitolo dedicato proprio alla Sadhana, il percorso spirituale, oltretutto specificando fin dal primo aforisma che questo è lo Yoga dell’azione (Kriya)?

La risposta più plausibile e che la maggior parte dei commentatori dà, è che la prima parte del libro è riservata a coloro che per il loro Karma individuale sono già pronti a quel tipo di cammino. Sono già pronti a intraprendere l’ultima parte della Sadhana, quella che porta direttamente al Samadhi. Parliamo quindi di Jiva che nelle vite precedenti hanno già svolto tutte quelle pratiche purificatorie indispensabili per poter affrontare, come detto, quest’ultima parte di percorso. Patanjali dice: “(L'asamprajnata samadhi può essere posseduto) dalla nascita (da coloro che hanno raggiunto in precedenza) l’assenza di corpo e la fusione con la Prakriti.” Yoga Sutra I, 19.

Ovvero, da coloro che, tramite una Sadhana intensa e prolungata, durata molte vite, hanno raggiunto il punto in cui è sufficiente nascere per completare il percorso che porta al Samadhi. “Per gli altri, l’asamprajnata samadhi è conseguito attraverso la fede, l'energia, la memoria e un'intensa consapevolezza.” Y.S. I, 20. Sono questi gli ingredienti indispensabili perché la Sadhana abbia successo e conduca al Samadhi.

Il secondo capitolo è riservato quindi a questi ‘altri’, agli aspiranti spirituali ancora a mezza via, quelli che hanno ancora con sé il pesante fardello dell’ignoranza spirituale, delle cattive abitudini, della paura. Ed è proprio per questo che il Maharishi lo definisce uno Yoga ‘pratico’, perché fornisce anche a chi ha ancora molta strada da fare, un’ottima guida per percorrerla. È questa la strada dell’Ashtanga, delle otto parti del Raja Yoga.
Osservando bene i tre Niyama considerati la base dello Yoga ‘pratico’, è abbastanza facile notare un’analogia con i tre percorsi dello Yoga: Karma Yoga, Jnana Yoga e Bhakti Yoga, lo Yoga dell’azione, lo Yoga della conoscenza e quello della devozione. Gli stessi tre percorsi, anche se in ordine diverso, di cui parla ampiamente la Bhagavad Gita: Karma Yoga nei primi sei discorsi, Bhakti Yoga dal VII al XII e Jnana Yoga negli ultimi sei.

Il principio del Karma Yoga è la trasformazione dell’azione (Karma o Kriya), che in sé produce Karma (nel senso di destino) e quindi lega il Jiva al Samsara, il ciclo di nascite e morti.
Abbandonando il desiderio dei frutti dell’azione, il Jiva diventa consapevole che ad agire è Prakriti, la Natura, o Maya, il velo dell’ignoranza spirituale, e acquisisce l’attitudine del testimone, Sakshi Bhava, distaccato dal mondo materiale, riconosciuto come transeunte e illusorio, l’azione diventa un elemento di liberazione. Esattamente come Tapas, che richiedono sì un’azione, ma un’azione che ha come scopo la purificazione.

È fin troppo facile il parallelo tra  Swadhyaya e Jnana Yoga, lo Yoga della conoscenza, l’approccio dell’intelletto, della mente superiore, volto a sviluppare il senso di discriminazione, Viveka, tra il reale, in quanto eterno, non nato e immortale, e l’irreale, ciò che è destinato ad esistere (e non ad essere) solo per un determinato periodo di tempo. Anche il parallelo tra Ishvara-pranidhana e Bhakti Yoga è abbastanza ovvio

Sottomettersi al Divino e provare un profondo amore e devozione per Esso sono cose che vanno di pari passo, l’una non ha senso senza l’altra.

Ancora una volta possiamo notare come i cosiddetti quattro percorsi dello Yoga non siano in realtà che un unico percorso complesso e che ognuno di essi corrobora l’altro. Essi vengono presentati in maniera diversa e con diverse angolazioni in tutti gli Shastra, gli insegnamenti tradizionali, in particolare nella Gita e, come stiamo vedendo, negli Yoga Sutra. Nessuna disciplina spirituale può seriamente pensare di escludere o limitare anche uno solo di questi approcci senza compromettere l’intera Sadhana.

Il termine Swadhyaya viene comunemente tradotto come ‘studio del sé’ o, a volte, come ‘studio’ tout court, intendendo lo studio dei testi sacri e delle Scritture sapienziali. In effetti lo studio dei testi è di fondamentale importanza per poter avere una guida sicura ed affidabile nella parte ‘intellettuale’ della pratica yogica.

In Sanscrito la parola Shastra, che viene comunemente usata per indicare i testi sacri, in realtà non si riferisce esclusivamente ai testi in sé, ma all’insegnamento sacro in genere, a cominciare da quello che ci viene da un Guru. Il filosofo indiano J. Krishnamurti sostiene che siamo ‘persone di seconda mano’, intendendo che affidiamo le nostre conoscenze e, di conseguenza, il nostro sviluppo spirituale, a religioni, ideologie, maestri, invece di cercare esclusivamente dentro di noi la chiave della verità.

Questo è sicuramente vero, soprattutto considerando la piega dogmatica e secolare che più o meno tutte le religioni hanno preso nel corso del tempo, della gran quantità di ciarlatani che si spacciano per Maestri e per la ancor più grande quantità di testi inutili, fuorvianti e infondati che invadono le librerie.
Però è difficile iniziare un percorso spirituale serio senza alcun punto di riferimento, senza aver chiara la direzione da prendere. Ma, se come abbiamo appena detto, il mondo è, ed è sempre stato, pieno di falsi maestri e di falsi insegnamenti, come orientarsi e in questa giungla di segnali contraddittori?

Chi scrive è dell’avviso che il modo migliore sia quello di rifarsi sempre alle tradizioni che nel tempo hanno dato prova di fornire risultati concreti. Nella sua  Introduzione generale allo studio delle dottrine indù,  René Guenon nota come una delle più grandi differenze tra il pensiero orientale e quello occidentale è che il primo si fonda su una tradizione immutabile, la cui vera forza è l’immutabilità, in quanto ha raggiunto la perfezione fin dall’inizio, e che viene tramandata attraverso una catena ininterrotta di Rishi, di saggi e veggenti, il cui scopo principale, oltre a quello di mantenere viva la dottrina, è di mantenerla inalterata, consci del fatto che ogni variazione non può che indebolirla.

Il pensiero occidentale, al contrario, cambia continuamente, e il risultato di ciò è un pensiero instabile, sempre più lontano dalla fonte originaria della Conoscenza. Un minimo di Shastra Shraddha, la fiducia negli insegnamenti, è necessario, almeno per iniziare il percorso di  Swadhyaya, così come un grande fuoco inizia sempre da una piccola scintilla.

Anche nella scelta del Maestro non è facile districarsi dalla folla di sedicenti tali che ci circonda. Alcuni criteri di base sono abbastanza semplici: chi si fiderebbe di un dietologo obeso o di un personal trainer fiacco e macilento? Con altrettanta cura vanno evitati quegli insegnanti che si dichiarano Maestri, quelli veri non lo hanno mai fatto, quelli molto dediti all’aspetto commerciale dell’insegnamento o che prestano eccessive attenzioni ad allieve/i dell’altro sesso.

Insomma, cercare persone che dimostrino non solo di essere serie e preparate, ma, soprattutto, di aver messo in pratica quegli insegnamenti che comunicano ai loro allievi. In tutto questo, tener sempre presente la differenza enorme tra insegnanti e Maestri; questi ultimi, quelli veri, sono in genere dei Jivanmukta, delle persone che hanno raggiunto la liberazione dal ciclo di nascite e morti già in vita, che potrebbero abbandonare il corpo e compiere il Mahasamadhi a loro piacimento, ma che rimangono ancora su questa Terra solamente per continuare a diffondere il loro insegnamento spirituale, per far del bene all’umanità.

Per quello che riguarda gli Shastra, come vengono comunemente definite le scritture delle diverse scuole filosofiche indiane, non c’è che l’imbarazzo della scelta, dalle Upanishad alla Bhagavad Gita o ai Yoga Sutra. Tutti testi che andrebbero letti regolarmente, con attenzione, utilizzando i diversi commentari a disposizione.

Studiando i vari testi ci si accorge che spesso parlano degli stessi argomenti, ma è importante il fatto che li affrontano con punti di vista diversi, aprendo al lettore orizzonti sempre più vasti, rendendo possibile l’accesso a filosofie estremamente complesse ad aspiranti di ogni livello culturale ed intellettivo.

Abbiamo detto che l’intervento dei Maestri e degli insegnamenti è importante, forse essenziale, per dare inizio alla Sadhana, ma la parte che conta davvero è l’introspezione. Analizzare in continuazione i propri pensieri, le proprie parole e le proprie azioni; chiedersi senza alcuna indulgenza qual è la motivazione recondita e profonda che ci fa pensare, parlare ed agire.

Il Mahatma Gandhi, parlando in termini etici e sociali, diceva: “Ripensa al volto dell’uomo più povero e più debole che hai visto e chiediti se l’azione che stai per intraprendere sarà di qualche utilità per lui”.

Analogamente, da un punto di vista spirituale, dovremmo analizzare ogni nostro atto e cercare di capire se è di sostegno alla nostra Sadhana o se piuttosto è un ostacolo sul nostro cammino spirituale. Qualcosa di non molto distante dal socratico ‘Conosci te stesso’.

Molte scuole spirituali ed esoteriche consigliano ai propri seguaci di fare un esame di coscienza quotidiano. Gli antroposofi hanno come esercizio regolare, al momento di andare a letto, quello di rivedere a ritroso la giornata appena trascorsa ed analizzare dal punto di vista dello sviluppo spirituale ogni azione compiuta e ogni pensiero avuto durante la giornata stessa.

Molti Maestri indiani ci consigliano di tenere un diario spirituale; di ricordare quante volte durante la giornata abbiamo rivolto il pensiero al Divino, quante volte ci siamo irritati, quante abbiamo detto parole o fatto cose di cui ci siamo pentiti, ma soprattutto cercare di capire le motivazioni di tali pensieri, parole ed azioni.

Questo ‘esame di coscienza’ praticato con continuità, ma soprattutto con onestà e coraggio intellettuale, ci porta gradualmente a scoprire le motivazioni del nostro agire e del nostro pensare. È un primo passo verso quelle pratiche dello Jnana Yoga basate sul ragionamento logico che sviluppano l’intelletto e danno una visione chiara della realtà dentro e fuori di noi. Tra queste citiamo Neti Neti, né questo né quello, una pratica che, nella ricerca del Divino, ci porta ad escludere tutte cose destinate a finire, per arrivare al Brahman e al suo riflesso in ognuno di noi, l’Atman; oppure il Sakshi Bhav, l’attitudine del testimone, quell’attitudine che ci fa osservare l’intero vissuto come se non fosse opera nostra, come un testimone, restringendo anche in questo caso il campo dell’indagine intellettuale fino a che non rimane altro che l’eterno, immutabile Brahman.

Come detto per i precedenti Yama e Niyama, anche nel precetto Swadhyaya si può vedere come esso racchiuda in sé l’intera Sadhana, l’intero percorso spirituale. In questo caso il lavoro di sgrossamento non riguarda più i comportamenti considerati Adharma, freni spirituali, e la loro causa principale, il desiderio; Swadhyaya va ad agire direttamente su Buddhi, la parte più sottile della mente, quella intuitiva, per analizzarne i meccanismi e imparare non solo a farla funzionare nel migliore dei modi, ma, una volta conosciuta e studiata a fondo, anche a farla tacere e permetterci così di vedere e prendere coscienza della parte divina che dimora in ognuno di noi e che proprio la mente nasconde alla nostra vista.

Nel corso della pratica Swadhyaya, da ‘studio di sé’ diventa ‘studio del Sé’, ossia, attraverso lo studio della propria mente e della propria personalità passa allo studio e alla presa di coscienza del Sé, il Divino che è in ognuno di noi.
 
L’ultimo dei Niyama è Ishvara-pranidhana. Ishvara vuol dire ‘colui che comanda’ e, per estensione, Signore, Dio; pranidhana vuol dire abbandono, sottomissione. Quindi, abbandono al Signore. Nello Yoga Bhashya, il commentario degli Yoga Sutra attribuito al Maharishi Vyasa, l’estensore del Mahabharata, il  sutra II, 45 viene tradotto così: “La trance estatica (il Samadhi) può essere raggiunta rendendo Ishvara (il Signore) il motivo di tutte le azioni.”

Si potrebbe dire che questo ultimo Niyama racchiuda in sé, più che l’intera Sadhana, come abbiamo notato per tutti gli Yama e Niyama esposti finora, l’inizio e la fine della Sadhana stessa. L’inizio, perché la ricerca del Divino è sì una ricerca a volte prevalentemente intellettuale, ma non può prescindere da un trasporto emotivo, di amore nei confronti del Divino.

La fine della Sadhana, perché il senso di totale abbandono al Signore e alla Sua volontà o, per dirla con Vyasa, il rendere il Signore il motivo di tutte le azioni, è un punto di arrivo abbastanza faticoso e difficile da raggiungere. Punto di arrivo momentaneo, però. Infatti, pur essendo l’ultimo degli Yama e Niyama, in realtà questi sono solo i primi due anga del Raja Yoga.

Se i nove precetti e divieti precedenti avevano come finalità la purificazione, l’eliminazione delle scorie del desiderio nelle tante forme che esso può assumere, con Ishvara-pranidhana si va a toccare l’origine di ogni azione: la volontà e la motivazione che essa deve avere. Nello Yoga si parla delle tre grandi forze che presiedono ad ogni fase della vita: Iccha Sakti, la forza della volontà, Jnana Sakti, la forza della conoscenza, e Kriya Sakti, la forza dell’azione. A monte di ogni impresa umana c’è Iccha Sakti, la volontà, la determinazione a compiere una data azione; grazie ad essa poi si impara a farla e infine si fa.

La volontà è la molla che muove l’intero meccanismo, ma la motivazione è quella che indirizza la   volontà. Anche un genio del male può avere una volontà d’acciaio, ma le sue motivazioni sono pessime. Solo chi dà alla sua Iccha Sakti la direzione della ricerca del Divino, della Realizzazione del Divino, seguendo e attuando l’insegnamento di Ishvara-pranidhana, potrà dare un senso compiuto alla propria Sadhana.

Un altro aspetto importante da sottolineare è che rimettersi alla volontà di Dio potrebbe assumere le caratteristiche di un supino adattamento, di un fatalismo che può facilmente condurre all’apatia e all’indolenza. Come quell’uomo che durante una tremenda alluvione si rifugia sul tetto della sua casa. L’uomo è devotissimo e prega con ardore il suo Ishta Devata, la sua Divinità preferita, perché lo salvi. Vanno alcuni soccorritori con una barca e lo invitano a porsi in salvo. Ma lui rifiuta, spiegando che il suo Deva lo salverà. Rifiuta l’aiuto anche di altri soccorritori, finché il livello delle acque sale ancora e lui muore annegato. Quando, da morto, si trova al cospetto di Ishvara, gli chiede: ‘Signore, ti ho pregato con tanta fede e mi avevi promesso di salvarmi. Perché mi hai abbandonato?’ E Ishvara risponde: ‘Ti ho mandato diverse barche a salvarti e tu hai sempre rifiutato. Cos’altro potevo fare?’

Rimettersi alla volontà del Signore non vuol dire abbandonare la propria volontà, la propria determinazione e la propria capacità di decidere, anzi, e qui è lo sforzo davvero titanico che il Sadhaka, l’aspirante spirituale, è chiamato a fare. Ishvara-pranidhana vuol dire uniformare la propria volontà a quella divina.

Entrare talmente tanto in sintonia con la volontà divina da rendere la propria analoga ad essa, cogliere in ogni cosa, pensiero, parola o azione il segno di questa volontà superiore e ad essa uniformarsi. L’impegno di imparare a vivere in totale simbiosi con le manifestazioni divine, gradualmente, col tempo e con la pratica, conduce il Sadhaka a trovare all’interno di sé quelle stesse energie, quelle stesse motivazioni che muovono il mondo esterno.

Egli riuscirà ad unire, attraverso l’unione delle due volontà, la propria e quella divina, il macrocosmo materiale, espressione del Brahman, il Divino cosmico, con l’immortale Atman, con il microcosmo interiore, riflesso o porzione del Brahman stesso, la nostra natura più profonda e più reale.  
 
Questa unione intima, profonda e in sé divina, è ciò che chiamiamo Yoga.

Paolo Qircio
Roma 22-08-2018
 
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