di Paolo Quircio
Abbiamo visto in precedenza che nel primo
Sutra del
Sadhana Pada, il secondo capitolo dell’opera, Patanjali Maharishi spiega che il
Kriya Yoga, lo Yoga pratico, si fonda su quelli che verranno poi citati nuovamente nei
sutra 43, 44 e 45 come gli ultimi tre
Niyama. Abbiamo già parlato di
Tapas, gli altri due sono
Swadhyaya e
Ishvara-pranidhana. Il primo vuol dire ‘studio del sé’, il secondo ‘sottomissione al Divino’.
Prima di affrontare questi due ultimi punti, sarà bene fare un’osservazione: se nel primo capitolo, il
Samadhi Pada, Patanjali aveva già spiegato in maniera ampia (sempre compatibilmente con lo stile molto stringato dei
Sutra) quali sono gli obiettivi dello Yoga e come raggiungerli, inclusa la distinzione fra i vari tipi di
Samadhi e le diverse pratiche spirituali volte al loro conseguimento, perché dà inizio ad un secondo capitolo dedicato proprio alla
Sadhana, il percorso spirituale, oltretutto specificando fin dal primo aforisma che questo è lo Yoga dell’azione (
Kriya)?
La risposta più plausibile e che la maggior parte dei commentatori dà, è che la prima parte del libro è riservata a coloro che per il loro
Karma individuale sono già pronti a quel tipo di cammino. Sono già pronti a intraprendere l’ultima parte della
Sadhana, quella che porta direttamente al
Samadhi. Parliamo quindi di
Jiva che nelle vite precedenti hanno già svolto tutte quelle pratiche purificatorie indispensabili per poter affrontare, come detto, quest’ultima parte di percorso. Patanjali dice: “(L'
asamprajnata samadhi può essere posseduto) dalla nascita (da coloro che hanno raggiunto in precedenza) l’assenza di corpo e la fusione con la
Prakriti.” Yoga Sutra I, 19.
Ovvero, da coloro che, tramite una
Sadhana intensa e prolungata, durata molte vite, hanno raggiunto il punto in cui è sufficiente nascere per completare il percorso che porta al
Samadhi. “Per gli altri,
l’asamprajnata samadhi è conseguito attraverso la fede, l'energia, la memoria e un'intensa consapevolezza.” Y.S. I, 20. Sono questi gli ingredienti indispensabili perché la
Sadhana abbia successo e conduca al
Samadhi.
Il secondo capitolo è riservato quindi a questi ‘altri’, agli aspiranti spirituali ancora a mezza via, quelli che hanno ancora con sé il pesante fardello dell’ignoranza spirituale, delle cattive abitudini, della paura. Ed è proprio per questo che il
Maharishi lo definisce uno Yoga ‘pratico’, perché fornisce anche a chi ha ancora molta strada da fare, un’ottima guida per percorrerla. È questa la strada dell’
Ashtanga, delle otto parti del Raja Yoga.
Osservando bene i tre
Niyama considerati la base dello Yoga ‘pratico’, è abbastanza facile notare un’analogia con i tre percorsi dello Yoga:
Karma Yoga,
Jnana Yoga e
Bhakti Yoga, lo Yoga dell’azione, lo Yoga della conoscenza e quello della devozione. Gli stessi tre percorsi, anche se in ordine diverso, di cui parla ampiamente la Bhagavad Gita:
Karma Yoga nei primi sei discorsi,
Bhakti Yoga dal VII al XII e
Jnana Yoga negli ultimi sei.
Il principio del
Karma Yoga è la trasformazione dell’azione (
Karma o
Kriya), che in sé produce
Karma (nel senso di destino) e quindi lega il
Jiva al
Samsara, il ciclo di nascite e morti.
Abbandonando il desiderio dei frutti dell’azione, il
Jiva diventa consapevole che ad agire è
Prakriti, la Natura, o
Maya, il velo dell’ignoranza spirituale, e acquisisce l’attitudine del testimone,
Sakshi Bhava, distaccato dal mondo materiale, riconosciuto come transeunte e illusorio, l’azione diventa un elemento di liberazione. Esattamente come
Tapas, che richiedono sì un’azione, ma un’azione che ha come scopo la purificazione.
È fin troppo facile il parallelo tra
Swadhyaya e
Jnana Yoga, lo Yoga della conoscenza, l’approccio dell’intelletto, della mente superiore, volto a sviluppare il senso di discriminazione,
Viveka, tra il reale, in quanto eterno, non nato e immortale, e l’irreale, ciò che è destinato ad esistere (e non ad essere) solo per un determinato periodo di tempo. Anche il parallelo tra
Ishvara-pranidhana e
Bhakti Yoga è abbastanza ovvio
Sottomettersi al Divino e provare un profondo amore e devozione per Esso sono cose che vanno di pari passo, l’una non ha senso senza l’altra.
Ancora una volta possiamo notare come i cosiddetti quattro percorsi dello Yoga non siano in realtà che un unico percorso complesso e che ognuno di essi corrobora l’altro. Essi vengono presentati in maniera diversa e con diverse angolazioni in tutti gli
Shastra, gli insegnamenti tradizionali, in particolare nella
Gita e, come stiamo vedendo, negli
Yoga Sutra. Nessuna disciplina spirituale può seriamente pensare di escludere o limitare anche uno solo di questi approcci senza compromettere l’intera
Sadhana.
Il termine
Swadhyaya viene comunemente tradotto come ‘studio del sé’ o, a volte, come ‘studio’
tout court, intendendo lo studio dei testi sacri e delle Scritture sapienziali. In effetti lo studio dei testi è di fondamentale importanza per poter avere una guida sicura ed affidabile nella parte ‘intellettuale’ della pratica yogica.
In Sanscrito la parola
Shastra, che viene comunemente usata per indicare i testi sacri, in realtà non si riferisce esclusivamente ai testi in sé, ma all’insegnamento sacro in genere, a cominciare da quello che ci viene da un
Guru. Il filosofo indiano J. Krishnamurti sostiene che siamo ‘persone di seconda mano’, intendendo che affidiamo le nostre conoscenze e, di conseguenza, il nostro sviluppo spirituale, a religioni, ideologie, maestri, invece di cercare esclusivamente dentro di noi la chiave della verità.
Questo è sicuramente vero, soprattutto considerando la piega dogmatica e secolare che più o meno tutte le religioni hanno preso nel corso del tempo, della gran quantità di ciarlatani che si spacciano per Maestri e per la ancor più grande quantità di testi inutili, fuorvianti e infondati che invadono le librerie.
Però è difficile iniziare un percorso spirituale serio senza alcun punto di riferimento, senza aver chiara la direzione da prendere. Ma, se come abbiamo appena detto, il mondo è, ed è sempre stato, pieno di falsi maestri e di falsi insegnamenti, come orientarsi e in questa giungla di segnali contraddittori?
Chi scrive è dell’avviso che il modo migliore sia quello di rifarsi sempre alle tradizioni che nel tempo hanno dato prova di fornire risultati concreti. Nella sua
Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, René Guenon nota come una delle più grandi differenze tra il pensiero orientale e quello occidentale è che il primo si fonda su una tradizione immutabile, la cui vera forza è l’immutabilità, in quanto ha raggiunto la perfezione fin dall’inizio, e che viene tramandata attraverso una catena ininterrotta di
Rishi, di saggi e veggenti, il cui scopo principale, oltre a quello di mantenere viva la dottrina, è di mantenerla inalterata, consci del fatto che ogni variazione non può che indebolirla.
Il pensiero occidentale, al contrario, cambia continuamente, e il risultato di ciò è un pensiero instabile, sempre più lontano dalla fonte originaria della Conoscenza. Un minimo di
Shastra Shraddha, la fiducia negli insegnamenti, è necessario, almeno per iniziare il percorso di
Swadhyaya, così come un grande fuoco inizia sempre da una piccola scintilla.
Anche nella scelta del Maestro non è facile districarsi dalla folla di sedicenti tali che ci circonda. Alcuni criteri di base sono abbastanza semplici: chi si fiderebbe di un dietologo obeso o di un
personal trainer fiacco e macilento? Con altrettanta cura vanno evitati quegli insegnanti che si dichiarano Maestri, quelli veri non lo hanno mai fatto, quelli molto dediti all’aspetto commerciale dell’insegnamento o che prestano eccessive attenzioni ad allieve/i dell’altro sesso.
Insomma, cercare persone che dimostrino non solo di essere serie e preparate, ma, soprattutto, di aver messo in pratica quegli insegnamenti che comunicano ai loro allievi. In tutto questo, tener sempre presente la differenza enorme tra insegnanti e Maestri; questi ultimi, quelli veri, sono in genere dei
Jivanmukta, delle persone che hanno raggiunto la liberazione dal ciclo di nascite e morti già in vita, che potrebbero abbandonare il corpo e compiere il
Mahasamadhi a loro piacimento, ma che rimangono ancora su questa Terra solamente per continuare a diffondere il loro insegnamento spirituale, per far del bene all’umanità.
Per quello che riguarda gli
Shastra, come vengono comunemente definite le scritture delle diverse scuole filosofiche indiane, non c’è che l’imbarazzo della scelta, dalle Upanishad alla Bhagavad Gita o ai Yoga Sutra. Tutti testi che andrebbero letti regolarmente, con attenzione, utilizzando i diversi commentari a disposizione.
Studiando i vari testi ci si accorge che spesso parlano degli stessi argomenti, ma è importante il fatto che li affrontano con punti di vista diversi, aprendo al lettore orizzonti sempre più vasti, rendendo possibile l’accesso a filosofie estremamente complesse ad aspiranti di ogni livello culturale ed intellettivo.
Abbiamo detto che l’intervento dei Maestri e degli insegnamenti è importante, forse essenziale, per dare inizio alla
Sadhana, ma la parte che conta davvero è l’introspezione. Analizzare in continuazione i propri pensieri, le proprie parole e le proprie azioni; chiedersi senza alcuna indulgenza qual è la motivazione recondita e profonda che ci fa pensare, parlare ed agire.
Il Mahatma Gandhi, parlando in termini etici e sociali, diceva: “Ripensa al volto dell’uomo più povero e più debole che hai visto e chiediti se l’azione che stai per intraprendere sarà di qualche utilità per lui”.
Analogamente, da un punto di vista spirituale, dovremmo analizzare ogni nostro atto e cercare di capire se è di sostegno alla nostra
Sadhana o se piuttosto è un ostacolo sul nostro cammino spirituale. Qualcosa di non molto distante dal socratico ‘Conosci te stesso’.
Molte scuole spirituali ed esoteriche consigliano ai propri seguaci di fare un esame di coscienza quotidiano. Gli antroposofi hanno come esercizio regolare, al momento di andare a letto, quello di rivedere a ritroso la giornata appena trascorsa ed analizzare dal punto di vista dello sviluppo spirituale ogni azione compiuta e ogni pensiero avuto durante la giornata stessa.
Molti Maestri indiani ci consigliano di tenere un diario spirituale; di ricordare quante volte durante la giornata abbiamo rivolto il pensiero al Divino, quante volte ci siamo irritati, quante abbiamo detto parole o fatto cose di cui ci siamo pentiti, ma soprattutto cercare di capire le motivazioni di tali pensieri, parole ed azioni.
Questo ‘esame di coscienza’ praticato con continuità, ma soprattutto con onestà e coraggio intellettuale, ci porta gradualmente a scoprire le motivazioni del nostro agire e del nostro pensare. È un primo passo verso quelle pratiche dello
Jnana Yoga basate sul ragionamento logico che sviluppano l’intelletto e danno una visione chiara della realtà dentro e fuori di noi. Tra queste citiamo
Neti Neti, né questo né quello, una pratica che, nella ricerca del Divino, ci porta ad escludere tutte cose destinate a finire, per arrivare al
Brahman e al suo riflesso in ognuno di noi, l’
Atman; oppure il
Sakshi Bhav, l’attitudine del testimone, quell’attitudine che ci fa osservare l’intero vissuto come se non fosse opera nostra, come un testimone, restringendo anche in questo caso il campo dell’indagine intellettuale fino a che non rimane altro che l’eterno, immutabile
Brahman.
Come detto per i precedenti
Yama e
Niyama, anche nel precetto
Swadhyaya si può vedere come esso racchiuda in sé l’intera
Sadhana, l’intero percorso spirituale. In questo caso il lavoro di sgrossamento non riguarda più i comportamenti considerati
Adharma, freni spirituali, e la loro causa principale, il desiderio;
Swadhyaya va ad agire direttamente su
Buddhi, la parte più sottile della mente, quella intuitiva, per analizzarne i meccanismi e imparare non solo a farla funzionare nel migliore dei modi, ma, una volta conosciuta e studiata a fondo, anche a farla tacere e permetterci così di vedere e prendere coscienza della parte divina che dimora in ognuno di noi e che proprio la mente nasconde alla nostra vista.
Nel corso della pratica
Swadhyaya, da ‘studio di sé’ diventa ‘studio del Sé’, ossia, attraverso lo studio della propria mente e della propria personalità passa allo studio e alla presa di coscienza del Sé, il Divino che è in ognuno di noi.
L’ultimo dei
Niyama è
Ishvara-pranidhana.
Ishvara vuol dire ‘colui che comanda’ e, per estensione, Signore, Dio;
pranidhana vuol dire abbandono, sottomissione. Quindi, abbandono al Signore. Nello Yoga Bhashya, il commentario degli Yoga Sutra attribuito al
Maharishi Vyasa, l’estensore del Mahabharata, il
sutra II, 45 viene tradotto così: “La
trance estatica (il
Samadhi) può essere raggiunta rendendo
Ishvara (il Signore) il motivo di tutte le azioni.”
Si potrebbe dire che questo ultimo
Niyama racchiuda in sé, più che l’intera
Sadhana, come abbiamo notato per tutti gli
Yama e
Niyama esposti finora, l’inizio e la fine della
Sadhana stessa. L’inizio, perché la ricerca del Divino è sì una ricerca a volte prevalentemente intellettuale, ma non può prescindere da un trasporto emotivo, di amore nei confronti del Divino.
La fine della
Sadhana, perché il senso di totale abbandono al Signore e alla Sua volontà o, per dirla con Vyasa, il rendere il Signore il motivo di tutte le azioni, è un punto di arrivo abbastanza faticoso e difficile da raggiungere. Punto di arrivo momentaneo, però. Infatti, pur essendo l’ultimo degli
Yama e
Niyama, in realtà questi sono solo i primi due
anga del Raja Yoga.
Se i nove precetti e divieti precedenti avevano come finalità la purificazione, l’eliminazione delle scorie del desiderio nelle tante forme che esso può assumere, con
Ishvara-pranidhana si va a toccare l’origine di ogni azione: la volontà e la motivazione che essa deve avere. Nello Yoga si parla delle tre grandi forze che presiedono ad ogni fase della vita:
Iccha Sakti, la forza della volontà,
Jnana Sakti, la forza della conoscenza, e
Kriya Sakti, la forza dell’azione. A monte di ogni impresa umana c’è
Iccha Sakti, la volontà, la determinazione a compiere una data azione; grazie ad essa poi si impara a farla e infine si fa.
La volontà è la molla che muove l’intero meccanismo, ma la motivazione è quella che indirizza la volontà. Anche un genio del male può avere una volontà d’acciaio, ma le sue motivazioni sono pessime. Solo chi dà alla sua
Iccha Sakti la direzione della ricerca del Divino, della Realizzazione del Divino, seguendo e attuando l’insegnamento di
Ishvara-pranidhana, potrà dare un senso compiuto alla propria
Sadhana.
Un altro aspetto importante da sottolineare è che rimettersi alla volontà di Dio potrebbe assumere le caratteristiche di un supino adattamento, di un fatalismo che può facilmente condurre all’apatia e all’indolenza. Come quell’uomo che durante una tremenda alluvione si rifugia sul tetto della sua casa. L’uomo è devotissimo e prega con ardore il suo
Ishta Devata, la sua Divinità preferita, perché lo salvi. Vanno alcuni soccorritori con una barca e lo invitano a porsi in salvo. Ma lui rifiuta, spiegando che il suo
Deva lo salverà. Rifiuta l’aiuto anche di altri soccorritori, finché il livello delle acque sale ancora e lui muore annegato. Quando, da morto, si trova al cospetto di
Ishvara, gli chiede: ‘Signore, ti ho pregato con tanta fede e mi avevi promesso di salvarmi. Perché mi hai abbandonato?’ E
Ishvara risponde: ‘Ti ho mandato diverse barche a salvarti e tu hai sempre rifiutato. Cos’altro potevo fare?’
Rimettersi alla volontà del Signore non vuol dire abbandonare la propria volontà, la propria determinazione e la propria capacità di decidere, anzi, e qui è lo sforzo davvero titanico che il
Sadhaka, l’aspirante spirituale, è chiamato a fare.
Ishvara-pranidhana vuol dire uniformare la propria volontà a quella divina.
Entrare talmente tanto in sintonia con la volontà divina da rendere la propria analoga ad essa, cogliere in ogni cosa, pensiero, parola o azione il segno di questa volontà superiore e ad essa uniformarsi. L’impegno di imparare a vivere in totale simbiosi con le manifestazioni divine, gradualmente, col tempo e con la pratica, conduce il
Sadhaka a trovare all’interno di sé quelle stesse energie, quelle stesse motivazioni che muovono il mondo esterno.
Egli riuscirà ad unire, attraverso l’unione delle due volontà, la propria e quella divina, il macrocosmo materiale, espressione del
Brahman, il Divino cosmico, con l’immortale
Atman, con il microcosmo interiore, riflesso o porzione del
Brahman stesso, la nostra natura più profonda e più reale.
Questa unione intima, profonda e in sé divina, è ciò che chiamiamo Yoga.
Paolo Qircio
Roma 22-08-2018
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