Là dove é il tuo amore, un giorno sarai anche tu

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I SENTIERI DELL' ESSERE
Le mille Vie della Spiritualità
I SENTIERI DELL' ESSERE
LA PRATICA DA SEGUIRE
Un monaco chiese a Dong-Shan:
C'è una pratica che le persone debbano seguire?
Dong Shan rispose:
quando diventi una vera persona c'è una tale pratica.
Sai essere freccia, arco, bersaglio?
<b>Sai essere freccia, arco, bersaglio?

Sai essere freccia, arco, bersaglio?
Conosci la sequenza delle costellazioni?
La fusione dell'idrogeno in elio?
Sai misurare la tua integrità?
Se rispondi
Avrai l'immortalità.

Laura Scottini

MEDITAZIONE TAOISTA
<b>MEDITAZIONE TAOISTA </b>





 

Chiudi gli occhi e vedrai con chiarezza.
Smetti di ascoltare e sentirai la verità.
Resta in silenzio e il tuo cuore potrà cantare.
Non cercare il contatto e troverai l'unione.
Sii quieto e ti muoverai sull'onda dello spirito.
Sii delicato e non avrai bisogno di forza.
Sii paziente e compirai ogni cosa.
Sii umile e manterrai la tua integrità.

 

IL VUOTO CHE DANZA
IL VUOTO CHE DANZA










di H.W.L. Poonja


Rimani ciò che sei ovunque tu sei.
Se fai così, saprai immediatamente
di essere Quello che hai cercato
per milioni di anni.

Non c'è ricerca,
perchè si cerca solo qualcosa che si è perso.
ma quando niente è andato perduto
non ha senso
cercare qualcosa.

Qui semplicemente Stai Quieto.
Non formare nemmeno un pensiero nella mente.
Allara saprai
Chi sei realmente.

per tre motici la ricerca e la pratica
sono follie fuorvianti
sono l'inganno della mente
per posporre la libertà.
Continua...

PAROLE SU DIO
PAROLE SU DIO

di Simone Weil

Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio. … Così pure, la prova che un bambino sa fare una divisione non sta nel ripetere la regola; sta nel fatto che fa le divisioni.

Il bello è ciò che si desidera senza volerlo mangiare. Desideriamo che sia. Restare immobili e unirsi a quel che si desidera senza avvicinarsi. Ci si unisce a Dio così: non potendosene avvicinare. La distanza è l’anima del bello.

Nella prima leggenda del Graal è detto che il Graal, pietra miracolosa che in virtù dell’ostia consacrata sazia ogni fame, apparterrà a chi per primo dirà al custode della pietra, il re quasi paralizzato dalla più dolorosa ferita: “Qual è il tuo tormento?”. La pienezza dell’amore del prossimo sta semplicemente nell’essere capace di domandargli: “Qual è il tuo tormento?”, nel sapere che lo sventurato esiste, non come uno fra i tanti, non come esemplare della categoria sociale ben definita degli “sventurati”, ma in quanto uomo, in tutto simile a noi, che un giorno fu colpito e segnato dalla sventura con un marchio inconfondibile. Per questo è sufficiente, ma anche indispensabile, saper posare su di lui un certo sguardo. Continua...
I BAMBINI
DAGLI OCCHI DI SOLE

I BAMBINI<br> DAGLI OCCHI DI SOLE










Vidi i pionieri ardenti dell’Onnipotente
superando la soglia celeste che è volta alla vita
discendere in frotta i gradini d’ambra della nascita;
precursori d’una moltitudine divina,
essi lasciavano le rotte della stella del mattino
per l’esigua stanza della vita mortale.

Li vidi traversare il crepuscolo di un’era,
i figli dagli occhi di sole di un’alba meravigliosa,
i grandi creatori dall’ampia fronte di calma,
i distruttori possenti delle barriere del mondo
che lottano contro il destino nelle arene della Sua volontà,
operai nelle miniere degli dei,
messaggeri dell’Incomunicabile,
architetti dell’Immortalità.

Nella sfera umana caduta essi entravano,
i volti ancora soffusi della gloria dell’Immortale,
le voci ancora in comunione coi pensieri di Dio,
i corpi magnificati dalla luce dello spirito,
portando la parola magica, il fuoco mistico,
portando la coppa dionisiaca della gioia,
Continua...
IL SEGRETO DELLE STELLE CADENTI
IL SEGRETO DELLE STELLE CADENTI

di Maurizio Di Gregorio

Tutti cerchiamo qualcosa. Se lo cerchiamo nel mondo materiale pensiamo di trovarlo all’esterno di noi stessi. Se lo cerchiamo nel mondo spirituale siamo portati a credere di poterlo trovare all’interno di noi. Una massima dice: la risposta è dentro di te. Una battuta invece dice: la risposta è dentro di te, ma è sbagliata. Ambedue le affermazioni sono vere perché si riferiscono a due esseri diversi. Uno vero e l’altro falso. Come si fa a sapere quale é l’Io interiore che contiene tutte le risposte della vita? Dalla felicità. Nel primo caso si sa solo che si è felici, sia pure per un attimo, si è completamente, immensamente e interamente felici e più correttamente si dovrebbe chiamarla beatitudine. Nel secondo caso sappiamo solo, che a dispetto di ogni altra cosa, momentanea soddisfazione o eccitazione, non si è veramente felici. 
Aivanhov, definendo la natura umana, parla della coesistenza di una natura inferiore e di una natura superiore. All’interno di ognuno è una continua lotta tra due esseri (o stati di essere) in competizione che Aivanhov chiama Personalità e Individualità. “Persona “ è la maschera e in ogni incarnazione la maschera è diversa, “Individualità” è l’abitante della maschera, colui che non cambia, il vero Sé divino. La personalità è in parte ancora inesistente nel bambino ma già tracciata, si sviluppa con l’età come la trama di un tessuto e si consuma nella vecchiaia. Il risveglio dell’anima consiste nel riconoscimento del Sé interiore e nell’abbandono momentaneo della maschera della personalità. Ora anche se possiamo capire qualcosa del nostro essere maschera, né la mente, né il cuore né la volontà sono risolutivi.
E questo perché mente cuore e volontà sono una triade che esiste tanto nella natura delle Individualità quanto nella natura della Personalità.
“Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” Quale è, in ogni dato momento, il cuore che chiede, la mente che cerca, la volontà che agisce? La strada dell’evoluzione spirituale, cioè della evoluzione dell’essere allo Spirito, è insidiosa perché ad ogni sviluppo della Individualità segue uno sviluppo della Personalità. Differentemente il discernimento è possibile solo dal punto di vista della Coscienza Superiore che è esattamente ciò che si illumina.
Fuori da questa esperienza si persiste sempre in un tipo di coscienza media, anche se ampliata o sofisticata, una coscienza media perché media in un equilibrio precario le necessità delle due nature....Continua...
I SETTE ASPETTI DELLA NUOVA COSCIENZA
I SETTE ASPETTI DELLA NUOVA COSCIENZA

di Ervin Laszlo

Il grande compito, la grande sfida del nostro tempo è cambiare se stessi.
Questo elenco delle principali caratteristiche della nuova visione, della nuova coscienza, è scritto per stimolare la trasformazione, perché è possibile acquisire una nuova consapevolezza, perché tutti possono evolvere, tante persone l'hanno già fatto ed è diventata una conditio sine qua non della nostra sopravvivenza sulla Terra.
La prima caratteristica è l'olismo, la visione olistica, per contrastare la visione frammentaria, disciplinaria, atomistica, che separa tutto: la mente dalla natura, l'uomo e la società dalla biosfera, e tutti i campi della realtà l'uno dall'altro. La visione olistica è proprio quella comprensione Continua...
I FIGLI DELLA LUCE
I FIGLI DELLA LUCE




 


I Figli della Luce si nutrono di Pace, Libertà, Amore, Giustizia, Grazia, Benevolenza, Comprensione, Compassione, Generosità, Bontà, Luce, Verità, Positività, trasmettendo tutto questo intorno a loro. Le creature che vengono in contatto con i Figli della Luce percepiscono la Positività dell’operato della “Luce Amore” e uno stato di benessere entra in loro. Non sono consapevoli della fonte di questa Positività, ma stanno volentieri in compagnia dei Figli Luce dispensatori d’Amore.
Continua...
UNA SPIRITUALITA' ECOLOGICA
UNA SPIRITUALITA' ECOLOGICA

di Matthew Fox

L’ecologia e la spiritualità sono le due facce della stessa medaglia. La religione deve lasciar andare i dogmi in modo da poter riscoprire la saggezza del mondo.
Come dovrebbe essere una religione ecologica? Negli ultimi 300 anni l’umanità è stata coinvolta in una grande desacralizzazione del pianeta, dell’universo e della propria anima, e questo ha dato origine all’oltraggio ecologico. Saremo capaci di recuperare il senso del sacro?La religione del futuro non sarà una religione in senso stretto del termine, dovrà imparare a lasciare andare la religione. Il Maestro Eckhart, nel quattordicesimo secolo disse, “Prego Dio di liberarmi da Dio”. Per riscoprire la spiritualità, che è il cuore autentico di ogni religione vera e fiorente, dobbiamo liberarci dalla religione. Sembra un paradosso. La spiritualità significa usare il cuore, vivere nel mondo, dialogare con il nostro sé interiore e non semplicemente vivere a un livello organizzativo esterno.
E. F. Schumacher, nel suo profetico modo di scrivere, disse, nell’epilogo di Piccolo è bello, “Dappertutto la gente chiede, ‘Cosa posso fare praticamente?’ La risposta è tanto semplice quanto sconcertante, possiamo, ciascuno di noi, mettere in ordine la nostra casa intima, interiore. Per far questo non troviamo una guida nella scienza o nella tecnologia, poiché i valori sui quali esse si poggiano dipendono sommamente dal fine per il quale sono destinate. Tale guida la si può invece ancora trovare nella tradizionale saggezza dell’umanità”.
Tommaso d’Aquino, nel tredicesimo secolo disse, “Le rivelazioni si trovano in due volumi – la Bibbia e la natura”. Ma la teologia, a partire dal sedicesimo secolo, ha messo troppa enfasi nelle parole della Bibbia, o del Vaticano o dei professori, ha messo tutte le uova nel paniere delle parole, parole umane, e ha dimenticato la seconda fonte della rivelazione, la natura!
Il Maestro Eckhart disse, “Ogni creatura è la parola di Dio e un libro su Dio”. In altre parole, ogni creatura è una Bibbia. Ma come ci avviciniamo alla saggezza biblica, alla saggezza sacra delle creature? Col silenzio. C’è bisogno di un cuore silente per ascoltare la saggezza del vento, degli alberi, dell’acqua e della terra. Nella nostra ossessiva cultura verbale, abbiamo perso il senso del silenzio. Schumacher disse, “Siamo ormai troppo intelligenti per sopravvivere senza saggezza”. Continua... 
SULL'ANARCHIA BUDDISTA
SULL'ANARCHIA BUDDISTA di Gary Snyder

Da un punto di vista buddista, l'ignoranza che si proietta nella paura e nel vano appetito impediscono la manifestazione naturale. Storicamente, i filosofi buddisti non hanno saputo analizzare fino a che punto l'ignoranza e la sofferenza erano dovuti o favoriti da fattori sociali, considerando il timore e il desiderio come fatti intrinseci alla condizione umana. Così, la filosofia buddista si interessò principalmente alla teoria della conoscenza e la psicologia fu svantaggiata, per dare più spazio allo studio dei problemi storici e sociologici. Anche il buddismo Mahayana possiede un'ampia visione della salvezza universale, la sua realizzazione effettiva si è concretizzata nello sviluppo di sistemi pratici di meditazione per liberare a una minoranza di individui da blocchi psicologici e condizionamenti culturali. Il buddismo istituzionale è stato chiaramente disposto ad accettare o a ignorare le disuguaglianze e le tirannie sotto il sistema politico che vigeva. È stata come la morte del buddismo, posto che è comunque la morte che riesce a far comprendere il significato della compassione. La saggezza senza compassione non sente dolore.
Continua...
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SANTOSHA O APPAGAMENTO
- YAMA E NIYAMA VI



di Paolo Quircio 
 
“La pratica dell’appagamento conduce ad una felicità estrema”, Yoga Sutra, II, 42.
 
Santosha, appagamento, è il secondo Niyama del sistema del Raja Yoga di Patanjali Maharishi. La somiglianza tra questo sutra e l’adagio popolare ‘chi si contenta gode’ non può non saltare agli occhi. Sia l’uno che l’altro sono un evidente inno ad una vita vissuta con semplicità, senza inutili fronzoli, anche se nel sutra troviamo dei punti che lo pongono su un piano assai diverso da quello del proverbio. Credo sia utile sottolinearne due in particolare. Il primo è il concetto di appagamento, Santosha appunto, che non ha quel tocco di supina, paziente remissività, del ‘contentarsi’; esso è piuttosto la conseguenza di un lavoro spirituale già iniziato e che, attraverso la pratica di Santosha, prosegue nel suo percorso di purificazione, di sgrossamento che rende l’aspirante pronto a un ulteriore passo in avanti, lo prepara alle pratiche legate agli altri sei anga del Raja Yoga.

Appagamento vuol dire essere felici con ciò che si ha, ma, soprattutto, essere felici a prescindere da ciò che si ha, perché Santosha ci insegna che la felicità non dipende dal possesso di beni di vario genere. Ci insegna che la felicità è in realtà la nostra vera natura e che soltanto la nostra ignoranza spirituale, Avidya, ci fa credere che essa dipenda invece da agenti esterni. Santosha agisce a monte, perché va a toccare direttamente quello che tutti gli Shastra, i testi sapienziali, riconoscono come causa prima di ogni sofferenza: il desiderio. Nel terzo discorso della Bhagavad Gita, Arjuna chiede: “Dimmi, o Krishna, da che cosa l’uomo è forzatamente spinto, anche contro la sua volontà?” e Krishna risponde: “Dal desiderio (kama) e dalla collera (krodhah): entrambi nati dal Rajas, l’uno colmo di brama e l’altro colmo di odio. Sappi che nel mondo la passione (Rajas) è il nostro avversario. Come il fuoco è oscurato dal fumo, come lo specchio è velato dalla polvere, come il feto è ricoperto dalla placenta, così la saggezza è coperta dal Rajas.”  B.G III, 36-38.

Kama e Krodha sono le due estensioni, le due manifestazioni estreme di Raga e Dvesha, attrazione e repulsione, due dei cinque Klesha, le cinque afflizioni che rendono dolorosa la vita degli umani. Sempre a causa dell’erronea identificazione con il complesso corpo-prana-mente, con quegli attributi fisici e mentali che avvolgono il nostro Atman, la nostra essenza spirituale, divina, e ce lo nascondono, come il fumo nasconde il fuoco.

Avevamo già visto, analizzando i sutra precedenti, come ogni Yama e ogni Niyama racchiudano in sé l’intera Sadhana, come in ognuno di essi sia rappresentato, con un angolo di visuale diverso, l’intero percorso di purificazione necessario per raggiungere la concentrazione su un solo punto, ekagrata, la meditazione, Dhyana, e quindi il Samadhi, la trance estatica, la presa di consapevolezza dell’unione del proprio Sé con il Sé Cosmico. Arjuna, prima ancora di saperne la causa,  si rende conto che il Jiva ‘è forzatamente spinto, anche contro la sua volontà’ da qualche forza che egli non riesce a capire e che Krishna gli rivelerà essere il desiderio. Quel ‘forzatamente spinto, anche contro la sua volontà’ ci dà l’idea della forza terribile del desiderio.

Ma anche il desiderio, fonte di ogni dolore, è sottoposto alle regole dei Guna, le tre qualità che pervadono e caratterizzano l’intero Creato, inclusi i Jiva. “Sappi che la passione (Rajas) è il nostro avversario”, è il fumo che ci impedisce di vedere il fuoco della saggezza, della Conoscenza. La passione, sia quando attrae che quando rifugge, accieca. Quando si è pervasi in maniera eccessiva da Rajas, la mente si annebbia, commettiamo errori anche molto gravi, di cui, una volta tornata la quiete mentale, ci pentiamo amaramente.

L’intera Sadhana in realtà, attraverso le sue tante forme, conduce sempre ad uno spostamento del Guna prevalente in noi. La persona letargica, tendente all’inattività, avrà bisogno di Rajas per scrollarsi di dosso l’eccesso di Tamas che lo rende pigro; la persona iperattiva, passionale, facile preda di emozioni e d’ira, dovrà sforzarsi di trasformare l’eccesso di Rajas in Sattva, la qualità più pura e più leggera. Una volta che, grazie a tutte le pratiche combinate insieme, il Guna prevalente diventa via via quello più puro, allora il Jiva potrà iniziare la parte più sottile ed importante della sua Sadhana.

Lo stesso desiderio, in sé fonte di guai, soprattutto quando è intessuto di Tamas e di Rajas, assume una diversa connotazione quando è pervaso di Sattva, perché diventa Mumukshutva, l’ardente desiderio di unione al Divino, di liberazione dal Samsara, il ciclo di nascite e morti, di liberazione definitiva da questa prigione di carne e mente che tiene in trappola il nostro divino Atman. È importante sottolineare che anche Mumukshutva, in quanto desiderio e quindi fonte di attaccamento, va abbandonato ad un certo punto della pratica spirituale.

I Guna sono parte di Prakriti, la Natura sensibile, anzi, ne sono l’essenza, e inevitabilmente portano attaccamento, Tamas all’inattività, Rajas alla passione, e Sattva alla felicità. Qualsiasi forma di attaccamento, anche la più elevata, fa sì che le nostre azioni producano nuovo Karma, costringendosi a restare nel Samsara, il ciclo di nascite e morti.

Ritorno ancora una volta a quel ‘forzatamente spinto, anche contro la sua volontà’. È un’espressione che dà l’idea di una forza che, oltre che di straordinaria potenza, sembra essere esterna all’individuo, una sorta di possessione demoniaca. E in effetti tale è la potenza di Vidya, L’iconografia tradizionale dipinge il demonio come un essere mostruoso, con tanto di coda e corna; questo sia in Occidente che in Oriente. Gli Asura, i demoni della mitologia indiana, sono orrendi all’aspetto, astuti e crudeli, violenti e volgari; sono la massima espressione antropomorfizzata del disordine e della disarmonia del male. È inutile cercare il demonio chissà dove, ognuno di noi è pieno di grandi o piccoli caos, di astuzie e crudeltà, di indifferenza, che è l’aspetto Tamas della crudeltà attiva, ma non per questo meno dannoso.

La Dea Kali, uno degli aspetti femminili del Divino, è solitamente raffigurata in modo piuttosto impressionante, persino pauroso: il portamento fiero e feroce, la lingua rossa di sangue protesa fuori dalla bocca, la spada sguainata grondante sangue, un gonnellino di braccia mozze e una collana di teste anch’esse mozze e anch’esse grondanti sangue. Se però andiamo a vedere il simbolismo che si cela dietro quest’immagine così cupa, così violenta, le cose cambiano radicalmente. L’aspetto fiero, spietato, è quello da tenere nei confronti dei ‘demoni’ dell’ignoranza, che ci ottenebrano e che dobbiamo assolutamente sconfiggere. Per mozzare le loro braccia e le loro teste, azione e pensiero, dobbiamo usare l’affilata, inesorabile spada di Viveka, la discriminazione che ci permette di distinguere il reale, Sat, dall’irreale, Asat.

L’immagine di Kali ha anche molti altri significati, legati soprattutto allo scorrere del tempo e alla fine ed inizio dei cicli cosmici, ma in questa sede ci interessava mettere in luce quelli legati alla lotta senza quartiere ai ‘demoni’ interni, presenti in ogni Jiva, quelli da cui bisogna separarsi, purificarsi, se si vuole intraprendere con successo un serio percorso di evoluzione spirituale.
Quindi, per tornare a Santosha, abbiamo visto come non sia affatto un’esortazione alla rassegnata passività, ma una decisa presa di coscienza, sostenuta da una ferrea volontà e da quell’unico desiderio di puro Sattva, Mumushuktva, il desiderio della liberazione, che si dovrà abbandonare solo alla soglia del Samadhi.

Santosha, insegna Patanjali, ci conduce ad una felicità estrema. Estrema vuol dire che non può essere superata, e qual è quella felicità che non può essere superata, se non Ananda, la Divina Beatitudine derivante dall’essere diventati Pura Consapevolezza, Pura Unione col Divino Brahman
Se Santosha va a colpire i desideri alla loro radice, il Niyama seguente, Tapas, o Tapasya, intende prendersi cura dei desideri che si sono già mostrati e radicati nel Jiva. Tapas viene solitamente tradotto con ‘austerità’, ‘mortificazione’ o anche ‘ascesi’ , una sorta di castigo corporale e mentale autoinflitto. In realtà l’origine della parola sanscrita evoca più un senso di calore, calore che brucia le impurità. Questo calore può essere prodotto internamente, con la castità, con alcune tecniche di Pranayama, con la concentrazione estrema, o utilizzando il calore di fonti esterne, come il sole.

Una delle Tapas più estreme, praticabile solamente dai Sadhu, eremiti che hanno rinunciato al mondo, e dagli Yogi molto avanzati, è detta Panchagni Tapasyam, l’austerità dei cinque fuochi. Essa consiste nel sedersi in mezzo a quattro fuochi accesi, con il sole come quinto fuoco. Avendo imparato a sopportare il calore estremo dei cinque fuochi esterni, si affrontano i cinque fuochi che divampano dentro di noi: kama (passione), krodha (ira), lobha (avidità), moha (attaccamento) e matsara (invidia). Proprio perché si medita su questi cinque fuochi interni, che vengono conosciuti e sconfitti, questa pratica è detta anche Panchagni Vidya, la conoscenza dei cinque fuochi.

In India il fuoco ha una parte così importante in tutte le funzioni e in tutti i riti sacri, che non poteva mancare anche una divinità del fuoco: Agni; e Agni è anche uno dei Mahabhuta, i cinque elementi che compongono Prakriti, la Natura. Il fuoco è anche il simbolo della ricerca spirituale perché, oltre a distruggere le impurità, tende sempre verso l’alto. Il fuoco è inoltre inseparabilmente legato alla luce, che rappresenta Vidya, la conoscenza spirituale che disperde le tenebre dell’ignoranza. Durante la cerimonia dell’Arati, l’offerta della luce ai vari aspetti del Divino, la luce stessa viene prodotta bruciando cristalli di canfora, la cui caratteristica è quella di consumarsi completamente, senza lasciare residui della combustione, così come del Jiva non resta assolutamente più nulla dopo aver raggiunto il Samadhi, l’illuminazione, e la conseguente liberazione dal ciclo del Samsara.

In molti templi indiani, ogni giorno viene celebrato l’Homa, l’offerta rituale del fuoco, che una volta acceso con rametti e piccoli pezzi di legno secchi, viene alimentato versando del ghee, il burro chiarificato. Il parallelo tra l’offerta del burro nel fuoco sacrificale e la digestione del cibo che mangiamo ad opera del fuoco gastrico è resa in forma quasi poetica nella Bhagavad Gita: “ Brahma è l’offerta; Brahma è il burro chiarificato; da Brahman l’oblazione è versata nel fuoco di Brahman; in verità Brahman sarà raggiunto da colui che vede sempre Brahman in azione.” B.G. IV, 24. Questo sloka viene solitamente recitato dagli Yogi prima dei pasti, proprio per ricordare che ogni gesto, anche il più semplice, come quello di mangiare, va ricondotto ad una forma di preghiera, di offerta rituale a Brahman.     

Nel Sadhana Pada, il secondo capitolo degli Yoga Sutra,  Patanjali nomina due volte la parola Tapas, la prima volta nel primo sutra e la seconda nel 43°, quando descrive i dieci Yama e Niyama. Nel primo verso ci dice che tutto il Kriya Yoga, lo Yoga dell’azione, quindi la Sadhana attiva, si basa su Tapas, Swadaya e Ishvara-pranidhana, che sono gli ultimi tre Niyama, ma che in questo contesto vanno letti con un significato più ampio ed elevato. Se nel 43° sutra ci dice che “Con la pratica delle austerità si distruggono le impurità e si ottiene la perfezione del corpo e degli organi di senso”, nel 1° verso ci insegna che queste tre pratiche, da sole, costituiscono il Kriya Yoga.

La pratica dell’austerità certamente serve a rafforzare il corpo e a controllare i sensi, l’uno e gli altri pesanti ostacoli sulla via della meditazione; ci insegna ad alzare notevolmente la nostra soglia di sopportazione, al dolore fisico e a quello mentale, al caldo e al freddo, alle emozioni e a tutto ciò che in genere produce la mente elaborando le acquisizioni dei sensi. In questo senso Tapasya è strettamente imparentato con Titiksha, la forza di sopportazione alle coppie di opposti, come caldo e freddo o dolore e piacere. La pratica delle Tapas oltre che a rafforzarci fisicamente e mentalmente, ci conduce sempre più verso Vairagya, il distacco dalle cose della natura sensibile. D’altronde Vairagya è un po’ il punto di snodo verso cui convergono tutte le varie parti della Sadhana, anche perché senza averla acquisita in maniera abbastanza stabile sarà difficile, forse impossibile, qualsiasi ulteriore progresso spirituale.

Un aspetto molto importante perché la pratica di Tapas non assuma un aspetto di gratuita mortificazione del corpo o di tortura mentale, è la moderazione. Per un aspirante Yogi sarà già difficile rinunciare alle sigarette o alla carne, figuriamoci digiunare per un mese o camminare sui carboni ardenti. Ogni cosa va fatta con misura. Trasformare una pratica altamente spirituale in una gara di sopravvivenza è solo una gratificazione del proprio Io. I grandi Maestri indiani hanno condotto esistenze estremamente sobrie, di totale semplicità, senza per questo sentire mai il bisogno di infierire contro il proprio corpo.

Lo stesso Krishna dice: “ Gli esseri terribilmente austeri, pieni di ipocrisia, egoismo, violenza, cupidigia e passione, privi di ragione tormentano gli elementi del corpo e mortificano anche me che dimoro nel loro corpo. Sappi che la mente di queste persone è dominata dall’oscurità.” B.G. XVII, 5-6. E precedentemente aveva detto: “Qualunque cosa tu faccia, o mangi o doni, o offra in sacrificio, o qualunque austerità tu compia, falla come un’offerta a Me.” IX, 27. Quindi, Tapas come disciplina, come estirpazione dei frutti dei desideri attraverso la fiamma della devozione e dell’offerta al Divino, non come dimostrazione di forza e di vano stoicismo. Ricordando sempre che lo scopo ultimo di tutto il lavoro dello Yogi è la Conoscenza, e che la Conoscenza è lo strumento supremo che conduce all’unione col Divino.

“ Come il fuoco ardente riduce in cenere la legna, così il fuoco della conoscenza (jnana) riduce in cenere tutte le azioni. Su questa terra non vi è nulla che purifichi più della conoscenza; col tempo, chi si perfeziona nello Yoga apprenderà ciò in se stesso.” B.G. IV, 37-38.

Paolo Quircio
Roma, 27-06-2018

 
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