di Paolo Quircio
“La pratica dell’appagamento conduce ad una felicità estrema”, Yoga Sutra, II, 42.
Santosha, appagamento, è il secondo
Niyama del sistema del Raja Yoga di Patanjali Maharishi. La somiglianza tra questo
sutra e l’adagio popolare ‘chi si contenta gode’ non può non saltare agli occhi. Sia l’uno che l’altro sono un evidente inno ad una vita vissuta con semplicità, senza inutili fronzoli, anche se nel
sutra troviamo dei punti che lo pongono su un piano assai diverso da quello del proverbio. Credo sia utile sottolinearne due in particolare. Il primo è il concetto di appagamento,
Santosha appunto, che non ha quel tocco di supina, paziente remissività, del ‘contentarsi’; esso è piuttosto la conseguenza di un lavoro spirituale già iniziato e che, attraverso la pratica di
Santosha, prosegue nel suo percorso di purificazione, di sgrossamento che rende l’aspirante pronto a un ulteriore passo in avanti, lo prepara alle pratiche legate agli altri sei
anga del Raja Yoga.
Appagamento vuol dire essere felici con ciò che si ha, ma, soprattutto, essere felici a prescindere da ciò che si ha, perché
Santosha ci insegna che la felicità non dipende dal possesso di beni di vario genere. Ci insegna che la felicità è in realtà la nostra vera natura e che soltanto la nostra ignoranza spirituale,
Avidya, ci fa credere che essa dipenda invece da agenti esterni.
Santosha agisce a monte, perché va a toccare direttamente quello che tutti gli
Shastra, i testi sapienziali, riconoscono come causa prima di ogni sofferenza: il desiderio. Nel terzo discorso della Bhagavad Gita, Arjuna chiede: “Dimmi, o Krishna, da che cosa l’uomo è forzatamente spinto, anche contro la sua volontà?” e Krishna risponde: “Dal desiderio (
kama) e dalla collera (
krodhah): entrambi nati dal
Rajas, l’uno colmo di brama e l’altro colmo di odio. Sappi che nel mondo la passione (
Rajas) è il nostro avversario. Come il fuoco è oscurato dal fumo, come lo specchio è velato dalla polvere, come il feto è ricoperto dalla placenta, così la saggezza è coperta dal
Rajas.” B.G III, 36-38.
Kama e
Krodha sono le due estensioni, le due manifestazioni estreme di
Raga e
Dvesha, attrazione e repulsione, due dei cinque
Klesha, le cinque afflizioni che rendono dolorosa la vita degli umani. Sempre a causa dell’erronea identificazione con il complesso corpo-
prana-mente, con quegli attributi fisici e mentali che avvolgono il nostro
Atman, la nostra essenza spirituale, divina, e ce lo nascondono, come il fumo nasconde il fuoco.
Avevamo già visto, analizzando i
sutra precedenti, come ogni
Yama e ogni
Niyama racchiudano in sé l’intera
Sadhana, come in ognuno di essi sia rappresentato, con un angolo di visuale diverso, l’intero percorso di purificazione necessario per raggiungere la concentrazione su un solo punto,
ekagrata, la meditazione,
Dhyana, e quindi il
Samadhi, la
trance estatica, la presa di consapevolezza dell’unione del proprio Sé con il Sé Cosmico. Arjuna, prima ancora di saperne la causa, si rende conto che il
Jiva ‘è forzatamente spinto, anche contro la sua volontà’ da qualche forza che egli non riesce a capire e che Krishna gli rivelerà essere il desiderio. Quel ‘forzatamente spinto, anche contro la sua volontà’ ci dà l’idea della forza terribile del desiderio.
Ma anche il desiderio, fonte di ogni dolore, è sottoposto alle regole dei
Guna, le tre qualità che pervadono e caratterizzano l’intero Creato, inclusi i
Jiva. “Sappi che la passione (
Rajas) è il nostro avversario”, è il fumo che ci impedisce di vedere il fuoco della saggezza, della Conoscenza. La passione, sia quando attrae che quando rifugge, accieca. Quando si è pervasi in maniera eccessiva da
Rajas, la mente si annebbia, commettiamo errori anche molto gravi, di cui, una volta tornata la quiete mentale, ci pentiamo amaramente.
L’intera
Sadhana in realtà, attraverso le sue tante forme, conduce sempre ad uno spostamento del
Guna prevalente in noi. La persona letargica, tendente all’inattività, avrà bisogno di
Rajas per scrollarsi di dosso l’eccesso di
Tamas che lo rende pigro; la persona iperattiva, passionale, facile preda di emozioni e d’ira, dovrà sforzarsi di trasformare l’eccesso di
Rajas in
Sattva, la qualità più pura e più leggera. Una volta che, grazie a tutte le pratiche combinate insieme, il
Guna prevalente diventa via via quello più puro, allora il
Jiva potrà iniziare la parte più sottile ed importante della sua
Sadhana.
Lo stesso desiderio, in sé fonte di guai, soprattutto quando è intessuto di
Tamas e di
Rajas, assume una diversa connotazione quando è pervaso di
Sattva, perché diventa
Mumukshutva, l’ardente desiderio di unione al Divino, di liberazione dal
Samsara, il ciclo di nascite e morti, di liberazione definitiva da questa prigione di carne e mente che tiene in trappola il nostro divino
Atman. È importante sottolineare che anche
Mumukshutva, in quanto desiderio e quindi fonte di attaccamento, va abbandonato ad un certo punto della pratica spirituale.
I
Guna sono parte di
Prakriti, la Natura sensibile, anzi, ne sono l’essenza, e inevitabilmente portano attaccamento,
Tamas all’inattività,
Rajas alla passione, e
Sattva alla felicità. Qualsiasi forma di attaccamento, anche la più elevata, fa sì che le nostre azioni producano nuovo
Karma, costringendosi a restare nel
Samsara, il ciclo di nascite e morti.
Ritorno ancora una volta a quel ‘forzatamente spinto, anche contro la sua volontà’. È un’espressione che dà l’idea di una forza che, oltre che di straordinaria potenza, sembra essere esterna all’individuo, una sorta di possessione demoniaca. E in effetti tale è la potenza di
Vidya, L’iconografia tradizionale dipinge il demonio come un essere mostruoso, con tanto di coda e corna; questo sia in Occidente che in Oriente. Gli
Asura, i demoni della mitologia indiana, sono orrendi all’aspetto, astuti e crudeli, violenti e volgari; sono la massima espressione antropomorfizzata del disordine e della disarmonia del male. È inutile cercare il demonio chissà dove, ognuno di noi è pieno di grandi o piccoli caos, di astuzie e crudeltà, di indifferenza, che è l’aspetto
Tamas della crudeltà attiva, ma non per questo meno dannoso.
La Dea
Kali, uno degli aspetti femminili del Divino, è solitamente raffigurata in modo piuttosto impressionante, persino pauroso: il portamento fiero e feroce, la lingua rossa di sangue protesa fuori dalla bocca, la spada sguainata grondante sangue, un gonnellino di braccia mozze e una collana di teste anch’esse mozze e anch’esse grondanti sangue. Se però andiamo a vedere il simbolismo che si cela dietro quest’immagine così cupa, così violenta, le cose cambiano radicalmente. L’aspetto fiero, spietato, è quello da tenere nei confronti dei ‘demoni’ dell’ignoranza, che ci ottenebrano e che dobbiamo assolutamente sconfiggere. Per mozzare le loro braccia e le loro teste, azione e pensiero, dobbiamo usare l’affilata, inesorabile spada di
Viveka, la discriminazione che ci permette di distinguere il reale,
Sat, dall’irreale,
Asat.
L’immagine di
Kali ha anche molti altri significati, legati soprattutto allo scorrere del tempo e alla fine ed inizio dei cicli cosmici, ma in questa sede ci interessava mettere in luce quelli legati alla lotta senza quartiere ai ‘demoni’ interni, presenti in ogni
Jiva, quelli da cui bisogna separarsi, purificarsi, se si vuole intraprendere con successo un serio percorso di evoluzione spirituale.
Quindi, per tornare a
Santosha, abbiamo visto come non sia affatto un’esortazione alla rassegnata passività, ma una decisa presa di coscienza, sostenuta da una ferrea volontà e da quell’unico desiderio di puro
Sattva,
Mumushuktva, il desiderio della liberazione, che si dovrà abbandonare solo alla soglia del
Samadhi.
Santosha, insegna Patanjali, ci conduce ad una felicità estrema. Estrema vuol dire che non può essere superata, e qual è quella felicità che non può essere superata, se non
Ananda, la Divina Beatitudine derivante dall’essere diventati Pura Consapevolezza, Pura Unione col Divino
Brahman?
Se
Santosha va a colpire i desideri alla loro radice, il
Niyama seguente
, Tapas, o
Tapasya, intende prendersi cura dei desideri che si sono già mostrati e radicati nel
Jiva.
Tapas viene solitamente tradotto con ‘austerità’, ‘mortificazione’ o anche ‘ascesi’ , una sorta di castigo corporale e mentale autoinflitto. In realtà l’origine della parola sanscrita evoca più un senso di calore, calore che brucia le impurità. Questo calore può essere prodotto internamente, con la castità, con alcune tecniche di
Pranayama, con la concentrazione estrema, o utilizzando il calore di fonti esterne, come il sole.
Una delle
Tapas più estreme, praticabile solamente dai
Sadhu, eremiti che hanno rinunciato al mondo, e dagli Yogi molto avanzati, è detta
Panchagni Tapasyam, l’austerità dei cinque fuochi. Essa consiste nel sedersi in mezzo a quattro fuochi accesi, con il sole come quinto fuoco. Avendo imparato a sopportare il calore estremo dei cinque fuochi esterni, si affrontano i cinque fuochi che divampano dentro di noi:
kama (passione),
krodha (ira),
lobha (avidità),
moha (attaccamento) e
matsara (invidia). Proprio perché si medita su questi cinque fuochi interni, che vengono conosciuti e sconfitti, questa pratica è detta anche
Panchagni Vidya, la conoscenza dei cinque fuochi.
In India il fuoco ha una parte così importante in tutte le funzioni e in tutti i riti sacri, che non poteva mancare anche una divinità del fuoco:
Agni; e
Agni è anche uno dei
Mahabhuta, i cinque elementi che compongono
Prakriti, la Natura. Il fuoco è anche il simbolo della ricerca spirituale perché, oltre a distruggere le impurità, tende sempre verso l’alto. Il fuoco è inoltre inseparabilmente legato alla luce, che rappresenta
Vidya, la conoscenza spirituale che disperde le tenebre dell’ignoranza. Durante la cerimonia dell’A
rati, l’offerta della luce ai vari aspetti del Divino, la luce stessa viene prodotta bruciando cristalli di canfora, la cui caratteristica è quella di consumarsi completamente, senza lasciare residui della combustione, così come del
Jiva non resta assolutamente più nulla dopo aver raggiunto il
Samadhi, l’illuminazione, e la conseguente liberazione dal ciclo del
Samsara.
In molti templi indiani, ogni giorno viene celebrato l’
Homa, l’offerta rituale del fuoco, che una volta acceso con rametti e piccoli pezzi di legno secchi, viene alimentato versando del
ghee, il burro chiarificato. Il parallelo tra l’offerta del burro nel fuoco sacrificale e la digestione del cibo che mangiamo ad opera del fuoco gastrico è resa in forma quasi poetica nella Bhagavad Gita: “
Brahma è l’offerta;
Brahma è il burro chiarificato; da
Brahman l’oblazione è versata nel fuoco di
Brahman; in verità
Brahman sarà raggiunto da colui che vede sempre
Brahman in azione.” B.G. IV, 24. Questo
sloka viene solitamente recitato dagli Yogi prima dei pasti, proprio per ricordare che ogni gesto, anche il più semplice, come quello di mangiare, va ricondotto ad una forma di preghiera, di offerta rituale a
Brahman.
Nel
Sadhana Pada, il secondo capitolo degli Yoga Sutra, Patanjali nomina due volte la parola
Tapas, la prima volta nel primo
sutra e la seconda nel 43°, quando descrive i dieci
Yama e
Niyama. Nel primo verso ci dice che tutto il
Kriya Yoga, lo Yoga dell’azione, quindi la
Sadhana attiva, si basa su
Tapas,
Swadaya e
Ishvara-
pranidhana, che sono gli ultimi tre
Niyama, ma che in questo contesto vanno letti con un significato più ampio ed elevato. Se nel 43°
sutra ci dice che “Con la pratica delle austerità si distruggono le impurità e si ottiene la perfezione del corpo e degli organi di senso”, nel 1° verso ci insegna che queste tre pratiche, da sole, costituiscono il
Kriya Yoga.
La pratica dell’austerità certamente serve a rafforzare il corpo e a controllare i sensi, l’uno e gli altri pesanti ostacoli sulla via della meditazione; ci insegna ad alzare notevolmente la nostra soglia di sopportazione, al dolore fisico e a quello mentale, al caldo e al freddo, alle emozioni e a tutto ciò che in genere produce la mente elaborando le acquisizioni dei sensi. In questo senso
Tapasya è strettamente imparentato con
Titiksha, la forza di sopportazione alle coppie di opposti, come caldo e freddo o dolore e piacere. La pratica delle
Tapas oltre che a rafforzarci fisicamente e mentalmente, ci conduce sempre più verso
Vairagya, il distacco dalle cose della natura sensibile. D’altronde
Vairagya è un po’ il punto di snodo verso cui convergono tutte le varie parti della
Sadhana, anche perché senza averla acquisita in maniera abbastanza stabile sarà difficile, forse impossibile, qualsiasi ulteriore progresso spirituale.
Un aspetto molto importante perché la pratica di
Tapas non assuma un aspetto di gratuita mortificazione del corpo o di tortura mentale, è la moderazione. Per un aspirante Yogi sarà già difficile rinunciare alle sigarette o alla carne, figuriamoci digiunare per un mese o camminare sui carboni ardenti. Ogni cosa va fatta con misura. Trasformare una pratica altamente spirituale in una gara di sopravvivenza è solo una gratificazione del proprio Io. I grandi Maestri indiani hanno condotto esistenze estremamente sobrie, di totale semplicità, senza per questo sentire mai il bisogno di infierire contro il proprio corpo.
Lo stesso Krishna dice: “ Gli esseri terribilmente austeri, pieni di ipocrisia, egoismo, violenza, cupidigia e passione, privi di ragione tormentano gli elementi del corpo e mortificano anche me che dimoro nel loro corpo. Sappi che la mente di queste persone è dominata dall’oscurità.” B.G. XVII, 5-6. E precedentemente aveva detto: “Qualunque cosa tu faccia, o mangi o doni, o offra in sacrificio, o qualunque austerità tu compia, falla come un’offerta a Me.” IX, 27. Quindi,
Tapas come disciplina, come estirpazione dei frutti dei desideri attraverso la fiamma della devozione e dell’offerta al Divino, non come dimostrazione di forza e di vano stoicismo. Ricordando sempre che lo scopo ultimo di tutto il lavoro dello Yogi è la Conoscenza, e che la Conoscenza è lo strumento supremo che conduce all’unione col Divino.
“ Come il fuoco ardente riduce in cenere la legna, così il fuoco della conoscenza (
jnana) riduce in cenere tutte le azioni. Su questa terra non vi è nulla che purifichi più della conoscenza; col tempo, chi si perfeziona nello Yoga apprenderà ciò in se stesso.” B.G. IV, 37-38.
Paolo Quircio
Roma, 27-06-2018
FioriGialli © Tutti i diritti riservati.
E' fatto divieto di pubblicazione sia totale che parziale in altra sede senza una ns. specifica autorizzazione. I trasgressori saranno perseguiti a norma di legge.