di Paolo Quircio
Il quinto ed ultimo
Yama è
Aparigraha.
Parigraha vuol dire bramosia, desiderio di possesso, e il prefisso negativo
a indica il contrario; quindi mancanza di bramosia e di desiderio di possesso. Abbiamo detto in precedenza che nulla in Patanjali è casuale, né le parole, scelte sempre con grande accuratezza, data anche l’estrema stringatezza del testo, né la collocazione degli argomenti nell’ambito della Scrittura. Gli
Yama e i
Niyama fanno parte del
Sadhana Pada, il secondo capitolo dei
Sutra.
Dopo aver descritto, nel primo capitolo,
Samadhi Pada, gli obiettivi dello Yoga, nel secondo Patanjali illustra prima gli ostacoli che si frappongono tra l’aspirante e il suo scopo, il
Samadhi, l’illuminazione, e quindi i modi per superarli. La
Sadhana indicata da Patanjali è un percorso lineare quanto mai logico che l’aspirante segue passo dopo passo, preso per mano dal Maharishi.
Innanzitutto,
sutra 1 e 2, ci spiega che il
Kriya Yoga, lo Yoga pratico, è composto da purificazione, introspezione e abbandono al Divino, e questo Yoga pratico serve a rendere sempre maggiore la consapevolezza della meta, il
Samadhi, e rendere più esili le afflizioni che ne ostacolano il conseguimento. Questa premessa è di fondamentale importanza, soprattutto per quanti ritengano lo Yoga una filosofia e, in quanto tale, soprattutto nel concetto che abbiamo noi Occidentali della filosofia, abbastanza fine a se stessa, un esercizio dialettico e cerebrale staccato dalla vita reale. Il Raja Yoga non è una filosofia, è una straordinaria tecnica di conoscenza di sé, che ci porta sempre più in profondità, fino ad arrivare a conoscere il Sé, il divino che è la nostra vera essenza.
I
sutra 3-9 descrivono quindi queste afflizioni, i cinque
Klesha, che nello specifico sono:
Avidya, l’ignoranza spirituale responsabile dell’erronea identificazione con il complesso corpo-
prana-mente, di natura transitoria, invece che con l’
Atman, eterno e immutabile. Questo senso dell’io separato dal Tutto è
Asmita, il secondo
Klesha. Da
Asmita derivano
Raga e
Dvesha, attrazione e repulsione. Attrazione verso quelle cose che nella nostra ignoranza pensiamo possano darci la felicità e repulsione per tutte le cose che altrettanto scioccamente riteniamo ci diano dolore. Il tutto senza mai renderci conto che la felicità può essere trovata solo dentro di noi e che l’unica fonte del dolore è la mancanza di consapevolezza di ciò.
Infine la più grande di tutte le
Dvesha, la paura della morte e il morboso attaccamento alla vita; la paura di perdere la cosa più preziosa che pensiamo di possedere: il nostro corpo.
Sarira parigraha duhkham eva, dicono gli
Shastra, ‘il possesso del corpo è certezza di dolore’. Ma noi siamo affezionati a quel corpo e, in una sorte di sindrome di Stoccolma spirituale, ne diventiamo succubi, pronti a qualsiasi sacrificio per soddisfare le sue necessità, o meglio, le sue voglie. Nei due
sutra seguenti, 10 e 11, viene spiegato come i
Klesha possano essere dapprima assottigliati e quindi eliminati del tutto tramite l’esercizio della meditazione. I cinque
Klesha sono presenti in quattro stati di intensità: latenti, tenui, alternati e in piena attività.
La meditazione dovrebbe essere mirata, oltre che alla ricerca di unità col Divino, all’introspezione, all’analisi dei nostri stati mentali. Solo così sarà possibile riconoscere gli errori della mente che producono in noi inesauribile dolore e, per involuzione, passando cioè a ritroso dalla paura della morte ad
Avidya, l’ignoranza spirituale, si potranno portare i
Klesha dallo stato manifesto, gradualmente a quello latente, fino a bruciarli del tutto ed evitare che i loro semi possano germogliare inaspettatamente in qualche fessura della nostra mente, conscia o subconscia.
Patanjali passa quindi a spiegare,
sutra 12-14, come la legge del
Karma dipende dal dolore e al contempo ne produce. Il nostro modo di sottostare ai
Klesha ci porta ad arricchire continuamente il
Karmashaya, il magazzino karmico. Le azioni, ma anche i pensieri, dettate dall’ignoranza spirituale e da ciò che ne consegue, producono
Samskara, impressioni mentali che ci trasciniamo dietro da una vita all’altra. Questi
Samskara a loro volta producono nuovo
Karma, tenendoci legati al ciclo di nascite e morti, fonte di nuovo dolore.
Un circolo vizioso da cui solo una pratica spirituale intensa ci può liberare. Nel
sutra 14 viene detto che, a seconda delle nostre azioni passate, meritevoli o meno, il
Karma può dare frutti di felicità o di dolore. Ma immediatamente dopo,
sutra 15, ci viene ricordato che dolore e piacere sono due facce della stessa medaglia e che una persona dotata di
Viveka, la capacità di discriminare, di distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, ciò che è eterno, immutabile da ciò che è destinato a finire, sa che tutto ciò che è legato al mondo dell’apparenza, di
Maya, è inesorabilmente fonte di dolore.
Patanjali individua le cause di questo inevitabile dolore nel cambiamento,
parinama, a cui tutto è soggetto in
Prakriti, la Natura, che è in costante mutazione; all’ansia,
tapa, che deriva dalla paura di perdere ciò che abbiamo acquisito; dall’abitudine,
samskara, che ci rende presto stanchi di tutti i piaceri che pure avevamo tanto desiderato, innescando un’incessante ricerca di godimenti sempre nuovi. A queste tre cause si aggiunga poi il continuo conflitto tra le attitudini della mente e i
Guna, le tre qualità di cui siamo composti.
Questo conflitto si trasforma sempre in una lotta tra desiderio e necessità, tra volere e dovere, che crea dolorosi dissidi interni, ambizioni frustrate e insoddisfazione profonda. Infine, nel
sutra 16 ci viene detto che la sofferenza futura va evitata. Sembra banale, ma non lo è. Non riusciremo mai ad evitare di costruire, col nostro comportamento di oggi, le sofferenze di domani, finché non avremo raggiunto un serio livello di consapevolezza della nostra vera, profonda natura. Finché non avremo raggiunto un serio livello di discriminazione, di
Vairagya, la capacità di separare il reale dall’irreale, il
Dharma dall’
Adharma.
Evitare la sofferenza futura vuol dire capire a pieno non solo la legge del
Karma, ma l’intero senso dell’esistenza e, di conseguenza, cambiare radicalmente il nostro modo di vivere. E qui,
sutra 17-28, Patanjali entra un po’ più nel dettaglio, spiegando che la causa di ciò che dovremmo evitare, l’
Agami Karma, il
Karma delle vite future che creiamo in quella attuale, è l’unione di
Drashta, chi vede, e
Drishya, ciò che viene visto, ovvero tra
Purusha, la parte divina di noi, e il complesso corpo-
prana-mente, composto dai cinque elementi, dai tre
Guna e dagli organi di percezione e di attività.
Un concetto analogo, anzi identico, a quello esposto nel XIII discorso della Bhagavad Gita, in cui Krishna usa, per descrivere le due entità, le parole
Kshetra, campo, e
Kshetrajna, conoscitore del campo. Proprio perché il complesso corpo-
prana-mente, come un campo, dà i suoi frutti, di cui saremo inevitabilmente costretti a usufruire nelle vite successive. Pur essendo
Drashta pura consapevolezza, essa ha bisogno di una struttura grossolana per essere in contatto con il mondo manifestato, e questa struttura è la mente. Ma come la luce che passa attraverso un paralume colorato ne assume il colore, così la coscienza di
Purusha, manifestandosi attraverso la mente, ne assume la ‘colorazione’.
Lo scopo di questa unione, causata da
Avidya, è solo quello di portare il
Jivatma, l’
Atman incarnato, alla liberazione dal ciclo di nascite e morti. Ma perché questo scopo possa essere raggiunto bisogna eliminare
Avidya, e lo strumento per eliminarla è
Vivekakhyati, la profonda, indisturbata consapevolezza discriminante; combinazione di coscienza profonda e di discriminazione tra reale e irreale, in cui l’una, la coscienza, alimenta l’altra, la discriminazione, e viceversa. È una forma di conoscenza che non si può ottenere con i sensi, né con la mente o con l’intelletto.
Nel suo “
Quattro Capitoli sulla Libertà”, lo splendido commentario degli
Yoga Sutra, Swami Satyananda, uno dei migliori discepoli di Swami Sivananda Saraswati e fondatore della Bihar School of Yoga, spiega che come non si può pesare la Terra su una bilancia, ma se ne può calcolare il peso con il calcolo matematico; non si può misurare la distanza tra il sole e la Terra con un metro, ma si può dedurre dalla conoscenza delle leggi della fisica, così la conoscenza del Divino e l’eliminazione dell’ignoranza spirituale si possono raggiungere solo con l’introspezione, con la meditazione e la ricerca interiore. Si dice che quando si pratica la meditazione da un bel po’ di tempo, il praticante diventa
Vidya Peetha, sede di conoscenza.
Una conoscenza inizialmente solo parziale, che nel corso del progresso spirituale, della presa di coscienza della propria vera natura, si trasforma in vera e propria onniscienza. Come un bambino prodigio sa fare cose che non ha mai imparato in questa vita, perché attinge da conoscenze acquisite nelle vite precedenti, così chi ha raggiunto l’Illuminazione ha la capacità di attingere alle conoscenze cosmiche con cui è entrato in contatto o, per essere più precisi, di cui è diventato parte o, per essere ancora più precisi, di cui si è finalmente reso conto di essere parte.
Infine, prima di enumerare le otto parti del Raja Yoga, che poi andrà a spiegare più in dettaglio, Patanjali ci ricorda che: “Con la pratica delle (otto) parti dello Yoga le impurità diminuiscono e l’ascesa della conoscenza spirituale culmina nella consapevolezza della realtà.” Y.S., II, 28. E quindi che
l’Ashtanga Yoga, lo Yoga delle otto parti, è lo strumento che ci porta fuori da Avidya, e ci dona il
Samadhi, l’illuminazione. È importante sottolineare che le otto parti si dividono in
Bahiranga, l’aspetto esterno, e
Antaranga, la parte interiore.
Bahiranga sono
Yama,
Niyama,
Asana,
Pranayama e
Pratyahara, discipline che hanno a che fare soprattutto con il corpo, con il
prana e con i sensi. Sono
Antaranga le rimanenti tre,
Dharana, concentrazione,
Dhyana, meditazione, e
Samadhi, illuminazione.
Questa divisione tra le varie parti, tra gli otto gradini dello Yoga è importante perché ci dà il giusto ritmo di apprendimento. Solo pochi nascono già pronti per gli ultimi gradini del Raja Yoga. Per la maggior parte di noi, il percorso di purificazione e di padronanza di corpo,
prana, sensi e mente inferiore è assolutamente necessario. Tentare di bruciare le tappe, cercando di anticipare livelli più elevati di quelli per cui siamo pronti, può essere come minimo inutile, ma il più delle volte si rivela dannoso, se non disastroso.
Si dice che ci si avvicina allo Yoga dopo 1008 nascite umane. Abbiamo aspettato tanto per cominciare il cammino spirituale, perché avere fretta proprio adesso e rischiare di rovinare tutto?
Tutta questa lunga introduzione per capire la sistematicità del pensiero yogico. Ma anche perché nel
sutra in cui parla di
Aparigraha, Patanjali fa un’affermazione che sarebbe abbastanza difficile da comprendere senza la lunga premessa appena conclusa. Egli dice infatti: “Quando si diventa stabili in
Aparigraha, allora sorge la conoscenza delle vite passate e future”.
Abbiamo detto che nulla nei
Sutra di Patanjali è causale; infatti, dopo aver iniziato il processo di purificazione, di rimozione delle scorie grossolane tramite i primi quattro
Yama, arriviamo all’ultimo, che va a colpire direttamente alla radice tutta la grossolanità del nostro essere: il desiderio di possesso.
Parigraha, il desiderio di possesso, altro non è che il tentativo, la volontà di trasformare ogni oggetto in ‘mio’; e cos’è ‘mio’ se non la proiezione all’esterno di ‘io’? Il desiderio di includere nel proprio ‘io’ grossolano tutto quello che è alla portata dei nostri sensi.
Al nostro io ipertrofico non basta più se stesso, allora ha bisogno di nutrirsi inglobando ciò che è alla sua portata e che, nel suo delirio dettato da
Avidya, crede possa gratificarlo e dargli quella felicità che in realtà già possiede, ma di cui, proprio a causa di
Avidya, non è cosciente. E allora cerca di arraffare, in una sorta di bulimia esistenziale, denaro, sesso, potere, oggetti di consumo, qualsiasi cosa dia un po’ di sollievo a quel senso di profondo dolore, di vacuità, di insensatezza di una vita vissuta esclusivamente, o quasi, nel cercare di soddisfare i propri desideri materiali.
D'altronde, cosa ci spinge alla violenza,
Hisma, alla falsità, a impossessarci di ciò che non ci appartiene,
Steya, di fare del sesso un perno intorno al quale ruota tutta la vita, se non
Parigraha, il desiderio di possesso?
Nella Gita, Arjuna chiede a Krishna: “Ma costretto da cosa un uomo commette peccato, sebbene contro la sua volontà, O Krishna, obbligato come per forza?” B.G. III, 36. E Krishna,
Jagadguru, il Maestro Universale, risponde: “È il desiderio, l’ira nata dalla qualità
Rajas, malefica e che tutto divora; conoscilo come il tuo nemico che è qui, in questo mondo. Come il fuoco è avvolto dal fumo, come lo specchio dalla polvere e come un embrione dalla membrana, così questo è avvolto da quello. O Arjuna, la saggezza è avviluppata da questo costante nemico del saggio nella forma del desiderio, che è implacabile come il fuoco” B.G. III, 37-39. Nel
Manusmriti, la Legge di Manu, troviamo anche: “Il desiderio non può essere mai saziato o raffreddato dal godimento degli oggetti. Proprio come il fuoco si sprigiona più forte quando è alimentato da burro o legno, così anche il desiderio è alimentato quando è alimentato dagli oggetti del desiderio.”
Il desiderio, secondo tutti i testi indiani, è la fonte di tutti i guai, è una sorta di gorgo che alimenta se stesso incessantemente. Esso va sradicato alla base. Più pratichiamo l’introspezione, più capiamo chi siamo veramente, più ci avviciniamo all’eliminazione dei desideri. È un processo lungo e impegnativo, a volte anche doloroso, che richiede notevole determinazione e forza d’animo, ma
tertium non datur, non ci sono altre possibilità: restare appieno nel mondo sensibile, col suo dolore e la sua insensatezza, o tentare di uscirne. Patanjali ci indica la via, una via certo non facile, ma che è già stata percorsa da innumerevoli
Mahatma prima di noi. Essi ci hanno lasciato gli insegnamenti per percorrere la stessa via senza errori, basta seguire i loro insegnamenti illuminati e illuminanti.
Anche noi, sconfiggendo il desiderio, causa di ogni dolore, riusciremo non a conquistarci un posto in un ipotetico Paradiso di là da venire, ma riusciremo a vivere,
hic et nunc, una vita serena, piena, consapevole della nostra vera identità e del ruolo che abbiamo in questa vita e in questo mondo. E man mano che questa consapevolezza cresce e si approfondisce, diventeremo anche noi capaci di capire le nostre vite precedenti e quelle che seguiranno. Swami Satyananda dice: “Quando questa
Sadhana (
Aparigraha) è fermamente stabilita, l’aspirante può conoscere la nascita precedente, il suo genere, il suo tempo e la sua ragione. Analogamente, si può conoscere la nascita successiva. Così come vedendo una nuvola sapete che pioverà, allo stesso modo, saprete della nascita precedente e delle successiva essendo fermamente stabiliti in
Aparigraha.”
Paolo Quircio
New Delhi, 12-05-2018