YAMA E NIYAMA 2
di Paolo Quircio
Sivananda nel capitolo di Bliss Divine - Il libro della beatitudine divina dedicato alla Verità ci dice: “La verità è la sede di Dio. La verità è Dio. Solo la verità trionfa. La verità è la legge di base della vita. La verità è il mezzo e lo scopo finale.La verità è la legge della libertà, la falsità la legge della schiavitù e della morte”.
E non potrebbe essere altrimenti, soprattutto se si pensa all’equivalente sanscrito della parola: Satya. La sua radice è Sat, che vuol dire reale, nel senso più profondo del termine. Nel Vedanta si considera reale ciò che lo è da sempre e per sempre, l’Atman, quindi non effimero e transitorio, come il nostro aggregato di corpo fisico, prana e mente, quelli che nello Yoga vengono definiti Upadhi, gli aggregati limitanti.
Che la verità sia una virtù esaltata e lodata in ogni genere di etica è cosa nota e abbastanza naturale, sia nell’etica ‘umana’ che in quella ‘divina’. In quella umana la sincerità propria presume, o quanto meno fa sperare, anche in quella altrui e, di conseguenza, in una correttezza e un’affidabilità delle relazioni interpersonali che sarebbero gravemente minate dalla mancanza di fiducia nel prossimo. Queste le linee generali, dovremmo dire teoriche, perché nella vita quotidiana la menzogna regna sovrana.
Non solo la falsità viene costantemente diffusa e spacciata per verità, ma se ne fa un uso sistematico di manipolazione delle menti altrui. Governanti, finanzieri, pubblicitari, rappresentanti del potere politico ed economico in genere, sono tutte categorie che vivono di fandonie, che basano il loro immenso potere sull’uso sistematico del falso. La divulgazione al pubblico di documenti segreti ha spesso rivelato come gli episodi che hanno causato alcune tra le più grandi tragedie della storia (dall’incendio del Reichstag all’incidente del golfo del Tonchino o alle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein), altro non fossero che menzogne appositamente costruite e abilmente diffuse.
Naturalmente questo uso continuo del falso non si limita ai cosiddetti ‘poteri forti’; anche nei rapporti interpersonali di lavoro, di amicizia, spesso anche in quelli familiari, ci si affida con regolarità al falso, si crea una sorta di realtà parallela, completamente avulsa dal vero, dal reale.
Un proverbio indiano dice che se si ammazza una zanzara, al suo funerale ne verranno altre mille. Ed è esattamente quello che succede con le bugie: se ne dice una; se si dimostra debole, se ne dice un’altra per rafforzare la precedente, e così via, in un crescendo inarrestabile in cui si perde completamente il senso di ciò che è vero. È proprio questo smarrimento del senso della realtà, questa impossibilità di discriminare il vero dal falso, di separare il ‘grano dal loglio’ il terreno fertile in cui nascono il dubbio, la paura, l’ansia, il dolore e l’infelicità.
Vivere in un mondo intessuto di falsità non è soltanto eticamente inaccettabile, ma, e qui veniamo all’etica ‘divina’, è spiritualmente distruttivo. Come si può soltanto concepire di intraprendere un percorso spirituale, di progressivo innalzamento del nostro livello vibratorio, se nascondiamo le nostre debolezze, o peggio, dietro la cortina fumogena della falsità? Perché in fondo la falsità altro non è che una difesa che si usa, fin troppo spesso, per nascondere debolezze, colpe o precedenti falsità, in una spirale perversa che va assolutamente spezzata, se si vuole progredire spiritualmente.
Per tornare alla prima frase di Swami Sivananda citata: “ La verità è il mezzo e lo scopo finale.” La verità è infatti un prezioso strumento di progressivo miglioramento, di costante purificazione dalla morchia della falsità. Ma, soprattutto, adottando la verità come indiscutibile e assoluto codice di comportamento, si riusciranno ad abbattere tutte le imperfezioni che cerchiamo di nascondere affermando il falso. Il motto apparentemente semplicissimo di Swami Sivananda era “Be good, do good”, sii buono, fai del bene. Chi si attiene a questa fondamentale regola non avrà mai bisogno di mentire. La bugia serve a nascondere ciò che non va in noi, i nostri cattivi pensieri, spesso seguiti da parole cattive e cattive azioni; le nostre paure e fragilità; il nostro egoismo e la nostra grettezza.
Affrontiamo la verità con coraggio, innanzitutto smettendo di mentire a noi stessi. Si dice che il coraggio chi non ce l’ha non se lo può inventare. Non è vero, nel modo più assoluto. Ricordiamo nuovamente cosa dice Patanjali: “Quando la mente è disturbata dalle passioni, si deve praticare ponderando su i loro opposti” Y.S. II, 33. E la paura non è che una passione, il cui opposto è il coraggio. Abbiamo paura di tante cose; cominciamo a sforzarci di superare la paura delle più piccole, per poi passare a quelle più importanti. Rendiamoci conto che la paura è un tarlo, un male che ci consuma da dentro e che è la manifestazione più evidente dell’attaccamento al complesso corpo-prana-mente dettato dall’Avidya, l’ignoranza spirituale.
Si può lavorare sulla causa, Avidya, con la pratica spirituale, con la meditazione e con lo studio degli Shastra, i testi sacri; ma allo stesso tempo si può agire anche partendo dai sintomi di Avidya: paura, ansia, falsità. Nessuno strumento è più efficace della verità nella lotta contro questi nemici interni, questi parassiti energetici e psichici che ci privano di tanta energia vitale e spesso ci rendono la vita impossibile, un vero inferno. Affrontiamo a viso aperto, impavidamente, queste piccole paure.
Ogni vittoria, anche la più piccola, ci confermerà nella giustezza del metodo, proveremo ad alzare l’asticella, e la supereremo di nuovo. Ci incammineremo con sempre maggiore sicurezza sulla strada che conduce alla Verità, all’unica reale divina essenza del nostro essere, l’ Atman. Solo dopo aver conseguito la verità, dopo averla trasformata nel nostro modo di vivere, potremo accingerci alla conquista di tutte le altre virtù che da essa derivano: coraggio, forza d’animo e dignità; ma anche compassione e perdono; sono tutte qualità che trovano la loro origine e la loro forza nella verità.
Una volta, in un’intervista, Bertrand Russell, il filosofo e matematico inglese, disse che era stato un bambino molto vivace e che sua madre gli proibiva di fare tutte quelle cose che lui desiderava tanto fare, in compagnia degli altri coetanei. Ovviamente lui quelle marachelle le faceva lo stesso e, per non incorrere nelle inevitabili punizioni, aveva preso l’abitudine di mentire a sua madre. L’abitudine si era radicata con così tanta forza, che il piccolo Bertrand mentiva anche quando non faceva niente di male. Questo succede molto più spesso di quanto si pensi; si inizia a mentire per coprire un fallo e si continua senza motivo, così, per abitudine, perché l’energia del falso si impossessa di noi senza che ce ne rendiamo conto.
In un precedente scritto 1 si è parlato dei quattro stadi del linguaggio; dal sottilissimo, causale, Para, fino al linguaggio udibile, fisico di Vaichara. Alla regola del percorso a ritroso della pratica spirituale, dal grossolano al sottile e dal sottile al causale, naturalmente non può sfuggire la ricerca della verità, anzi, in essa si concentra in maniera esemplare tutta la Sadhana, la via spirituale. Iniziando a dire fisicamente, verbalmente, il vero, la mente, Manas, si comincia a riabituare ad esso e a rifuggire il falso. Da qui, per progressivo affinamento dell’essere, l’abitudine alla verità si sposta alla mente intuitiva, superiore, Buddhi, e quindi nelle camere più interiori del nostro cuore. A contatto con il Sé, con la parte più intima e spirituale di noi, la verità diventa Verità, diventa Sat, l’unica realtà imperitura, è Brahman.
Lo Yoga è uno strumento estremamente potente. Definirlo una filosofia è forse riduttivo e dà, o potrebbe dare, l’idea di una conoscenza fine a se stessa. Al contrario, è una dottrina essenzialmente pratica, il cui scopo è condurre il praticante verso la liberazione dal dolore insito nel ciclo di nascite e morti. È una dottrina estremamente variegata e ricorda un po’ i frattali. Ogni sua parte, infatti, riproduce l’intero. Abbiamo appena visto come la pratica della verità non sia che un aspetto dell’intera Sadhana. Lo stesso vale anche per gli altri Yama, ognuno di essi è di per sé un percorso completo e gli altri non sono che ulteriori aspetti dello stesso percorso; in questo modo ognuno può trovare l’aspetto della pratica che meglio si adatta alla propria personalità e, pur senza mai trascurare gli altri aspetti, progredire.
Il terzo Yama è Asteya. Steya vuol dire ‘rubare’, a è negazione, quindi ‘non rubare’, non appropriarsi di ciò che non ci spetta di diritto. Anche in questo caso lo Yama coincide con precetti sociali molto diffusi sotto ogni cielo. È proverbiale la severità dell’Islam nei confronti del furto: “Tagliate la mano del ladro e della ladra, come punizione per ciò che hanno fatto”, Corano 5:38. Pene corporali o condanna a morte per i colpevoli del reato di furto sono state applicate un po’ ovunque fino a non tantissimo tempo fa anche qui in Europa, e in alcuni paesi, anche non islamici, sono ancora previste.
D’altronde, in un mondo che si basa sulla proprietà privata è fin troppo ovvio che il furto non sia tollerato e che venga considerato una minaccia all’intero assetto sociale. Ma siamo sempre nel campo di precetti che regolano la vita della comunità. Asteya, come detto in precedenza per tutti gli Yama, ha certamente una valenza pratica finalizzata alla pacifica convivenza, ma per il Sadhaka, il ricercatore spirituale, ha significati ben più profondi, di purificazione.
La causa motivante di Steya, infatti, altro non è che il desiderio di possesso, a qualunque costo. Asteya non è soltanto rubare nel senso più stretto della parola, Asteya è appropriarsi di ogni cosa che non è nostra per diritto naturale: non pagare le tasse, farci passare per ciò che non siamo, appropriarci di un’identità che non è nostra e così via. Più siamo legati agli oggetti che soddisfano i nostri sensi, più crediamo che il loro conseguimento ci renda felici. Naturalmente, come detto più volte in precedenza, questa erronea convinzione nasce dall’altrettanto erronea identificazione col complesso corpo-prana-mente.
Nella Bhagavad Gita Krishna spiega con chiarezza come il desiderio sia all’origine di ogni male: “Quando un uomo dedica la sua attenzione agli oggetti dei sensi, sviluppa attaccamento per essi. Dall’attaccamento nasce il desiderio e dal desiderio insoddisfatto la collera. Dalla collera nasce l’illusione, dall’illusione nasce la perdita della memoria, dalla perdita della memoria l’indebolimento della ragione. L’uomo privo di ragione corre verso la rovina. Ma colui che è padrone di sé, che si muove tra gli oggetti con i sensi pacificati, libero da attrazione e da repulsione, consegue la pace.” B.G. II, 62-64. Quando i nostri desideri ci ottenebrano la mente, siamo capaci di tutto, dimentichiamo il nostro codice etico e rubiamo; in vari modi, più o meno legalizzati, con varie sfumature (tra il rubare perché si ha fame e il rubare per affamare gli altri è chiaro che ci sono enormi differenze).
Come si è detto per Satya, anche Asteya in realtà non è il problema in sé, ma la sua manifestazione. Non basta la repressione del furto in quanto reato, la galera, il taglio della mano o l’impiccagione; per l’aspirante spirituale la questione fondamentale è quella della purificazione. Controllando il comportamento, non reprimendo, controllando, riusciamo a controllare la mente, inarrestabile macchina desiderante; acquietando la mente, acquietiamo tutto il nostro essere, elevando il livello di vibrazione e con esso il livello di consapevolezza.
Anche in Asteya quindi si nasconde l’intero percorso spirituale, l’intera Sadhana. Il necessario percorso di purificazione, come detto in precedenza per Satya, si può intraprendere sia agendo sulle cause, quindi Karma Yoga, meditazione, introspezione; sia agendo sulle manifestazioni, quindi cominciare a ridurre i desideri più grossolani, quelli che ci conducono a comportamenti più asociali, di prevaricazione, e poi via via affrontare la globalità del problema, anche nelle sue sfumature più sottili. All’inizio ci sembrerà tutto molto difficile, ma poi, man mano che il processo di purificazione comincerà a dare i suoi risultati tangibili, ci guarderemo indietro e ci chiederemo come potessimo essere tanto insensati da mentire, rubare e così via.
Piano piano la nostra vita pre-Sadhana ci apparirà per quello che è: mera follia, un abisso di ignoranza. Negli Yoga Sutra Maharishi Patanjali dice: “Per lo Yogi fermamente radicato nella verità, le azioni danno i loro frutti, dipendendo interamente da essa.” Y.S. II, 36, e poi: “Essendo fermamente radicato nell’onestà (Asteya) tutte le cose preziose gli si presenteranno spontaneamente” Y.S.II 37. Quindi Patanjali suggerisce che il percorso di purificazione intrapreso attraverso lo studio e l’applicazione nella nostra vita quotidiana degli Yama conduce il praticante, l’aspirante Yogi all’acquisizione di Siddhi, di poteri psichici che gli permettono di realizzare i propri desideri, desideri puri, non più inquinati da egoismo o paure.
Swami Vivekananda, nel suo commentario dei Sutra, spiega questi due aforismi con una frase assolutamente illuminante: “Più scappi dalla natura, più essa ti seguirà, e se te ne disinteressi del tutto, diventerà la tua schiava.” È esattamente questo il senso di tutta la Sadhana spirituale, scrollarci di dosso il potere che la natura grossolana ha su di noi, soprattutto con le infinite varianti del desiderio, diventare padroni di noi stessi, consapevoli di essere puro Spirito, Atman.
Paolo Quircio
Roma, 30-03-2018
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