Secondo le teorie cosmogoniche indiane, che coincidono peraltro con le più moderne visioni della fisica astronomica occidentale, l’universo che oggi conosciamo ha avuto origine da un’alterazione dei Guna, inerzia, azione e purezza, le tre qualità che caratterizzano ogni aspetto di Prakriti, la Natura. Finché queste qualità sono state in equilibrio tra loro, tutto era stasi, totale immobilità.
Dalla loro alterazione l’energia creatrice inizia a manifestarsi in maniera dapprima sottilissima come Shabdabrahma, il suono-non suono, una vibrazione talmente sottile da non poter essere percepita; da qui il primo suono percepibile seppure sottilissimo e imbevuto di energia divina: la sacra sillaba OM; e poi, per progressive espansioni e differenziazioni, via via i cinquanta Varna, colori, sfumature, da cui originano i Devanagari, l’alfabeto sanscrito, e da qui tutte le lingue e tutti i suoni.
Grazie allo stesso processo evolutivo prende forma la materia grossolana. L’energia primigenia, estremamente sottile, allontanandosi dalla fonte originaria, gradualmente rallenta il suo livello vibrazionale, si differenzia assumendo i più diversi aspetti, si trasforma in energia percepibile e quindi in materia.
Alla fine di innumerevoli epoche cosmiche1, la forza centrifuga che ha dato inizio alla ‘Creazione’ comincia a rallentare e quella centripeta riprende il sopravvento, ponendo fine all’espansione dell’universo e dando inizio alla fase involutiva, di ritorno all’origine. Questo percorso involutivo procede in maniera inversa di quello evolutivo: per progressivo affinamento, dal grossolano al sottile e dal sottile all’ancora più sottile, fino alla pura energia divina. Questo continuo, seppur lentissimo, alternarsi di evoluzione e involuzione, di espansione e contrazione, si riflette anche in noi esseri umani, nel nostro microcosmo. Nel suo percorso karmico l’uomo procede, analogamente all’universo, dal grossolano verso il sempre più sottile.
Dall’animale all’umano, dall’umano al superumano, dal superumano al divino. A questo progressivo spostamento dal grossolano al sottile corrisponde il livello di consapevolezza dell’individuo, che ne è conseguenza e causa al contempo. Man mano che si procede lungo il percorso involutivo, lungo la lunga strada del ‘ritorno alle origini’, aumenta la consapevolezza del proprio essere divini, e a sua volta questa consapevolezza fa sì che il proprio livello di vibrazione si elevi.
In questo percorso lungo e tortuoso, irto di ostacoli di ogni genere, esistono degli strumenti di sostegno che ci aiutano ad abbreviare i tempi necessari per il raggiungimento della meta, e non stiamo parlando di ore o di giorni, ma di vite. Le pratiche spirituali in genere sono molto efficaci e, tra queste, lo Yoga è forse quella che più delle altre assume forme dottrinali specifiche, in maniera sistematica, di vera e propria scienza sacra. Lo Yoga penetra nelle profondità della mente umana, ne coglie i punti di forza e i limiti e ci insegna ad usare i primi per superare questi ultimi.
Dei quattro percorsi dello Yoga, Karma, Bhakti, Jnana e Raja, soprattutto il Raja Yoga ha le caratteristiche di vera e propria tecnica di autoanalisi, in grado di condurci, con mezzi alla portata di quasi tutti, a comprendere la nostra vera natura ed eliminare le zavorre mentali che ci impediscono di spiccare il volo verso il Divino. Come molti sanno, il Raja Yoga è detto anche Asthanga Yoga, lo Yoga degli otto anga, delle otto parti, perché è composto appunto di otto stadi, ognuno propedeutico al successivo. I primi due anga sono i cinque Yama e i cinque Niyama. Alcuni li definiscono i ‘dieci comandamenti’ dello Yoga e in effetti dei punti in comune con le tavole mosaiche ci sono, ma solo per quel che riguarda gli Yama.
Yama e Niyama sono fondamentalmente dei codici di comportamento. I primi, che sono dei divieti, si rivolgono soprattutto al comportamento nel contesto sociale e sono: Ahimsa, Aparigraha, Asteya, Brahmacharya e Satya. In maniera abbastanza approssimativa li possiamo tradurre con: Non violenza, mancanza di desiderio di possesso, non appropriarsi delle cose altrui, continenza, attenersi alla verità.
I loro equivalenti biblici potrebbero essere: non uccidere, non desiderare la roba d’altri, non rubare, non fornicare e non dire falsa testimonianza. E il parallelo finisce qui, perché nello Yoga non c’è alcun Dio geloso che minaccia fuoco e fiamme eterni ai trasgressori; c’è Sat-Chit-Ananda, Esistenza-Conoscenza-Beatitudine assoluta che ci fornisce gli strumenti per uscire dalla nostra condizione di dolore e conseguire Ananda, la Divina Beatitudine che è la nostra condizione essenziale.
È interessante notare che sia nell’Induismo che nel Buddhismo, che comunque è di derivazione induista, le varie Divinità e il Buddha stesso vengono spessissimo raffigurate con le mani che formano due Mudra: Vitarka e Abhyasa, rispettivamente il Mudra dell’insegnamento e quello del ‘non temere’; rispetta le regole ti ho insegnato, Vitarka, e che ti permettono di elevarti spiritualmente; affidati a me, non temere, Abhyasa, le tue sofferenze si attenueranno fino a scomparire del tutto.
Giustamente ci si potrebbe chiedere: ma se il Raja Yoga è una disciplina di sviluppo spirituale e come tale dovrebbe avere un valore universale, come è universale lo spirito divino che si riflette nel microcosmo umano, perché affidarsi a dei dettami etici, comportamentali, quando sappiamo che l’etica spesso cambia da luogo a luogo e da epoca ad epoca? La risposta è che gli Yama, i divieti del Raja Yoga, non fanno parte di un codice morale creato da un ‘contratto sociale’, che cambia a seconda dei moduli della comunità che accetta o impone questo ‘contratto’.
Ma non sono neanche divieti creati (e dai fedeli ciecamente accettati) da un Dio antropomorfo, geloso, irascibile e vendicativo. Sono piuttosto indicazioni di un percorso, quaderni di navigazione per il ricercatore spirituale che decide di intraprendere un cammino lungo, difficile, irto di ostacoli e di trappole. Chi ha pratica di viaggi in solitaria, di trekking e di pellegrinaggi sa che la prima regola del viaggiatore esperto è quella di viaggiare leggero. Le regole suggerite dai cinque Yama non sono altro che dei consigli di viaggio, ci insegnano a preparare il bagaglio, evitando di portare con noi cose che ci saranno d’impedimento durante il cammino; inutili fardelli che potrebbero rivelarsi una zavorra impossibile da trascinarsi dietro.
Una volta, al cambio di stagione le mamme davano ai propri bambini una purga, per purificare le viscere e prepararli al nuovo clima. Così il Sadhaka, il praticante spirituale, prima di avvicinarsi alla sacra scienza del Raja Yoga deve purificarsi, deve eliminare tutte quelle scorie a cui pensa di non poter rinunciare. Solo così sarà davvero pronto a ciò che sta per affrontare. Swami Sivananda ci insegna che “Condurre una vita virtuosa non è sufficiente in sé per ottenere la realizzazione di Dio. È assolutamente necessario raggiungere la concentrazione della mente.
Una vita buona e virtuosa prepara semplicemente la mente ad essere uno strumento adatto alla concentrazione e alla meditazione. Sono la concentrazione e la meditazione che alla fine conducono alla realizzazione del Sé. Senza l’aiuto della meditazione non potrete raggiungere la Conoscenza del Sé. Senza il suo aiuto non potrete sviluppare lo stato divino. Senza di essa non potrete liberarvi dalle pastoie della mente e ottenere l’immortalità.” E subito dopo aggiunge “Meditazione vuol dire mantenere un flusso incessante di coscienza divina.
Tutti i pensieri terreni vengono espulsi dalla mente. La mente si riempie, si satura di pensieri divini, di gloria divina e di presenza divina.” Quindi i Maestri ci dicono che in realtà il fine ultimo dello Yoga è la meditazione, perché essa pone la nostra coscienza in diretto contatto con la Coscienza divina. Ci dicono anche che per raggiungere questo stato è indispensabile espellere dalla mente i pensieri impuri. Ma potrebbe mai un uomo violento, o bugiardo, o lussurioso, o avido avere la mente abbastanza sgombra da pensieri negativi, pura, abbastanza sottile per avvicinarsi a Dio? Per mettersi in sintonia con quell’energia sottile aldilà del concepibile da mente umana che chiamiamo Dio? Una mente gravata da un pesante carico di desideri che lo avvicinano molto di più alla sua natura animale che a quella divina sarà sempre distratta da questi desideri.
È noto il breve racconto Zen dell’allievo che va da un Maestro e lo prega di iniziarlo alla via spirituale. Il Maestro non risponde e comincia a versare del tè nella tazza. La tazza è ormai piena ma lui continua e versare e il tè inonda il tavolino. Dopo qualche istante di imbarazzo, l’aspirante allievo trova il coraggio di chiedere al Maestro cosa stia facendo. E lui risponde: ‘La tua mente è come questa tazza; come posso riempirla di cose buone se tu prima non elimini quelle inutili? Se non la svuoti?’ Da qui nasce la necessità del percorso di purificazione che ci viene indicato dall’Ashtanga. Svuotare la tazza di istinti animali, di energia negativa, prepararci già dal comportamento fisico e verbale ad avvicinarci a quella sottigliezza che ci avvicinerà alla meditazione e da lì al Samadhi, l’unione col Divino.
Il primo Yama, considerato da molti un fondamentale perno intorno a cui ruota tutta la filosofia dello Yoga, è Ahimsa, la non violenza. Non violenza non vuol dire soltanto non uccidere. Himsa, la violenza, si manifesta in mille modi diversi, con le azioni, con le parole e soprattutto con i pensieri. Possiamo anche imparare a raffrenare la nostra ira e il nostro odio evitando di passare alle mani o di imprecare e insultare, ma finché nutriremo quell’ira e quell’odio dentro di noi non saremo fuori dal vortice devastante di Himsa. Molti di noi sono stati educati bene dalle loro famiglie e hanno imparato che menare le mani è cosa volgare.
Qualcuno sa anche che le espressioni verbali aggressive, gli insulti, le offese feriscono come e più delle percosse. Pochi invece si rendono conto di come nutrire astio e avversione nei confronti di qualcuno sia un boomerang tremendo; sogniamo di far del male, di colpire e in realtà facciamo del male soprattutto a noi stessi. L’odio, l’aggressività, anche quella sotterranea, sono fardelli pesantissimi per la nostra mente e per il nostro essere tutto. Questo è vero per chiunque, ma ancor di più per chi ha intrapreso un cammino spirituale.
Negli Yoga Sutra di Patanjali Maharshi, il testo di base del Raja Yoga, troviamo: “Quando la mente è disturbata dalle passioni, si deve praticare ponderando su i loro opposti” Y.S. II, 33
Swami Vishnudevananda diceva che per trasformare una pezza di cotone in una di seta bisogne togliere un filo di cotone alla volta e sostituirlo con uno di seta. Così dobbiamo fare noi, sostituire i sentimenti di odio, uno alla volta, con sentimenti dapprima di distacco, anche di indifferenza; ma poi si deve attivamente passare all’amore. È facile amare chi ci ama; un po’ più difficile è perdonare chi ci ha fatto del male; davvero molto difficile è imparare ad amare chi si odia. Ma se vogliamo davvero progredire e procedere speditamente nel nostro cammino spirituale, non esistono alternative. Ancora Swami Sivananda: “Esiste un’unica religione, la religione dell’amore, della pace. Esiste un unico messaggio, il messaggio dell’Ahimsa. Ahimsa è un dovere supremo dell’uomo.”
Nel Bhakti Yoga si impara a trasformare l’amore, sentimento che tutti provano, anche se a volte in piccole quantità, in Prem, l’amore universale. Qui il gioco diventa più impegnativo: si tratta di trasformare l’odio in amore. Ma, come dicevano i Romani, Nihil difficile volenti, con la forza di volontà si arriva ovunque. Bisogna capire che odio, ostilità, violenza sono risorse dei deboli, degli spaventati che hanno paura di qualsiasi cosa invada il loro spazio recintato, la loro cittadella.
Quando, attraverso la pratica spirituale, attraverso la meditazione, cominciamo ad allargare i nostri orizzonti e i nostri cuori; quando cominciamo a capire che gli uomini e le donne che vivono aldilà dei confini, non sono nemici, ma persone intimorite dalla nostra esistenza quanto noi lo siamo dalla loro; e non si parla solo dei confini geopolitici, ma dei nostri confini personali, le barriere più intime che frapponiamo tra il nostro io e il resto del mondo.
Quando cominciamo a capire che siamo come le onde, che solo per qualche breve istante sono tali, con la loro forma e la loro dimensione, ma che una volta arrivate a infrangersi sul bagnasciuga tornano ad essere ciò che sono sempre state e sempre saranno: mare. Anche noi diventiamo aggressivi per proteggere un io, e le sue proiezioni, che prima o poi non ci sarà più, e torneremo ad essere ciò che siamo sempre stati e sempre saremo: Ananda, Beatitudine Divina.
Paolo Quircio
Roma, 09-03-2018
1 In Sanscrito Yuga, che a loro volta si raggruppano in Chathuryuga, i quattro Yuga, 71 dei quali formano un Manvantara; 14 Manvantara formano un Kalpa.
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