di Paolo Quircio
Nel momento in cui un uomo e una donna concepiscono un bambino, i futuri genitori non hanno alcuna idea di come sarà il frutto del loro amore. Maschio o femmina, bello o brutto, intelligente o meno, di buon carattere o scorbutico, fortunato o sfortunato. Hanno una sola certezza: quel bimbo appena concepito e che tra qualche mese vedrà la luce, prima o poi sicuramente morirà. È solo questione di tempo, ma morirà, come sono morti i suoi antenati e come moriranno i suoi genitori. Nulla è più naturalmente correlato alla vita della morte.
Tutto quello che fa parte di
Prakriti, la Natura fisica, nasce, cresce, decade e muore. Alberi, piante, insetti, pesci, animali terrestri e esseri umani, tutto nasce, cresce, decade e muore. Ma non solo gli esseri viventi muoiono, anche le stelle, i pianeti, le galassie, in effetti l’intero universo è destinato a morire. Ognuno ha i suoi tempi, dalle ore di una farfalla agli eoni del cosmo, ma il destino è comune a tutto e a tutti. E pur essendo la cosa più naturale del mondo, spesso la morte è un pensiero dominante, vissuto con angoscia e timore, se non con vero e proprio terrore.
Buona parte dell’atteggiamento che ognuno ha nei confronti della morte dipende dalla concezione che si ha della morte stessa. La Natura ci insegna che essa in realtà è soltanto una fase di un ciclo. In Natura tutto è ciclico, tutto è un alternarsi di attività e di stasi. Il giorno e la notte, le stagioni, l’apparente inattività dei semi e l’attività delle piante che da quei semi nascono. Le civiltà contadine e quelle che con ingiustificata presunzione chiamiamo ‘primitive’, avevano ed hanno un contatto molto più stretto con la ciclicità della Natura, contatto che noi ‘civili’ urbanizzati abbiamo pressoché dimenticato.
Mangiamo le stesse verdure tutto l’anno, viviamo in scatoloni di acciaio e vetro climatizzati, sempre alla stessa temperatura, d’estate e d’inverno. Per sapere che tempo fa, dobbiamo guardare le previsioni del tempo in televisione. La pioggia è diventata una scocciatura che fa aumentare il traffico già perennemente sull’orlo del collasso e ha perso completamente la connotazione di nettare vivificante della terra, delle fonti, del mondo intero, senza la quale moriremmo tutti nel giro di qualche mese, dopo esserci azzuffati per il controllo delle ultime pozze.
Le feste e sagre tradizionali sono in gran parte prettamente stagionali e moltissime sono quelle che celebrano la periodica rinascita della Natura. Si pensi all’uovo di Pasqua, simbolo di vita e di rinascita. Il mondo cristiano lo ha adattato alla rinascita di Gesù dopo la morte sulla croce, ma il simbolismo dell’uovo ha radici molto più antiche. Nei Veda da millenni si parla di
Hiranyagarbha, l’uovo o utero cosmico, detto anche
Prajāpati, identificato anche con l’intelligenza cosmica, causa prima della Creazione.
Abbiamo detto che tutto ciò che è
Prakriti, Natura, è soggetto a nascita, crescita, decadenza e morte. Ma il mondo, in ogni sua manifestazione, non ha solo l’aspetto grossolano di
Prakriti, ma anche, direi soprattutto, quello sottile, spirituale di
Atman, la porzione, il riflesso immortale del
Brahman, lo Spirito cosmico che tutto pervade. Nel terzo
sutra del
Sadhana Pada, il secondo capitolo degli
Yoga Sutra, il testo fondamentale del Raja Yoga, Patanjali enumera i cinque
Klesha, le fonti di afflizione dell’umanità: ‘Le cinque afflizioni sono
Avidya,
Asmita,
Raga,
Dvesha e
Abhinivesha.’
Avidya è la negazione di
Vidya, la conoscenza, in particolare la conoscenza spirituale. Ignoranza spirituale vuol dire non saper distinguere ciò che è
Atman, puro spirito, eterno e immutabile, l’unica vera realtà,
Sat, da ciò che è
Anatman, materiale, grossolano, transitorio e destinato a morire, e quindi
Asat, irreale, in quanto dotato in effetti di una realtà parziale, limitata nel tempo.
Questa ignoranza spirituale induce l’uomo a ritenere reale ciò che non lo è. L’uomo comune ritiene reale solo ciò che viene percepito dai sensi, coordinati dalla mente. Di conseguenza ciò che va aldilà dei sensi, ciò che secondo lo Yoga è
Sat, l’unica realtà vera, imperitura, per lui non esiste. Krishna spiega ad Arjuna:
Quella che per tutti gli esseri è notte, per l’uomo che controlla se stesso è veglia; quando tutti gli esseri sono svegli, quella è notte per il saggio veggente. Bhagavad Gita II, 69.
In altri termini, l’uomo saggio che ha raggiunto la profonda conoscenza spirituale e riesce a distinguere il vero dal falso, ha ribaltato completamente l’opinione comune e si identifica esclusivamente con la sua parte immortale, mentre la maggior parte dell’umanità fa esattamente il contrario, come il giorno e la notte.
Da questa erronea identificazione nasce
Asmita, il senso dell’io. Io diventa il centro di tutto l’universo. Io diventa l’idolo a cui sacrificare tutto. L’unico scopo della vita, in virtù di
Asmita, è la gratificazione, la protezione e la salvaguardia di questo io e della sua estensione, il mio. Una cosa ha valore solo se mi appartiene. Ovviamente non solo le cose appartengono, ma anche gli animali e le persone. Adoro il MIO cane ma prendo a calci un randagio in strada; sono estremamente protettivo nei confronti dei MIEI figli e dei MIEI familiari, ma prontissimo alla lite e ad alzare le mani con chiunque non appartenga alla MIA cerchia di affetti.
Da questa forte centralità della propria persona nasce il desiderio e la volontà di possedere ciò che gratifica,
Raga, e l’avversione per quello che si ritiene possa danneggiare,
Dvesha.
Raga e
Dvesha, attrazione e repulsione, sono le due molle che tengono in movimento l’essere umano. Cerca di ottenere in ogni modo quello che ti piace, evita come la peste quello che non ti piace. Per sua natura l’uomo cerca la felicità, ma per ignoranza,
Avidya, non si rende conto che essa è la sua vera, profonda essenza.
Raga ci spinge continuamente alla ricerca di oggetti che soddisfino i nostri sensi, pensando che da questo appagamento possa derivare la tanto agognata felicità.
Purtroppo non è così, l’oggetto conquistato con grande sforzo, dopo breve tempo mostra i suoi limiti, ci ha soddisfatto per un po’, ma non ci ha dato la felicità. Invece di capire che è il sistema ad essere sbagliato, continuiamo ostinatamente a percorrere la stessa strada, come un pesce rosso che si ostina a battere la testa sulla parete della boccia di vetro. Pensiamo “Avevo sbagliato nella scelta dell’oggetto, il prossimo sicuramente mi darà la felicità.”
E così si arriva alla vecchiaia e alla morte senza aver trovato la felicità, se non per brevi, fugaci attimi, pensando di essere stati sfortunati o incapaci di scegliere. Nello Yoga si fa spesso l’esempio del cervo muschiato, un piccolo mammifero asiatico che ha accanto all’ombelico una ghiandola che secerne una sostanza molto odorosa. Si dice che il cervo sia alla costante ricerca della fonte di questo odore, senza rendersi conto che esso emana dal suo stesso corpo.
Per converso, rifuggiamo da ogni cosa che pensiamo ci possa distogliere dalla nostra ricerca della felicità o che ci possa arrecare disturbo o dolore. Fondamentalmente, da tutto ciò che non ci piace.
Raga, l’attrazione per le cose che ci piacciono, e
Dvesha, l’avversione per quelle che non ci piacciono, condizionano tutta la nostra esistenza. Nel suo importante
Bliss Divine - Il Libro della Beatitudine, Swami Sivananda, parlando della preghiera dice:
Sia fatta la Tua volontà, mio Signore! Non chiedo nulla.’ Questa dovrebbe essere la vostra preghiera. Perché voi non sapete quello che è bene per voi e potreste chiedere cose che poi vi creeranno problemi e pregare per la perdizione.
Ovvero, quando pregate non chiedete le cose che vi piacciono, perché potrebbero essere cose sbagliate. Ma noi continuiamo imperterriti a seguire i nostri gusti, le nostre
Raga e le nostre
Dvesha, ciò che ci piace e ciò che non ci piace, e ci lamentiamo della nostra infelicità, attribuendone le cause agli altri, alla sfortuna, alle scelte sbagliate, pronti però a farne altre altrettanto sbagliate. Senza mai capire che la felicità è già dentro di noi, dobbiamo solo prenderla.
C’è un aneddoto: un ladro e un ricco mercante passano la notte nello stesso vagone letto. Quando il mercante va in bagno a prepararsi per la notte, il ladro fruga il suo bagaglio e l’intero scompartimento alla ricerca dei soldi che sicuramente il mercante deve avere con sé, ma malgrado tutti gli sforzi non trova nulla. L’indomani mattina, poco prima dell’arrivo a destinazione, il ladro confessa al compagno di viaggio la sua vera identità e gli chiede, così, per curiosità, dove abbia nascosto il denaro. Il mercante, sorridendo, prende un rotolo di banconote da sotto il cuscino del ladro e gli dice: ‘
Qui, perché ero certo che questo era l’ultimo posto dove saresti andato a cercare.’ Così facciamo noi, spendiamo una vita a cercare qualcosa che abbiamo sempre avuto, fin dalla nascita.
E la nostra
Dvesha trova la sua massima espressione quando si parla di quello che ci può privare dell’unica realtà in cui erroneamente crediamo: la morte del nostro corpo.
Abhinivesha è l’eccessivo attaccamento a questa vita, che si traduce poi in terrore della morte. È chiaro che se pensiamo di non essere altro che corpo, penseremo anche che la sua perdita ci farà sprofondare nell’abisso del nulla, nella non esistenza. E questo in via definitiva, per l’eternità; siamo stati e non saremo mai più. In effetti un’idea poco allegra.
Ma lo Yoga ci insegna che fortunatamente la situazione è ben diversa. La morte non è altro che la fine di un breve ciclo. La separazione di qualcosa che si è unito solo temporaneamente: i 5 elementi, terra, acqua, fuoco, aria ed etere si sono uniti per comporre il corpo fisico, il quale, a sua volta, si è unito al corpo eterico e a quello causale che erano già transitati in altri innumerevoli corpi.

Secondo lo Yoga, siamo composti infatti da tre corpi:
Sthula Sharira, il corpo fisico, grossolano. Esso è composto, come detto, dai 5 elementi. Essi, col processo di decomposizione che inizia dopo la morte, piano piano tornano alla loro origine, la Natura. Poi c’è il
Linga o
Sukshma Sharira, il corpo astrale o energetico, composto essenzialmente di
Prana, energia vitale. Ad esso sono collegati gli organi di senso e la mente. Infine
Karana Sharira, il corpo causale, da non confondere con l’
Atman, associato allo stato di sonno profondo, lo stato di completa nescienza.
Al momento della morte il corpo fisico si stacca dagli altri due e i cinque elementi che lo compongono tornano alla Natura.
Sukshma Sharira e
Karana Sharira, insieme al loro carico di
Samskara, le impressioni sottili determinate dalle vite precedenti, rimarranno in altri livelli di esistenza, i
Loka. I
Loka sono 14, sette superiori (da qui l’espressione ‘essere al settimo cielo’) e sette inferiori. A seconda del comportamento nell’ultima vita, i due
Sharira andranno in uno dei
Loka per godere il risultato delle azioni, buone o cattive, commesse in vita. La durata di questo periodo cambia anch’essa in funzione dello sviluppo spirituale raggiunto.
Swami Vishnudevananda fa un esempio pratico per spiegare l’intervallo di tempo tra un’incarnazione e l’altra: se prendiamo tre ventilatori e li facciamo girare a velocità diverse, diciamo 500, 750 e 1000 giri al minuto, e li spegniamo contemporaneamente, quello che girava alla velocità maggiore impiegherà più tempo a fermarsi rispetto agli altri due. Analogamente, i corpi astrali e causali che hanno raggiunto un livello di vibrazione spirituale più elevato, passeranno più tempo nel
Loka di destinazione prima di reincarnarsi nuovamente.
Al momento del concepimento
1 i due corpi entrano in un nuovo corpo fisico. Le caratteristiche fisiche, familiari e sociali di questo nuovo
Jiva, l’unione dell’
Atman col corpo, dipendono dal punto del percorso karmico in cui ognuno si trova. Nella Bhagavad Gita Arjuna chiede a Krishna cosa accade a coloro che pur essendosi impegnati con sincerità nello Yoga non hanno raggiunto l’illuminazione. Avendo abbandonato la via di ciò che è terreno, ma non ancora raggiunto ciò che è celeste, rimarranno sospesi a mezz’aria e svaniranno come una nuvola?
Krishna lo rassicura e, al contempo, ci spiega i criteri della reincarnazione e della legge del
Karma :
Né in questo mondo, né in quell’altro, un uomo simile potrà mai perdersi, o figlio mio; perché chi compie azioni meritevoli non potrà mai incorrere in un destino avverso. Raggiunti i mondi di coloro che compiono buone azioni, dopo aver dimorato in essi per molti anni, colui che ha fallito nello yoga rinasce in una casa di gente onesta e senza macchia. Oppure rinasce in una famiglia di Yogi sapienti. Una nascita invero molto rara in questo mondo. In questa condizione privilegiata egli ritrova la conoscenza sviluppata con lo yoga nella vita precedente e, forte di ciò, tenta ancor più di raggiungere la perfezione dello yoga. B.G. VI, 40-43.
I ‘mondi di coloro che compiono buone azioni’ sono i Loka elevati di cui si parlava poco sopra. Ogni nascita dipende dal proprio bagaglio karmico; secondo lo Yoga e il Vedanta il destino beffardo non esiste. E ancora Krishna: “Così come in questo corpo l’anima incarnata passa attraverso la fanciullezza, la gioventù e la vecchiaia, allo stesso modo passa in un altro corpo; l’uomo saldo non si addolora per ciò. B.G. II, 13.
Tutte le religioni e le filosofie spirituali asseriscono senza tentennamenti l’esistenza di un’anima immortale. Alcune credono in una sola esistenza terrena, in un solo corpo; altre credono alla reincarnazione, alla trasmigrazione delle anime. La differenza non è da poco e non sembra il caso adesso di entrare in questa diatriba.
Quello che conta è che tutte le vie spirituali considerano la morte, in un modo o nell’altro, una cosa importante si, ma non definitiva, se non per la parte fisica, grossolana del nostro essere. Eppure, per tanti motivi a cui si è accennato più sopra, nel mondo sempre più materialistico in cui viviamo, la morte continua ad essere uno spauracchio per la maggior parte di noi. Tutti temono in particolar modo la morte violenta, per mano di un criminale comune o di un terrorista.
Si vive nel timore, e questo timore ci allontana sempre più dal nostro prossimo. Aldilà dei confini, inventati dagli uomini, si immagina quasi sempre un popolo ostile; si guarda agli altri come potenziali nemici, pronti a privarci di ciò che ci appartiene, soprattutto la nostra vita. Eppure, a vedere le statistiche sembra che le probabilità di essere uccisi da un terrorista, almeno nel nostro paese, siano bassissime, quasi nulle. L’indice di mortalità si aggira intorno all’uno per cento.
Quindi ogni anno in Italia muoiono circa 600.000 persone e la stragrande maggioranza di queste persone muore di malattia, di incidenti o semplicemente di vecchiaia, come testimonia il costante aumento dell’età media della popolazione. Eppure tutti temiamo i pericoli che ci possono piovere addosso a causa del nostro prossimo. Il cinema e la televisione non fanno che mostrare morti violente, episodi criminali, spesso efferati; armi e sangue, sadismo e violenza, un
Grand Guignol macabro e mortale; questo è il cibo quotidiano di cui si nutre buona parte di noi.
E il fatto che a volte siano i ‘buoni’ a uccidere i ‘cattivi’ non cambia la sostanza della questione, è sempre e comunque violenza mortale. I videogiochi con cui si dilettano i ragazzi e anche molti adulti si basano quasi sempre sull’eliminazione dell’altro, sia esso un mostro, un soldato nemico o un ‘cattivo’ in genere, vince chi ammazza di più.
Non riusciamo ad avere un rapporto ‘normale’ con la morte, non riusciamo ad accettarla e ci terrorizza, come se fosse qualcosa di innaturale. Tutti, credenti e non credenti, sappiamo che è un destino a cui nessuno sfugge, ma invece di cercare di capire, di comprenderne la valenza spirituale, non con rassegnazione come una pecora al macello, ma con serenità, come compimento di una vita vissuta con pienezza, la viviamo in maniera morbosa, come fonte di dolore e sofferenza.
Ci sono delle raffigurazione del Buddha molto belle a tal proposito. Egli viene raffigurato in posizione reclinata, prossimo al raggiungimento del
Nirvana. Sotto di lui una schiera di fedeli in lacrime, disperati all’idea del suo abbandono. Sopra di lui le anime di chi è già morto allegre e sorridenti, piene di gioia all’idea di accogliere Buddha tra loro.
Ricordo l’impressione che mi fece, tanti anni fa, il funerale di un
Sannyasin, a Rishikesh. I suoi confratelli ne portavano il corpo senza vita su una lettiga per immergerlo nel Gange. L’atmosfera era tutt’altro che funebre, anzi, festosa, ben diversa dai ‘mortori’ a cui siamo abituati noi.
Quando un
Mahatma, grande anima, lascia il corpo, si libera di un fardello che ormai per lui non ha più alcuna utilità, come una vettura vecchia che si porta alla rottamazione. Egli ha raggiunto
Moksha, la liberazione. È interessante notare che quando nasce un bambino tutti sorridono e si rallegrano, tranne lui, che piange e deve essere coccolato; come dice Leopardi: “ Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell’esser nato.”
Quando qualcuno muore, al contrario, tutti piangono e si rattristano, tranne il defunto, che è sereno, perché ha finalmente superato le ambasce della vita terrena. Ci sono moltissime testimonianze di persone che hanno provato esperienze di morte e sono tornate in vita; tutti indistintamente dicono di aver provato una grande serenità, una gioia profonda.
Una vita di ricerca spirituale è sicuramente di grande aiuto nel rimettere un evento così importante come la morte al giusto posto. Accadrà, non può non accadere, ma se riuscissimo a sviluppare una visione spirituale della vita e, di conseguenza, della sua fine, impareremmo ad accettarla, non dico con gioia, ma almeno con serenità, sapendo che in fondo non è che un passaggio, e non è detto che ciò che troveremo dall’altra parte non sia meglio di quello che abbiamo di qua. Per dirla col Metastasio, “Non è ver che sia la morte, Il peggior di tutti i mali, È un sollievo de' mortali, Che son stanchi di soffrir...”
Paolo Quircio
27-01-2018
1 Non tutti i testi sono concordi riguardo al momento dell’ingresso del
Jiva nel nuovo corpo fisico. Secondo la
Garbha Upanishad, ad esempio, esso avviene solo al settimo mese dal concepimento del feto.