di Paolo Quircio
Nel XV capitolo della Bhagavad Gita Sri Krishna spiega ad Arjuna la struttura del Cosmo, e del microcosmo individuale che lo riflette in maniera speculare, con un’immagine molto bella e poetica, anche se un po’ criptica. L’Universo viene descritto come un albero di
pipal. Questo albero, il cui nome scientifico è
Ficus religiosa, è molto diffuso in tutta l’India ed è considerato sacro sia dagli Induisti che dai Buddhisti. Gautama Buddha ottenne l’illuminazione mentre meditava seduto sotto a un albero di
pipal. Nei testi induisti si narra di molti convegni tenuti dalla
Trimurti, Brahma, Vishnu e Siva sotto a un
pipal. Il
pipal è sacro anche alla dea Lakshmi e le donne indiane a Lei rivolgono le loro preghiere quando desiderano dei figli e non riescono ad averne.
Per questo è comune vedere nei templi dedicati alla dea, di fronte all’altare, un albero di
pipal con dei cordoncini rossi legati intorno al tronco o con dei fazzoletti di vari colori, di solito pieni di riso, annodati come fagotti e appesi ai rami; sono sia dei pegni per la richiesta della grazia, sia dei segni di ringraziamento per averla ottenuta. Inoltre, sia le foglie che la corteccia dell’albero di
pipal sono molto usate nella medicina ayurvedica e ad esse si attribuiscono innumerevoli proprietà terapeutiche.
Un altro nome dell’albero, ed è in effetti quello usato nella Gita, è
ashvattha. In sanscrito
shva vuol dire ‘domani’ e quindi
ashvattha è qualcosa che non dura neanche fino a domani, dando così l’idea del costante cambiamento, del costante divenire dell’Universo materiale, mutante e instabile, così com’è percepito dai nostri sensi, altrettanto mutanti e instabili in quanto ad esso appartenenti. La particolarità dell’albero di
pipal descritto nella Gita è che, contrariamente al solito, è a testa in giù, con le radici in alto, metaforicamente verso il Divino, verso la Fonte, e la chioma in basso, immersa nel mondo materiale.
Il nutrimento di questo albero è costituito dai
Guna, le tre qualità che contraddistinguono l’intero creato. I suoi germogli sono gli oggetti dei sensi e le sue foglie i Veda, i testi della sapienza divina. Come un
totem o un obelisco, il tronco dell’albero fa da tramite tra Terra e Cielo, tra umano e divino, tra sottile e grossolano. Solo chi capisce la struttura di questo albero
ashvattha, ci dice Krishna, capisce i Veda e può quindi essere pronto per l’illuminazione. L’uomo comune, completamente invischiato nella chioma dell’albero, che rappresenta, come detto, il mondo materiale, non riesce a coglierne l’intera struttura e pensa che quel che vede sia tutto.
“La sua forma non è qui percepita come tale, né la sua fine, né il suo inizio, né la sua esistenza; avendo reciso questo albero di
pipal dalle salde radici con la forte scure del non attaccamento” “Allora andrà ricercata quella meta, conseguita la quale, nessuno torna di nuovo. Io cerco rifugio in quel
Purusha primordiale da cui emana l’Attività Eterna, i processi cosmici.” B.G. XV, 3-4. Quindi Sri Krishna ci dice che per districarci dalla folta chioma di questo albero, che non solo ci trattiene nel mondo materiale e ci impedisce di raggiungere “quella meta” da cui “nessuno torna di nuovo”,
Moksha, la liberazione, ma che a causa dell’ignoranza spirituale ci impedisce anche di conoscere la realtà profonda dell’Universo e, specularmente, del nostro Sé più intimo, è necessario mettere mano alla ‘forte scure del non attaccamento’, quello che in sanscrito è detto
Vairagya.
Vairagya è un concetto meno semplice di quanto potrebbe sembrare. Per due motivi: uno perché è strettamente collegato al
Dharma e, di conseguenza, al sistema del
Varnashrama 1 , due perché è diretta conseguenza di un altro importante elemento dello Yoga e del Vedanta:
Viveka, la discriminazione. Partiamo da
Viveka. Molti sanno, ed è stato già detto, che la parola Yoga deriva dalla radice sanscrita
Yug, che vuol dire ‘unione’. Unione di cosa? Chi dice di mente e corpo, chi di mente e anima; in effetti, stando al testo fondamentale dell’Advaita Vedanta, Viveka Chudamani, del grande
Rishi Adi Shankaracharya,
Yug è l’unione tra
Atman e
Brahman, l’anima individuale, quella che pervade il
Jiva, e l’anima cosmica. Un’unione che non si può conseguire, poiché fa già parte della nostra natura essenziale, innata, è la condizione comune a tutti noi.
Quello che si può ed è nostro dovere conseguire è invece la consapevolezza di questa identità. Il raggiungimento di questa consapevolezza è il fine ultimo di ogni percorso spirituale e sia lo Yoga, sia l’Advaita Vedanta, il Vedanta non dualistico, lo dicono con chiarezza in ogni testo.
Per raggiungere questa coscienza dell’unione però, è necessario procedere prima ad una separazione, a una discriminazione. Noi
Jiva siamo puro spirito, l’eterno e immutabile
Atman, ma tendiamo a identificarci con la nostra parte grossolana, con il veicolo di cui l’
Atman ha bisogno per procedere nel suo percorso karmico: corpo, mente e
prana. Durante questo lungo cammino, piano piano si comincia a prendere coscienza di questa dualità; una volta realizzata questa dualità ci si rende conto che c’è una parte di noi che è eterna e immutabile, l’
Atman appunto, e una parte composta da corpo, mente e
prana i quali, una volta terminato il loro scopo, torneranno al proprio mondo di appartenenza, quello della natura grossolana.
Questa presa di coscienza sposta gradualmente l’identificazione dal non-
Atman all’
Atman, dal grossolano al sottile. È come se a un certo punto smettessimo di identificarci con i vestiti che indossiamo o con la vettura che conduciamo, per capire che la nostra essenza è diversa da quella dei vestiti o delle vetture. È un lavoro di sgrossamento continuo, quello che il
Jiva deve compiere per trovare la sua vera natura. Penso alla risposta data da Michelangelo a chi gli chiedeva come facesse a trarre una statua di fattura così fine da un blocco informe di marmo: “Semplice, basta togliere il superfluo”. Per togliere il superfluo bisogna avere ben chiaro nella mente il risultato finale e, soprattutto, il desiderio prepotente di trovarlo, aldilà della barriera della materia in eccesso.
Per capire meglio come
Viveka, la discriminazione, possa aiutarci a dipanarci dalle trappole di
Maya, il velo dell’illusione che ci fa prendere lucciole per lanterne, l’irreale per il reale, l’
Atman per il non-
Atman, bisogna fare una piccola descrizione della struttura psichica dell’individuo nella filosofia del
Vedanta.
Secondo il
Vedanta e la filosofia dello Yoga, il
Jiva, l’
Atman incarnato in un corpo umano, possiede uno ‘strumento interiore’, detto
Antakharana, che è composto da quattro parti diverse:
Manas, la mente ordinaria, che analizza ed elabora ciò che le viene comunicato dai cinque sensi, gli
Jnana Indriya;
Buddhi, la mente superiore, intuitiva, che riesce ad elaborare concetti astratti extra-sensoriali;
Chitta, la mente subconscia, magazzino di pensieri, di emozioni e di esperienze che, all’occorrenza, vengono richiamate da
Manas per comprendere ed elaborare i segnali che provengono dagli organi di senso.
La quarta componente è l’
Ahamkara, il senso dell’io e del mio, che causa l’erronea identificazione con le
Upadhi, corpo, mente e
prana, gli attributi che fanno apparire
l’Atman limitato, cosa che in realtà non è, essendo della stessa essenza del
Brahman, il Divino, come una goccia d’acqua è della stessa essenza di tutta l’acqua che compone l’oceano. Uscire da questa erronea identificazione è lo scopo ultimo di tutta la pratica Yogica. Solo abbandonando questa illusoria concezione di essere l’abito che indossiamo e non chi indossa l’abito stesso, potremo raggiungere
Jnana, la conoscenza spirituale che ci libererà dal ciclo di nascite e morti.
Nei versi dal 160 al 164 del suo ‘
Viveka Chudamani’, ‘Il gioiello della corona della discriminazione’, Adi Shankaracharya spiega con chiarezza questo concetto: “
L’uomo sciocco pensa di essere il corpo; l’uomo istruito pensa di essere una combinazione di corpo e anima, mentre il saggio che grazie alla discriminazione ha raggiunto la realizzazione, vede l’eterno Atman come il suo Sé, e pensa ‘Io sono Brahman’.”
“
O sciocco, smettila di identificarti con questo mucchio di pelle, carne, grasso, ossa e sporcizia e piuttosto identificati con il Brahman Assoluto, il Sé di tutti, ottenendo quindi la Pace suprema.”
“
Finché l’erudito non abbandona la sua erronea identificazione col corpo, gli organi e simili, che sono irreali, non c’è alcuna possibilità di emancipazione per lui, anche se possiede la massima erudizione nel campo della filosofia del Vedanta.”
“
Così come non ti identifichi con la tua ombra, con la tua immagine riflessa o con la tua immagine che sogni, o con il corpo che immagini nel tuo cuore, cessa di fare la stessa cosa anche col tuo corpo vivente.”
“
L’identificazione col corpo è la radice che produce la miseria delle nascite nelle persone che sono attaccate all’irreale; perciò distruggila con la massima cura. Quando si abbandona questa identificazione causata dalla mente, non c’è più alcuna possibilità di reincarnazione.”
Una volta raggiunto un buon livello di consapevolezza della propria reale, divina identità grazie a
Viveka,
Vairagya nasce spontanea. È difficile continuare a preoccuparsi del transitorio, del mutevole, dell’inconsistente quando ci si rende conto che tutto ciò è ben poco diverso dall’ombra o dall’immagine riflessa in una pozza d’acqua. Come un sogno smette di apparire reale al momento del risveglio, così la ‘realtà’ di
Maya smette di apparire tale al momento del risveglio spirituale.
Abbiamo già citato in un precedente articolo (Il simbolismo di Dattatreya) la bella definizione che dà Krishna di
Vairagya: “Come le foglie del loto non sono toccate dall’acqua, così colui che, trasceso l’attaccamento, agisce rivolgendo le sue azioni a
Brahma non si identifica con esse”(B.G. V,10). Quindi ogni sofferenza è causata dall’attaccamento, e l’abbandono dell’attaccamento è la soluzione. L’attaccamento nasce dall’ignoranza: ignoriamo che il nostro stato naturale è quello di
Ananda, la beatitudine divina, e andiamo a cercare la felicità all’esterno di noi, inseguendo senza sosta gli oggetti dei nostri desideri, innescando un’interminabile catena di passioni, di illusioni e di delusioni. È anche importante notare che la Gita parla di ‘trascendere’ l’attaccamento, non di reprimerlo. La repressione del desiderio e dell’attaccamento non fa che peggiorare la situazione, essi vanno accompagnati pian piano alla porta con la pratica spirituale.
Abbiamo detto che
Vairagya, oltre ad essere una conseguenza di
Viveka, la discriminazione tra il reale e l’irreale, è anche strettamente collegata al
Dharma e al sistema del
Varnashrama.2 A seconda del punto raggiunto nel proprio percorso karmico, ogni
Jiva ha doveri diversi. A un
Sannyasin, un monaco che ha rinunciato al mondo materiale e che vive in povertà e castità, si può e si deve chiedere di rinunciare anche agli affetti familiari, che inevitabilmente limitano e creano attaccamento. Egli ha raggiunto una tale altezza spirituale che lo eleva ben al di sopra dei limiti dell’uomo comune. La sua famiglia è l’intero genere umano, la sua casa l’universo, ed egli allarga i propri orizzonti di amore e reverenza al mondo animale e vegetale, in realtà all’intero Creato, in cui non può non vedere l’Unico Immutabile Eterno
Brahman.
La stessa cosa non vale per un
Grihastha, l’uomo comune che ha doveri precisi e ineludibili nei confronti del suo lavoro, della sua famiglia e della società in cui vive. Se egli abbandonasse la propria famiglia al suo destino, trascurandola per fare la sua
Sadhana, il suo comportamento sarebbe pienamente
Adharma, contrario alle regole.
Vairagya non può essere un scusa, un alibi per giustificare indifferenza, egoismo o, ancora peggio, il proprio cinismo. Strano destino quello del termine ‘cinico’; la scuola cinica nasce in Grecia nel IV secolo a.C. ad opera di Antistene e del suo allievo Diogene e propugna l’abbandono degli oggetti dei sensi, del mondo in senso lato, per abbracciare una vita dedicata esclusivamente ai valori etici. Una scuola filosofica profondamente imbevuta di
Vairagya quindi. Ma forse il fatto di essere prevalentemente etica più che spirituale ha fatto sì che nel corso del tempo la scuola sia stata dimenticata e ne sia rimasto nella memoria collettiva solo il nome
, che però ha assunto una connotazione ben diversa, decisamente negativa.
Quella dell’indifferenza e del cinismo è una trappola molto pericolosa per il ricercatore spirituale. È facile, per chi non ha ancora raggiunto un livello spirituale davvero avanzato e in esso si è stabilizzato, confondere distacco e indifferenza. Bisogna partire dal presupposto che il distacco non esclude assolutamente l’amore e la cura per gli altri, anzi! Non ci si distacca dagli altri, per diventare più egoisti, ma dalla propria componente grossolana. Più il praticante cresce spiritualmente, più si allarga il raggio di azione del suo amore. Ci siano di esempio in questo le vite dei grandi Santi, non solo dello Yoga e del Vedanta, ma di tutte le vie spirituali, sia quelle puramente filosofiche, sia quelle più portate all’azione.
Le vite di Swami Sivananda, di Ramana Maharshi, di Madre Teresa di Calcutta, ma anche di San Francesco o di Teresa d’Avila, sono state tutte vite improntate all’altruismo, alla generosità, all’abnegazione, all’azione disinteressata per il bene degli altri. Tutte vite di persone che, seppure per vie diverse, hanno conseguito la consapevolezza dell’identità della propria anima individuale con quella cosmica; del proprio essere divini. Persone di elevatissimo livello spirituale che non vedevano in se stessi nient’altro che gli esecutori di un preciso dovere: amare, aiutare e prendersi cura di chiunque ne avesse bisogno. Ognuno ha il suo dovere, secondo il
Varnashrama, secondo il livello di sviluppo karmico raggiunto, secondo il suo
Prarabdha Karma a cui nessuno, neanche gli dei, può sfuggire.
Più diamo corso al nostro
Dharma, più cresciamo spiritualmente; più cresce la nostra consapevolezza e più aumenta la nostra indifferenza alle cose mondane, che ci appaiono sempre più vacue e superficiali.
Vairagya è certamente una conseguenza delle crescita spirituale dell’individuo, ma, a sua volta, diventa uno strumento prezioso per dedicarci in modo sempre più prevalente e poi esclusivo alla
Sadhana, la pratica spirituale, innescando una spirale virtuosa di sicuro successo.
Paolo Quircio
Roma, 01-01-17
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