Dove c'è amore, c'è visione.
Richard of St. Victor

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I SENTIERI DELL' ESSERE
Le mille Vie della Spiritualità
I SENTIERI DELL' ESSERE
LA PRATICA DA SEGUIRE
Un monaco chiese a Dong-Shan:
C'è una pratica che le persone debbano seguire?
Dong Shan rispose:
quando diventi una vera persona c'è una tale pratica.
Sai essere freccia, arco, bersaglio?
<b>Sai essere freccia, arco, bersaglio?

Sai essere freccia, arco, bersaglio?
Conosci la sequenza delle costellazioni?
La fusione dell'idrogeno in elio?
Sai misurare la tua integrità?
Se rispondi
Avrai l'immortalità.

Laura Scottini

MEDITAZIONE TAOISTA
<b>MEDITAZIONE TAOISTA </b>





 

Chiudi gli occhi e vedrai con chiarezza.
Smetti di ascoltare e sentirai la verità.
Resta in silenzio e il tuo cuore potrà cantare.
Non cercare il contatto e troverai l'unione.
Sii quieto e ti muoverai sull'onda dello spirito.
Sii delicato e non avrai bisogno di forza.
Sii paziente e compirai ogni cosa.
Sii umile e manterrai la tua integrità.

 

IL VUOTO CHE DANZA
IL VUOTO CHE DANZA










di H.W.L. Poonja


Rimani ciò che sei ovunque tu sei.
Se fai così, saprai immediatamente
di essere Quello che hai cercato
per milioni di anni.

Non c'è ricerca,
perchè si cerca solo qualcosa che si è perso.
ma quando niente è andato perduto
non ha senso
cercare qualcosa.

Qui semplicemente Stai Quieto.
Non formare nemmeno un pensiero nella mente.
Allara saprai
Chi sei realmente.

per tre motici la ricerca e la pratica
sono follie fuorvianti
sono l'inganno della mente
per posporre la libertà.
Continua...

PAROLE SU DIO
PAROLE SU DIO

di Simone Weil

Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio. … Così pure, la prova che un bambino sa fare una divisione non sta nel ripetere la regola; sta nel fatto che fa le divisioni.

Il bello è ciò che si desidera senza volerlo mangiare. Desideriamo che sia. Restare immobili e unirsi a quel che si desidera senza avvicinarsi. Ci si unisce a Dio così: non potendosene avvicinare. La distanza è l’anima del bello.

Nella prima leggenda del Graal è detto che il Graal, pietra miracolosa che in virtù dell’ostia consacrata sazia ogni fame, apparterrà a chi per primo dirà al custode della pietra, il re quasi paralizzato dalla più dolorosa ferita: “Qual è il tuo tormento?”. La pienezza dell’amore del prossimo sta semplicemente nell’essere capace di domandargli: “Qual è il tuo tormento?”, nel sapere che lo sventurato esiste, non come uno fra i tanti, non come esemplare della categoria sociale ben definita degli “sventurati”, ma in quanto uomo, in tutto simile a noi, che un giorno fu colpito e segnato dalla sventura con un marchio inconfondibile. Per questo è sufficiente, ma anche indispensabile, saper posare su di lui un certo sguardo. Continua...
I BAMBINI
DAGLI OCCHI DI SOLE

I BAMBINI<br> DAGLI OCCHI DI SOLE










Vidi i pionieri ardenti dell’Onnipotente
superando la soglia celeste che è volta alla vita
discendere in frotta i gradini d’ambra della nascita;
precursori d’una moltitudine divina,
essi lasciavano le rotte della stella del mattino
per l’esigua stanza della vita mortale.

Li vidi traversare il crepuscolo di un’era,
i figli dagli occhi di sole di un’alba meravigliosa,
i grandi creatori dall’ampia fronte di calma,
i distruttori possenti delle barriere del mondo
che lottano contro il destino nelle arene della Sua volontà,
operai nelle miniere degli dei,
messaggeri dell’Incomunicabile,
architetti dell’Immortalità.

Nella sfera umana caduta essi entravano,
i volti ancora soffusi della gloria dell’Immortale,
le voci ancora in comunione coi pensieri di Dio,
i corpi magnificati dalla luce dello spirito,
portando la parola magica, il fuoco mistico,
portando la coppa dionisiaca della gioia,
Continua...
IL SEGRETO DELLE STELLE CADENTI
IL SEGRETO DELLE STELLE CADENTI

di Maurizio Di Gregorio

Tutti cerchiamo qualcosa. Se lo cerchiamo nel mondo materiale pensiamo di trovarlo all’esterno di noi stessi. Se lo cerchiamo nel mondo spirituale siamo portati a credere di poterlo trovare all’interno di noi. Una massima dice: la risposta è dentro di te. Una battuta invece dice: la risposta è dentro di te, ma è sbagliata. Ambedue le affermazioni sono vere perché si riferiscono a due esseri diversi. Uno vero e l’altro falso. Come si fa a sapere quale é l’Io interiore che contiene tutte le risposte della vita? Dalla felicità. Nel primo caso si sa solo che si è felici, sia pure per un attimo, si è completamente, immensamente e interamente felici e più correttamente si dovrebbe chiamarla beatitudine. Nel secondo caso sappiamo solo, che a dispetto di ogni altra cosa, momentanea soddisfazione o eccitazione, non si è veramente felici. 
Aivanhov, definendo la natura umana, parla della coesistenza di una natura inferiore e di una natura superiore. All’interno di ognuno è una continua lotta tra due esseri (o stati di essere) in competizione che Aivanhov chiama Personalità e Individualità. “Persona “ è la maschera e in ogni incarnazione la maschera è diversa, “Individualità” è l’abitante della maschera, colui che non cambia, il vero Sé divino. La personalità è in parte ancora inesistente nel bambino ma già tracciata, si sviluppa con l’età come la trama di un tessuto e si consuma nella vecchiaia. Il risveglio dell’anima consiste nel riconoscimento del Sé interiore e nell’abbandono momentaneo della maschera della personalità. Ora anche se possiamo capire qualcosa del nostro essere maschera, né la mente, né il cuore né la volontà sono risolutivi.
E questo perché mente cuore e volontà sono una triade che esiste tanto nella natura delle Individualità quanto nella natura della Personalità.
“Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” Quale è, in ogni dato momento, il cuore che chiede, la mente che cerca, la volontà che agisce? La strada dell’evoluzione spirituale, cioè della evoluzione dell’essere allo Spirito, è insidiosa perché ad ogni sviluppo della Individualità segue uno sviluppo della Personalità. Differentemente il discernimento è possibile solo dal punto di vista della Coscienza Superiore che è esattamente ciò che si illumina.
Fuori da questa esperienza si persiste sempre in un tipo di coscienza media, anche se ampliata o sofisticata, una coscienza media perché media in un equilibrio precario le necessità delle due nature....Continua...
I SETTE ASPETTI DELLA NUOVA COSCIENZA
I SETTE ASPETTI DELLA NUOVA COSCIENZA

di Ervin Laszlo

Il grande compito, la grande sfida del nostro tempo è cambiare se stessi.
Questo elenco delle principali caratteristiche della nuova visione, della nuova coscienza, è scritto per stimolare la trasformazione, perché è possibile acquisire una nuova consapevolezza, perché tutti possono evolvere, tante persone l'hanno già fatto ed è diventata una conditio sine qua non della nostra sopravvivenza sulla Terra.
La prima caratteristica è l'olismo, la visione olistica, per contrastare la visione frammentaria, disciplinaria, atomistica, che separa tutto: la mente dalla natura, l'uomo e la società dalla biosfera, e tutti i campi della realtà l'uno dall'altro. La visione olistica è proprio quella comprensione Continua...
I FIGLI DELLA LUCE
I FIGLI DELLA LUCE




 


I Figli della Luce si nutrono di Pace, Libertà, Amore, Giustizia, Grazia, Benevolenza, Comprensione, Compassione, Generosità, Bontà, Luce, Verità, Positività, trasmettendo tutto questo intorno a loro. Le creature che vengono in contatto con i Figli della Luce percepiscono la Positività dell’operato della “Luce Amore” e uno stato di benessere entra in loro. Non sono consapevoli della fonte di questa Positività, ma stanno volentieri in compagnia dei Figli Luce dispensatori d’Amore.
Continua...
UNA SPIRITUALITA' ECOLOGICA
UNA SPIRITUALITA' ECOLOGICA

di Matthew Fox

L’ecologia e la spiritualità sono le due facce della stessa medaglia. La religione deve lasciar andare i dogmi in modo da poter riscoprire la saggezza del mondo.
Come dovrebbe essere una religione ecologica? Negli ultimi 300 anni l’umanità è stata coinvolta in una grande desacralizzazione del pianeta, dell’universo e della propria anima, e questo ha dato origine all’oltraggio ecologico. Saremo capaci di recuperare il senso del sacro?La religione del futuro non sarà una religione in senso stretto del termine, dovrà imparare a lasciare andare la religione. Il Maestro Eckhart, nel quattordicesimo secolo disse, “Prego Dio di liberarmi da Dio”. Per riscoprire la spiritualità, che è il cuore autentico di ogni religione vera e fiorente, dobbiamo liberarci dalla religione. Sembra un paradosso. La spiritualità significa usare il cuore, vivere nel mondo, dialogare con il nostro sé interiore e non semplicemente vivere a un livello organizzativo esterno.
E. F. Schumacher, nel suo profetico modo di scrivere, disse, nell’epilogo di Piccolo è bello, “Dappertutto la gente chiede, ‘Cosa posso fare praticamente?’ La risposta è tanto semplice quanto sconcertante, possiamo, ciascuno di noi, mettere in ordine la nostra casa intima, interiore. Per far questo non troviamo una guida nella scienza o nella tecnologia, poiché i valori sui quali esse si poggiano dipendono sommamente dal fine per il quale sono destinate. Tale guida la si può invece ancora trovare nella tradizionale saggezza dell’umanità”.
Tommaso d’Aquino, nel tredicesimo secolo disse, “Le rivelazioni si trovano in due volumi – la Bibbia e la natura”. Ma la teologia, a partire dal sedicesimo secolo, ha messo troppa enfasi nelle parole della Bibbia, o del Vaticano o dei professori, ha messo tutte le uova nel paniere delle parole, parole umane, e ha dimenticato la seconda fonte della rivelazione, la natura!
Il Maestro Eckhart disse, “Ogni creatura è la parola di Dio e un libro su Dio”. In altre parole, ogni creatura è una Bibbia. Ma come ci avviciniamo alla saggezza biblica, alla saggezza sacra delle creature? Col silenzio. C’è bisogno di un cuore silente per ascoltare la saggezza del vento, degli alberi, dell’acqua e della terra. Nella nostra ossessiva cultura verbale, abbiamo perso il senso del silenzio. Schumacher disse, “Siamo ormai troppo intelligenti per sopravvivere senza saggezza”. Continua... 
SULL'ANARCHIA BUDDISTA
SULL'ANARCHIA BUDDISTA di Gary Snyder

Da un punto di vista buddista, l'ignoranza che si proietta nella paura e nel vano appetito impediscono la manifestazione naturale. Storicamente, i filosofi buddisti non hanno saputo analizzare fino a che punto l'ignoranza e la sofferenza erano dovuti o favoriti da fattori sociali, considerando il timore e il desiderio come fatti intrinseci alla condizione umana. Così, la filosofia buddista si interessò principalmente alla teoria della conoscenza e la psicologia fu svantaggiata, per dare più spazio allo studio dei problemi storici e sociologici. Anche il buddismo Mahayana possiede un'ampia visione della salvezza universale, la sua realizzazione effettiva si è concretizzata nello sviluppo di sistemi pratici di meditazione per liberare a una minoranza di individui da blocchi psicologici e condizionamenti culturali. Il buddismo istituzionale è stato chiaramente disposto ad accettare o a ignorare le disuguaglianze e le tirannie sotto il sistema politico che vigeva. È stata come la morte del buddismo, posto che è comunque la morte che riesce a far comprendere il significato della compassione. La saggezza senza compassione non sente dolore.
Continua...
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DISTACCO, NON ATTACCAMENTO O VAIRAGYA



di Paolo Quircio
 
Nel XV capitolo della Bhagavad Gita Sri Krishna spiega ad Arjuna la struttura del Cosmo, e del microcosmo individuale che lo riflette in maniera speculare, con un’immagine molto bella e poetica, anche se un po’ criptica. L’Universo viene descritto come un albero di pipal. Questo albero, il cui nome scientifico è Ficus religiosa, è molto diffuso in tutta l’India ed è considerato sacro sia dagli Induisti che dai Buddhisti. Gautama Buddha ottenne l’illuminazione mentre meditava seduto sotto a un albero di pipal. Nei testi induisti si narra di molti convegni tenuti dalla Trimurti, Brahma, Vishnu e Siva sotto a un pipal. Il pipal è sacro anche alla dea Lakshmi e le donne indiane a Lei rivolgono le loro preghiere quando desiderano dei figli e non riescono ad averne.

Per questo è comune vedere nei templi dedicati alla dea, di fronte all’altare, un albero di pipal con dei cordoncini rossi legati intorno al tronco o con dei fazzoletti di vari colori, di solito pieni di riso, annodati come fagotti e appesi ai rami; sono sia dei pegni per la richiesta della grazia, sia dei segni di ringraziamento per averla ottenuta. Inoltre, sia le foglie che la corteccia dell’albero di  pipal sono molto usate nella medicina ayurvedica e ad esse si attribuiscono innumerevoli proprietà terapeutiche.  

Un altro nome dell’albero, ed è in effetti quello usato nella Gita, è ashvattha. In sanscrito shva vuol dire ‘domani’ e quindi ashvattha è qualcosa che non dura neanche fino a domani, dando così l’idea del costante cambiamento, del costante divenire dell’Universo materiale, mutante e instabile, così com’è percepito dai nostri sensi, altrettanto mutanti e instabili in quanto ad esso appartenenti. La particolarità dell’albero di pipal descritto nella Gita è che, contrariamente al solito,  è a testa in giù, con le radici in alto, metaforicamente verso il Divino, verso la Fonte, e la chioma in basso, immersa nel mondo materiale.

Il nutrimento di questo albero è costituito dai Guna, le tre qualità che contraddistinguono l’intero creato. I suoi germogli sono gli oggetti dei sensi e le sue foglie i Veda, i testi della sapienza divina. Come un totem o un obelisco, il tronco dell’albero fa da tramite tra Terra e Cielo, tra umano e divino, tra sottile e grossolano. Solo chi capisce la struttura di questo albero ashvattha, ci dice Krishna, capisce i Veda e può quindi essere pronto per l’illuminazione. L’uomo comune, completamente invischiato nella chioma dell’albero, che rappresenta, come detto, il mondo materiale, non riesce a coglierne l’intera struttura e pensa che quel che vede sia tutto.


“La sua forma non è qui percepita come tale, né la sua fine, né il suo inizio, né la sua esistenza; avendo reciso questo albero di pipal dalle salde radici con la forte scure del non attaccamento” “Allora andrà ricercata quella meta, conseguita la quale, nessuno torna di nuovo. Io cerco rifugio in quel Purusha primordiale da cui emana l’Attività Eterna, i processi cosmici.” B.G. XV, 3-4. Quindi Sri Krishna ci dice che per districarci dalla folta chioma di questo albero, che non solo ci trattiene nel mondo materiale e ci impedisce di raggiungere “quella meta” da cui “nessuno torna di nuovo”, Moksha, la liberazione, ma che a causa dell’ignoranza spirituale ci impedisce anche di conoscere la realtà profonda dell’Universo e, specularmente, del nostro Sé più intimo, è necessario mettere mano alla ‘forte scure del non attaccamento’, quello che in sanscrito è detto Vairagya.

Vairagya è un concetto meno semplice di quanto potrebbe sembrare. Per due motivi: uno perché è strettamente collegato al Dharma e, di conseguenza, al sistema del Varnashrama 1 , due perché è diretta conseguenza di un altro importante elemento dello Yoga e del Vedanta: Viveka, la discriminazione. Partiamo da Viveka. Molti sanno, ed è stato già detto, che la parola Yoga deriva dalla radice sanscrita Yug, che vuol dire ‘unione’. Unione di cosa? Chi dice di mente e corpo, chi di mente e anima; in effetti, stando al testo fondamentale dell’Advaita Vedanta, Viveka Chudamani, del grande Rishi Adi Shankaracharya, Yug è l’unione tra Atman e Brahman, l’anima individuale, quella che pervade il Jiva, e l’anima cosmica. Un’unione  che non si può conseguire, poiché fa già parte della nostra natura essenziale, innata, è la condizione comune a tutti noi.

Quello che si può ed è nostro dovere conseguire è invece la consapevolezza di questa identità. Il raggiungimento di questa consapevolezza è il fine ultimo di ogni percorso spirituale e sia lo Yoga, sia l’Advaita Vedanta, il Vedanta non dualistico, lo dicono con chiarezza in ogni testo.

Per raggiungere questa coscienza dell’unione però, è necessario procedere prima ad una separazione, a una discriminazione. Noi  Jiva siamo puro spirito, l’eterno e immutabile Atman, ma tendiamo a identificarci con la nostra parte grossolana, con il veicolo di cui l’Atman ha bisogno per procedere nel suo percorso karmico: corpo, mente e prana. Durante questo lungo cammino, piano piano si comincia a prendere coscienza di questa dualità; una volta realizzata questa dualità ci si rende conto che c’è una parte di noi che è eterna e immutabile, l’Atman appunto, e una parte composta da corpo, mente e prana i quali, una volta terminato il loro scopo, torneranno al proprio mondo di appartenenza, quello della natura grossolana.

Questa presa di coscienza sposta gradualmente l’identificazione dal non-Atman all’Atman, dal grossolano al sottile. È come se a un certo punto smettessimo di identificarci con i vestiti che indossiamo o con la vettura che conduciamo, per capire che la nostra essenza è diversa da quella dei vestiti o delle vetture. È un lavoro di sgrossamento continuo, quello che il Jiva deve compiere per trovare la sua vera natura. Penso alla risposta data da Michelangelo a chi gli chiedeva come facesse a trarre una statua di fattura così fine da un blocco informe di marmo: “Semplice, basta togliere il superfluo”. Per togliere il superfluo bisogna avere ben chiaro nella mente il risultato finale e, soprattutto, il desiderio prepotente di trovarlo, aldilà della barriera della materia in eccesso.

Per capire meglio come Viveka, la discriminazione, possa aiutarci a dipanarci dalle trappole di Maya, il velo dell’illusione che ci fa prendere lucciole per lanterne, l’irreale per il reale, l’Atman per il non-Atman, bisogna fare una piccola descrizione della struttura psichica dell’individuo nella filosofia del Vedanta.

Secondo il Vedanta e la filosofia dello Yoga, il Jiva, l’Atman incarnato in un corpo umano, possiede uno ‘strumento interiore’, detto Antakharana, che è composto da quattro parti diverse: Manas, la mente ordinaria, che analizza ed elabora ciò che le viene comunicato dai cinque sensi, gli Jnana Indriya; Buddhi, la mente superiore, intuitiva, che riesce ad elaborare concetti astratti extra-sensoriali; Chitta, la mente subconscia, magazzino di pensieri, di emozioni e di esperienze che, all’occorrenza, vengono richiamate da Manas per comprendere ed elaborare i segnali che provengono dagli organi di senso.

La quarta componente è l’Ahamkara, il senso dell’io e del mio, che causa l’erronea identificazione con le Upadhi, corpo, mente e prana, gli attributi che fanno apparire l’Atman limitato, cosa che in realtà non è, essendo della stessa essenza del Brahman, il Divino, come una goccia d’acqua è della stessa essenza di tutta l’acqua che compone l’oceano. Uscire da questa erronea identificazione è lo scopo ultimo di tutta la pratica Yogica. Solo abbandonando questa illusoria concezione di essere l’abito che indossiamo e non chi indossa l’abito stesso, potremo raggiungere Jnana, la conoscenza spirituale che  ci libererà dal ciclo di nascite e morti.

Nei versi dal 160 al 164 del suo ‘Viveka Chudamani’, ‘Il gioiello della corona della discriminazione’, Adi Shankaracharya spiega con chiarezza questo concetto: “L’uomo sciocco pensa di essere il corpo; l’uomo istruito pensa di essere una combinazione di corpo e anima,  mentre il saggio che grazie alla discriminazione ha raggiunto la realizzazione, vede l’eterno Atman come il suo Sé, e pensa ‘Io sono Brahman’.”

O sciocco, smettila di identificarti con questo mucchio di pelle, carne, grasso, ossa e sporcizia e piuttosto identificati con il Brahman Assoluto, il Sé di tutti, ottenendo quindi la Pace suprema.

Finché l’erudito non abbandona la sua erronea identificazione col corpo, gli organi e simili, che sono irreali, non c’è alcuna possibilità di emancipazione per lui, anche se possiede la massima erudizione nel campo della filosofia del Vedanta.”

Così come non ti identifichi con la tua ombra, con la tua immagine riflessa o con la tua immagine che sogni, o con il corpo che immagini nel tuo cuore, cessa di fare la stessa cosa anche col tuo corpo vivente.”

L’identificazione col corpo è la radice che produce la miseria delle nascite nelle persone che sono attaccate all’irreale; perciò distruggila con la massima cura. Quando si abbandona questa identificazione causata dalla mente, non c’è più alcuna possibilità di reincarnazione.”

Una volta raggiunto un buon livello di consapevolezza della propria reale, divina identità grazie a Viveka, Vairagya nasce spontanea. È difficile continuare a preoccuparsi del transitorio, del mutevole, dell’inconsistente quando ci si rende conto che tutto ciò è ben poco diverso dall’ombra o dall’immagine riflessa in una pozza d’acqua. Come un sogno smette di apparire reale al momento del risveglio, così la ‘realtà’ di Maya smette di apparire tale al momento del risveglio spirituale.

         Abbiamo già citato in un precedente articolo (Il simbolismo di Dattatreya)  la bella definizione che dà Krishna di Vairagya: “Come le foglie del loto non sono toccate dall’acqua, così colui che, trasceso l’attaccamento, agisce rivolgendo le sue azioni a Brahma non si identifica con esse”(B.G. V,10). Quindi ogni sofferenza è causata dall’attaccamento, e l’abbandono dell’attaccamento è la soluzione. L’attaccamento nasce dall’ignoranza: ignoriamo che il nostro stato naturale è quello di Ananda, la beatitudine divina, e andiamo a cercare la felicità all’esterno di noi, inseguendo senza sosta gli oggetti dei nostri desideri, innescando un’interminabile catena di passioni, di illusioni e di delusioni. È anche importante notare che la Gita parla di ‘trascendere’ l’attaccamento, non di reprimerlo. La repressione del desiderio e dell’attaccamento non fa che peggiorare la situazione, essi vanno accompagnati pian piano alla porta con la pratica spirituale.

Abbiamo detto che Vairagya, oltre ad essere una conseguenza di Viveka, la discriminazione tra il reale e l’irreale, è anche strettamente collegata al Dharma e al sistema del Varnashrama.2 A seconda del punto raggiunto nel proprio percorso karmico, ogni Jiva ha doveri diversi. A un Sannyasin, un monaco che ha rinunciato al mondo materiale e che vive in povertà e castità, si può e si deve chiedere di rinunciare anche agli affetti familiari, che inevitabilmente limitano e creano attaccamento. Egli ha raggiunto una tale altezza spirituale che lo eleva ben al di sopra dei limiti dell’uomo comune. La sua famiglia è l’intero genere umano, la sua casa l’universo, ed egli allarga i propri orizzonti di amore e reverenza al mondo animale e vegetale, in realtà all’intero Creato, in cui non può non vedere l’Unico Immutabile Eterno Brahman.

La stessa cosa non vale per un Grihastha, l’uomo comune che ha doveri precisi e ineludibili nei confronti del suo lavoro, della sua famiglia e della società in cui vive. Se egli abbandonasse la propria famiglia al suo destino, trascurandola per fare la sua Sadhana, il suo comportamento sarebbe pienamente Adharma, contrario alle regole.  

Vairagya non può essere un scusa, un alibi per giustificare indifferenza, egoismo o, ancora peggio, il proprio cinismo. Strano destino quello del termine ‘cinico’; la scuola cinica nasce in Grecia nel IV secolo a.C. ad opera di Antistene e del suo allievo Diogene e propugna l’abbandono degli oggetti dei sensi, del mondo in senso lato, per abbracciare una vita dedicata esclusivamente ai valori etici. Una scuola filosofica profondamente imbevuta di Vairagya quindi. Ma forse il fatto di essere prevalentemente etica più che spirituale ha fatto sì che nel corso del tempo la scuola sia stata dimenticata e ne sia rimasto nella memoria collettiva solo il nome, che però ha assunto una connotazione ben diversa, decisamente negativa.

Quella dell’indifferenza e del cinismo è una trappola molto pericolosa per il ricercatore spirituale. È facile, per chi non ha ancora raggiunto un livello spirituale davvero avanzato e in esso si è stabilizzato, confondere distacco e indifferenza. Bisogna partire dal presupposto che il distacco non esclude assolutamente l’amore e la cura per gli altri, anzi! Non ci si distacca dagli altri, per diventare più egoisti, ma dalla propria componente grossolana. Più il praticante cresce spiritualmente, più si allarga il raggio di azione del suo amore. Ci siano di esempio in questo le vite dei grandi Santi, non solo dello Yoga e del Vedanta, ma di tutte le vie spirituali, sia quelle puramente filosofiche, sia quelle più portate all’azione.

Le vite di Swami Sivananda, di Ramana Maharshi, di Madre Teresa di Calcutta, ma anche di San Francesco o di Teresa d’Avila, sono state tutte vite improntate all’altruismo, alla generosità, all’abnegazione, all’azione disinteressata per il bene degli altri. Tutte vite di persone che, seppure per vie diverse, hanno conseguito la consapevolezza dell’identità della propria anima individuale con quella cosmica; del proprio essere divini. Persone di elevatissimo livello spirituale che non vedevano in se stessi nient’altro che gli esecutori di un preciso dovere: amare, aiutare e prendersi cura di chiunque ne avesse bisogno. Ognuno ha il suo dovere, secondo il Varnashrama, secondo il livello di sviluppo karmico raggiunto, secondo il suo Prarabdha Karma a cui nessuno, neanche gli dei, può sfuggire.

Più diamo corso al nostro Dharma, più cresciamo spiritualmente; più cresce la nostra consapevolezza e più aumenta la nostra indifferenza alle cose mondane, che ci appaiono sempre più vacue e superficiali. Vairagya è certamente una conseguenza delle crescita spirituale dell’individuo, ma, a sua volta, diventa uno strumento prezioso per dedicarci in modo sempre più prevalente e poi esclusivo alla Sadhana, la pratica spirituale, innescando una spirale virtuosa di sicuro successo.

Paolo Quircio
Roma, 01-01-17
 
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E' fatto divieto di pubblicazione sia totale che parziale in altra sede senza una ns. specifica autorizzazione. I trasgressori saranno perseguiti a norma di legge.

 
 
 
 

1 Vedi il precedente articolo dal titolo ‘Dharma’, nella Newsletter Dossier del 20.12.2017
2 Vedi articolo sul Dharma, nella Newsletter Dossier del 20.12.2017


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