di Paolo Quircio
La Bhagavad Gita, pur essendo uno degli scritti fondamentali della letteratura sacra della tradizione indiana, non è in realtà un testo a sé stante. I suoi settecento distici o
sloka fanno parte di un testo ben più ampio, il Mahabharata, la storia della guerra di Kurukshetra. Lo scontro è il culmine di un lungo dissidio tra i cinque Pandava, figli di Pandu, e i cento Kaurava, figli del fratello cieco di Pandu, Dhritarastra. La guerra si rende inevitabile vista l’indisponibilità dei Kaurava, guidati dal perfido Duryodhana, a restituire ai cugini la parte di regno che legittimamente spetta loro.
Dopo una lunga serie di episodi, l’intero poema consiste di quasi 100.000
sloka ed è considerato uno dei poemi epici più corposi della storia dell’umanità, si arriva quindi alla battaglia. I due eserciti si schierano uno di fronte all’altro e, prima di dare il segnale di inizio, il capo militare dei Pandava, Arjuna chiede al suo auriga Krishna, il dio Krishna, IX
Avatar di Vishnu, di condurlo al centro dei due schieramenti, affinché possa vedere bene i nemici con cui sta per combattere. Lì Arjuna vede non solo i cugini, ma anche zii, maestri, parenti e amici.
L’idea della guerra fratricida, dell’eccidio che porterà distruzione e lutti a persone che egli ama e rispetta, lo turba a tal punto che, lasciando cadere il suo arco dalle mani, in preda ad un profondo abbattimento, comunica all’amico Krishna che non ha nessuna intenzione di dare il via alla battaglia, né di combattere. Piuttosto che uccidere il suo stesso sangue, preferisce essere ucciso senza difendersi o vivere come un mendicante. Vedendo ciò, Krishna, che da amico diventa Maestro e assume la sua veste di
Jagadguru, Maestro universale, poiché rivolgendosi ad Arjuna egli parla all’umanità intera, esorta l’amico e ora discepolo a non dimenticare il suo
Dharma, il suo dovere, e combattere.
Utilizzando argomenti sia di natura umana che divina, Krishna spiega ad Arjuna tutti i motivi per cui non può astenersi dal farlo, senza farsi distrarre da quelli che la sua mente gli propone e che, pur apparendo giusti secondo la morale comune, sono in realtà contrari al
Dharma. Per tutta la durata della Gita Krishna spiega spesso l’importanza del rispetto del
Dharma, affrontando il problema da varie angolazioni. Ma poi, poco prima di concludere questa serie di discorsi, nell’ultimo capitolo, il XVIII, al verso 66, Krishna ci riserva una grossa sorpresa, e dice ad Arjuna: “Abbandonando tutti i
Dharma, prendi rifugio esclusivamente in me; io eliminerò tutti i tuoi peccati, non temere.” Per capire questa apparente contraddizione dobbiamo quindi cercare di capire cos’è il
Dharma e perché è così importante da giustificare tante spiegazioni da parte di un Maestro di tale livello.
Dharma è una parola che, come molte altre parole sanscrite, non ha un esatto corrispettivo nelle nostre lingue. Comunemente viene tradotta con ‘rettitudine’, ‘dovere’, ‘legge’ o ‘religione’. In realtà una sola parola non può esprimere la complessità del concetto.
Dharma è ciò che ci conduce in alto nel nostro percorso spirituale e
Adharma è, al contrario, ciò che ce ne allontana o che rallenta il nostro procedere. Occorre fare una precisazione: il percorso spirituale non riguarda solo chi lo ha intrapreso consapevolmente, solo gli
Yogi o le persone religiose e i praticanti di varie discipline spirituali; il percorso spirituale è quel lunghissimo cammino che gli
Atman percorrono, più o meno consapevolmente e comunque sempre secondo le leggi del
Karma, per tornare all’unione,
Yug, con il supremo
Brahman, di cui sono parte.
La parola
Dharma viene dalla radice
shṛ, che vuol dire ‘sostenere’. Quindi il rispetto del nostro dovere è quello che ci sostiene nella via dello sviluppo spirituale. È conforme al
Dharma il comportamento etico, retto, non violento, rispettoso di ciò che ci circonda; lo sono anche le pratiche spirituali, la meditazione, la preghiera, l’offerta rituale; lo è lo studio dei testi sacri e la frequentazione di persone spiritualmente elevate; in generale tutto ciò che ci aiuta ad elevarci. In questo senso le traduzioni a cui si accennava sono corrette, ma trascurano di sottolineare che il vero senso del
Dharma è l’armonia. L’armonia con le leggi divine, con l’energia dell’universo e con lo spirito divino che risiede dentro di noi, che è la nostra essenza più profonda. L’adesione a questa armonia, l’immettersi nel flusso di energia divina, come ci si abbandona alla corrente di un fiume, questo è il senso profondo del
Dharma . Quello che nel mondo è conosciuto come Induismo, in India viene definito ‘
Sanatana Dharma’, l’antica via. Una via che è stata tracciata e che ci viene indicata dagli
Shastra, i testi sacri che insegnano all’umanità i modi per individuare questo flusso di energia divina e per adeguarsi ad esso, al fine di raggiungere
Moksha, la liberazione.
Come abbiamo detto, del
Dharma fanno parte tutte quelle regole generali che valgono per l’umanità intera, senza distinzioni. Ma sappiamo che la morale non è univoca, i principi etici di alcune società sono ben diversi da quelli di altre. Oggi si parla molto di ‘relativismo’ etico, come se fosse una novità. Fino a non molti secoli fa i sacrifici animali e persino umani erano comunissimi; la schiavitù e il servaggio della gleba sono stati formalmente aboliti solo all’inizio del ‘900. Omosessualità, libertà sessuale, uso delle droghe, libertà religiosa e di pensiero in generale, la stessa alimentazione, sono tutte cose appartenenti alla sfera etica che cambiano, anche drasticamente, da luogo a luogo, da epoca ad epoca. Ma come le regole etiche cambiano a seconda del contesto geografico, sociale e temporale, così cambiano anche da persona a persona, e con le regole etiche cambiano anche i doveri morali e il
Dharma. I doveri di uno studente non sono gli stessi di un maestro, quelli di un poliziotto sono diversi da quelli di un pittore e così via. Per questo ogni
Jiva oltre a rispettare le regole generali del
Dharma, ha un suo personale
Swadharma.
Nella Bhagavad Gita, Krishna dice: “È molto meglio eseguire il proprio
Dharma, anche se in maniera imperfetta, piuttosto che eseguire a perfezione il
Dharma di un altro. È infatti preferibile morire nel compimento del proprio
Dharma, invece di seguire il
Dharma di un altro, che è fonte di pericolo.” B.G. III, 35. E poi: "E' meglio impegnarsi nel proprio
Swadarmha, anche se in modo imperfetto, piuttosto che eseguire il
Dharma di altri in modo perfetto. Chi esegue i doveri prescritti dalla propria natura specifica, e in essi si impegna non incorre nell’errore” B.G XVIII, 47. Che vuol dire, fare il proprio dovere anche se in maniera imperfetta è meglio che fare quello di una altro perfettamente? Vuol dire che dobbiamo capire qual è il punto di percorso karmico in cui siamo e comportarci di conseguenza. Una frase molto famosa è “
Ahimsa Paramo Dharma”,
l’Ahimsa, la non violenza, è il
Dharma più elevato.
Questo è sicuramente valido per un
Sannyasin, un uomo che ha rinunciato al mondo e considera il suo corpo solo una fastidiosa appendice dell’
Atman. Ma se un poliziotto pensa di essere un seguace della non violenza e lascia che i rapinatori agiscano indisturbati, non sta facendo il suo dovere. Se un filosofo si mette a coltivare la terra, probabilmente dopo due giorni avrà la schiena a pezzi e un orto improduttivo; se un ortolano pensa di essere in grado di mandare una navicella spaziale sulla Luna…. Il
Dharma è lo strumento che abbiamo per bruciare i
Samskara, per consumare il
Prarabdha Karma che fa sì che ci troviamo nella nostra situazione attuale. Per bruciare quel
Karma abbiamo degli obblighi precisi, che ci siamo creati con le nostre mani nelle nostre vite precedenti. Oggi la situazione sociale e personale è molto fluida, indefinita, ed è pertanto assai difficile comprendere bene a quali doveri attenersi. Nella società vedica, quella in cui è stato promulgato il principio del
Dharma, le regole sociali e personali erano molto più chiare di quanto non lo siano oggi. Lo
Swadharma, il
Dharma individuale, era regolato da un sistema complesso ma ben chiaro, detto dei
Varnashrama.
Varna sono quelle che vengono comunemente dette caste. Oggi il concetto di casta appare ingiusto e anacronistico. Si ritiene che nelle società moderne la mobilità sociale sia un diritto, che anche i figli dei poveri abbiano il diritto di affermarsi socialmente e accedere a posizioni più prestigiose di quelle dei propri genitori. Ogni Americano può diventare presidente degli Stati Uniti. Ai tempi di Napoleone, per dare un’idea della democraticità del sistema, si diceva che ogni soldato aveva nel suo zaino il bastone di Maresciallo di Francia. Peccato che su migliaia e migliaia di soldati ci fosse un solo Maresciallo di Francia, e su milioni di Americani ci sia un solo Presidente. In realtà il sistema delle caste sembra essere ben radicato in ogni parte del pianeta, anche se in maniera subdola e disorganizzata, con l’unico scopo di perpetuare i privilegi di chi già ne gode e che spesso non è in grado, né ha la volontà di espletare i propri compiti sociali in maniera etica ed efficace. Nella società vedica la società veniva intesa come un unico corpo, le cui diverse parti avevano ruoli specifici differenti, ma tutti importanti nella stessa misura.
I quattro
Varna sono: i
Brahmani, i sacerdoti, il cui dovere è quello di preservare la conoscenza dei testi (si ricordi che all’epoca la trasmissione delle conoscenze era perlopiù orale), renderli comprensibili ai più, officiare i riti sacri.La qualità che li distingue è
Sattva, la purezza, e vengono paragonati alla testa del corpo umano; gli
Kshatriya hanno il compito di governare la società, di amministrare la giustizia e, se necessario, ricorrere alle armi per difendere il proprio popolo, anche a costo della vita. In tutti i testi epici i re e il loro seguito di nobili, non solo entrano sul campo di battaglia in prima persona, ma sono in genere quelli che per dare il buon esempio ed esortare le truppe si espongono di più ai rischi dello scontro armato. La loro qualità è
Rajas-Sattva, attività, ma finalizzata alla purezza, e rappresentano le mani del corpo; i
Vaishya sono commercianti, agricoltori e artigiani e il loro compito è quello di fornire alla società tutti i beni di cui ha bisogno per vivere. La qualità che li distingue è
Rajas-Tamas, perché nella loro attività c’è comunque una componente di materialità, di non elevazione, e sono paragonati allo stomaco; infine i
Sudra, il cui compito è di eseguire bene le direttive loro impartite. La loro qualità è
Tamas, l’inerzia, proprio perché è una casta di persone che ha bisogno di una guida per poter agire, e vengono paragonati ai piedi. Due cose vanno assolutamente dette riguardo al sistema dei
Varna: la casta di appartenenza non è un gioco del destino, né uno scherzo di un Dio burlone; tutto ciò che accade ad ognuno di noi è deciso e costruito da noi stessi nelle nostre vite precedenti.
Se il livello spirituale raggiunto nelle incarnazioni prima dell’attuale era basso, impregnato di
Tamas, vuol dire che dobbiamo ancora percorrere quella parte di strada Karmica necessaria a scrollarcelo di dosso. Una vita dopo l’altra, un’incarnazione dopo l’altra si passa da
Tamas a
Rajas e quindi a
Sattva. Sarà la prevalenza di un
Guna sugli altri due a decidere il
Varna di appartenenza; l’altro punto davvero importante è che il dovere prevale sul diritto. Il
Brahmano ha il DOVERE di mantenere la sua purezza sattvica, di mantenere vive le conoscenze sacre, di celebrare le
Puja, i riti sacri, e così via; lo
Kshatriya ha il dovere di guidare e difendere il suo popolo, come un padre ha quello di guidare e difendere i suoi figli. Purtroppo, come sempre accade, anche la società vedica nel corso del tempo si è corrotta e dal dovere si è passati alla ricerca e alla difesa dei privilegi. Poi, nell’attuale
Kali Yuga, l’epoca nera, il sistema dei
Varna si è disintegrato, rimanendo esclusivamente un sistema di privilegi e di sopraffazione, non più legato alle qualità intrinseche della persona e al suo percorso karmico.
A decidere lo
Swadharma di ogni persona, oltre al
Varna di appartenenza concorre l’
Ashrama,la fase della vita in cui ci si trova. Esistono, secondo la tradizione vedica, quattro fasi:
Brahmachariya, l’età dell’apprendimento;
Grihastha, l’età in cui si lavora, si forma una famiglia, si partecipa alla vita sociale; la fase successiva,
Vanaprastha, è quella in cui i figli sono cresciuti e sono ormai in grado di prendere in mano le redini della famiglia. È la fase in cui ci si può ritirare dalla vita attiva e ‘andare nella foresta’, ci si prepara, eventualmente anche insieme al coniuge, all’ultima fase, quella del
Sannyas, la rinuncia al mondo. Queste quattro fasi non vengono necessariamente concluse tutte in una sola vita, ma si possono trascinare da un’incarnazione all’altra. Così capita che alcune persone mostrano fin dall’infanzia la tendenza alla vita ritirata, meditativa, mentre altre sono ancora nella fase laica e sociale.
Un altro elemento di tutta le dottrina del
Dharma sono i quattro
Purushartha, i quattro obiettivi della vita:
Artha, la ricerca del benessere materiale,
Kama, l’appagamento dei desideri dei sensi,
Dharma, la retta condotta volta allo sviluppo spirituale, e
Moksha, la liberazione dal
Samsara, il ciclo di nascite e morti. È inevitabile, per chi nasce in questo mondo, incarnato in un corpo umano, non provare desiderio per le comodità della vita materiale e per il piacere derivante dall’appagamento dei sensi; l’importante non è reprimere queste naturali tendenze, ma gradualmente sublimarle, innanzitutto seguendo il
Dharma e in particolare il proprio
Swadharma, ma soprattutto finalizzando sempre di più la propria esistenza allo sviluppo spirituale. L’elevazione spirituale inevitabilmente conduce ad un progressivo raffinamento dell’anima, per cui le passioni strettamente legate al corpo, all’io e al mio tendono a perdere importanza, mentre aumenta considerevolmente il desiderio di liberazione da quella che appare sempre di più una prigione da cui fuggire.
Swami Sivananda in uno dei suoi tanti libri racconta una breve storia molto istruttiva. Uno Yogi vive in completo eremitaggio nella foresta, seminudo e nutrendosi di radici. Medita ore e ore ogni giorno da molti anni. Una mattina un uccellino da sopra un ramo gli fa cadere in testa un ‘ricordino’. Lo Yogi si infuria, fissa l’uccellino con occhi furenti e lo incenerisce con la sola forza dello sguardo. Impressionato dai suoi poteri, lo Yogi si compiace molto dei risultati ottenuti con la sua
Sadhana. Il giorno seguente si reca nel vicino villaggio e bussa alla porta di una casa per chiedere da mangiare. La padrona di casa gli dice di aspettare un po’, perché è molto impegnata. Lo Yogi si irrita e, come ha fatto il giorno prima con l’uccellino, fissa la donna con gli stessi occhi furenti. La donna si gira e sorridendo gli dice ‘Swamiji, guarda che io non sono un uccellino che puoi incenerire così facilmente; io sono impegnata a fare il mio dovere di madre e di moglie con un marito gravemente malato. Appena finito ti darò da mangiare.” Qual è il significato di questo aneddoto? Che qualsiasi attività eseguita con dedizione, spirito di sacrificio e altruismo avvicina a
Moksha. Essere degli eremiti che poi si fanno trasportare dall’ira è poco produttivo. Come già detto a proposito del
Karma, quello che conta veramente, più dell’atto in sé, è la motivazione dell’azione. Anche il lavoro più umile può portare molto in alto, se fatto col cuore e col giusto spirito.
Credo sia normale chiedersi: come faccio a sapere qual è il mio
Swadharma? E sapere a che punto sono del mio percorso karmico? Il semplice fatto di porsi la domanda presuppone un livello di consapevolezza spirituale abbastanza avanzato. La meditazione, lo Yoga e le discipline spirituali aiutano a sviluppare quella mente intuitiva che ci aiuta a dare una risposta a queste domande. Più si procede nella
Sadhana, la pratica spirituale, più l’orizzonte si allarga; più ci si distacca dal concetto di io e mio, più ci si abbandona alla volontà divina, all’insegnamento degli
Shastra, i testi sacri, più aumenta la fiducia con cui ci si lascia andare nella corrente degli insegnamenti dei grandi maestri, più le cose diventano chiare. Non dobbiamo aspettarci che qualcuno venga a dirci chi siamo, dove siamo e cosa dobbiamo fare. E se qualcuno dice di poterlo fare, diffidate.
Tutti i grandi Guru hanno dato ai propri discepoli gli strumenti per raggiungere la Verità, non una verità precotta e predigerita. Quando hanno conferito poteri psichici particolari, lo hanno fatto solo momentaneamente, per superare l’eventuale scetticismo e incoraggiarli nel percorso. Il lavoro va fatto sempre in prima persona, utilizzando tutti gli strumenti che le varie scuole e discipline spirituali ci mettono a disposizione, tutti i
Dharma, perché, come si dice, i sentieri per raggiungere la cima della montagna sono tanti, ma la cima è una sola.
Infine, torniamo al cap.XVIII della Gita, verso 66: “Abbandonando tutti i
Dharma, prendi rifugio esclusivamente in me; io eliminerò tutti i tuoi peccati, non temere.” Perché anche il
Dharma, o meglio
, i
Dharma, vanno abbandonati dopo averne fatto uso. Sono mezzi per un fine. Una volta raggiunta la conoscenza profonda del Sé, che è il fine, non abbiamo più bisogno di alcuna disciplina, perché si è raggiunta
Yug, l’unione dell’
Atman col
Brahman. Il Mahatma Gandhi sosteneva che “Dio non ha alcuna religione”, perché le religioni, almeno nel loro scopo originario, sono strumenti per avvicinare l’uomo al Divino. Lo Yogi, il praticante spirituale che ha raggiunto
Moksha, non ha più obiettivi davanti a sé, e quindi non ha più bisogno di strumenti per raggiungerli. Si è finalmente identificato con Dio, e quindi, come dice Gandhi, non ha alcuna religione.
Paolo Quircio
New Delhi, 17-12-2017