di Paolo Quircio
Nell’ultimo periodo della sua incarnazione, quando la sua missione di
Avatar stava per concludersi, Krishna impartì all’amico e discepolo Uddhava una serie di insegnamenti. Questi insegnamenti, una sorta di testamento spirituale di Krishna, sono raccolti in una porzione dello Srimad Bhagavatam Maha Purana, un testo molto lungo e complesso che narra la vita di Krishna. Spesso questa porzione viene pubblicata separatamente con il nome di ‘Uddhava Gita’.
Nel primo capitolo dell’Uddhava Gita, dal verso 25 in poi, si parla dell’incontro, nel folto di una foresta deserta, del potente re Yadu con un giovanissimo Brahmano solitario, un asceta. Il re, percependo la serenità e la felicità che emanavano dal ragazzo, gli chiese come mai, pur essendo nudo, senza famiglia né proprietà, completamente solo e povero, potesse essere così felice. Gli chiese inoltre da quale Guru avesse imparato tale saggezza. La Gita non ci dice il nome del giovane Brahmano, ma tutti i commentatori sono concordi nel riconoscere in lui Dattatreya,
l’Avatar della Trimurti, il Guru degli
Avadhuta, i mistici asceti, coloro che si sono ‘scrollati’ di dosso l’io e tutti gli attaccamenti che da esso derivano. Dattatreya rispose che non aveva mai avuto un insegnamento formale, né un Guru in carne e ossa, ma che tutta la sua saggezza gli era derivata semplicemente dall’osservazione di cose, animali e persone: i 24 Guru che sono stati descritti da Swami Sivananda nel capitolo
I 24 Maestri di Dattatreya.
I primi cinque Guru sono i
Pancha Bhuta, i cinque elementi che compongono l’intera Natura:
Prithvi, la terra,
Apas, l’acqua,
Vayu, l’aria,
Agni, il fuoco e
Akasha, l’etere, che contiene e governa gli altri quattro. I cinque elementi sono legati anche ai cinque sensi, rispettivamente a odorato, gusto, vista, tatto e udito. Si noti che l’udito è legato ad
Akasha, il più sottile ed impalpabile degli elementi, ed è questo uno dei motivi per cui la tradizione indiana è sempre stata tramandata principalmente per via orale.
Il primo Guru, anzi, la prima Guru è, e non potrebbe non essere, la TERRA, madre terra. In India si dice che nella vita di ogni persona ci sono tre Guru fondamentali: la madre, il padre e il Guru. La madre dà la vita e insegna le basi pratiche dell’esistenza, il padre insegna a vivere nella comunità e il Guru insegna a vivere nello spirito. È quindi naturale che la terra sia citata come primo Guru. Essa contiene i cinque elementi di cui è costituito il nostro corpo fisico, che alla terra torneranno dopo la sua morte; la terra ci sostiene e ci nutre, tollera pazientemente i nostri calci e tutte le sevizie che le infliggiamo costantemente, proprio come una madre tollera, paziente e tenera, i capricci del suo bambino.
Come la madre sa che il bambino fa i capricci proprio perché è un bambino, così il saggio sa che i torti che gli altri gli possono fare sono dettati dalla loro natura spirituale ancora scarsamente sviluppata, per questo li tollera e li accetta con pazienza e distacco. La terra ci insegna inoltre l’altruismo, il desiderio sempre presente di dare, di fare del bene a tutti, a prescindere dal loro comportamento, l’amore incondizionato, l’inclusione di tutto e di tutti; è l’essenza del Karma Yoga così come viene spiegato nei primi sei discorsi della Bhagavad Gita.
L’ACQUA, simbolo di purezza, è la seconda grande maestra. Nel Raja Yoga la purezza, sia esterna sia interna, fa parte dei
Niyama, le prescrizioni, ed è detta
Saucha. Purezza del corpo, considerato il tempio dell’
Atman, ma soprattutto dei pensieri, dei sentimenti e dei comportamenti. Il raggiungimento di un certo grado di pulizia interiore e di un alto livello etico è un prerequisito imprescindibile perché la pratica yogica o spirituale in genere possa dare i risultati desiderati. Ed è per questo che la persona spiritualmente evoluta, grazie alla sua purezza può, come l’acqua pulita, rendere puro tutto ciò con cui viene in contatto.
L’ARIA trasporta la fragranza dei fiori e anche gli odori sgradevoli di vario genere, ma non è l’odore; l’aria è il veicolo del
prana che, quando respiriamo, alimenta il nostro corpo sottile, ma non è
prana. Si muove da una parte e dall’altra rimanendo sempre se stessa, senza cambiare e senza attaccarsi in maniera definitiva a nulla. È l’emblema del non attaccamento, quello stesso non attaccamento,
Vairagya, a cui tende tutto il percorso spirituale.
Vairagya è strettamente collegata ad
Aparigraha, la mancanza del desiderio di possesso, uno degli
Yama, le regole del Raja Yoga.
Il FUOCO rappresenta sia la luce della conoscenza, sia il fuoco che distrugge le impurità del nostro essere. Anche questo è strettamente collegato agli
Yama, a
Tapas in particolare. Questa parola viene solitamente tradotta con ‘austerità’, quasi con un senso di autopunizione. Niente di più lontano dallo spirito profondo dello Yoga. Nella Bhagavad Gita Krishna critica aspramente coloro che mortificano in maniera eccessiva il proprio corpo, credendo di accelerare il percorso spirituale.
Tapas, che viene dalla radice sanscrita
tap, fuoco, è soprattutto una pratica di autodisciplina, di esercizio della volontà al fine di purificare, di bruciare tutte le impurità del desiderio, dell’inerzia, dell’
Adharma, ciò che rallenta o impedisce il progresso spirituale.
Il CIELO, che è poi l’etere,
Akasha, è quella sostanza estremamente sottile ed impalpabile che pur sostenendo tutta l’impalcatura di
Prakriti, la Natura, ne resta distaccata. Esso appare azzurro, ma azzurro non è, come il cristallo puro che prende il colore dell’oggetto su cui viene posato, senza per questo cambiare. È il simbolo dell’
Atman, l’anima individuale, frazione di quella universale, che dà vita a tutto senza essere quel tutto, perché il tutto si muove, cambia, nasce e muore, mentre l’
Atman è eterno e immutabile.
Dopo i
Pancha Bhuta abbiamo i due astri principali: la LUNA e il SOLE, ed entrambi stanno in qualche modo a rappresentare
Maya, l’illusione in cui vive l’uomo che non ha ancora raggiunto l’illuminazione. La Luna appare in continua mutazione, tanto che l’intera umanità su queste mutazioni ha imparato a misurare il tempo, ma in realtà è sempre la stessa, è sempre intera anche quando se ne vede solo una sottilissima falce. Così come l’
Atman, che pur nella sua immutabilità viene spesso erroneamente confuso con le mutevoli
Upadhi, gli attributi dell’anima, cioè il corpo e la mente.
È come se vedessimo una persona e pensassimo che il suo vestito è la persona stessa, e non soltanto un involucro che riveste quella persona per un dato periodo di tempo. Ancora di più simbolo di
Maya è il Sole, che riflettendosi nella miriade di piccole pozze d’acqua sembra dar vita ad una miriade di piccoli soli, così come il
Brahman che, riflettendosi nella gran quantità di esseri che compongono l’umanità, sembra dividersi in altrettante particelle, mentre la sua natura è, e rimarrà sempre, l’immutabilità, l’unità.
Quindi Dattatreya ci spiega con validi esempi come l’attaccamento ai piaceri dei sensi può portare il ricercatore spirituale e l’uomo in genere verso l’abisso. L’ELEFANTE cade nella trappola a causa della sua lussuria, il PESCE abbocca all’amo per la sua ghiottoneria, il CERBIATTO per il suo amore per la musica, la FALENA attratta dallo splendore del fuoco. Tutti seguono il proprio istinto di soddisfare i propri appetiti e desideri, ma rimangono inesorabilmente bruciati, in un modo o in un altro. L’esempio dei PICCIONI che cadono nella rete dell’uccellatore per attaccamento ai propri figli e alla propria sposa porta ancora più avanti questo concetto, anche se per le persone che conducono una vita laica sembra impossibile vedere una persona amata in pericolo senza intervenire. Non è esattamente questo il punto. Karmicamente ci sono varie fasi nel corso del
Samsara, il ciclo di nascite e morti, dette
Ashrama.
Chi scrive queste righe, e probabilmente la maggior parte di chi le legge, appartiene al
Grihastha Ashrama, lo stadio della persona comune, che lavora e ha famiglia, verso la quale deve adempiere a tutti i suoi doveri. Ma l’insegnamento di Dattatreya è rivolto soprattutto agli
Avadhuta, agli asceti, che hanno rinunciato a tutti gli attaccamenti, anche a quelli familiari. È importante notare che chi rinuncia agli affetti familiari per la vita spirituale non ama di meno, ma anzi, allarga i confini del proprio amore ad una platea ben più vasta di quella del gruppo ristretto di famiglia e persone care. Ama l’umanità tutta, anche chi non lo ama. Tutto va visto nella giusta prospettiva.
Gli esempi seguenti si riferiscono in vari modi ad un altro dei
Niyama del Raja Yoga:
Santosha.
Santosha vuol dire ‘appagamento’. Come il nostrano ‘chi si contenta gode’, anche
Santosha è un inno alla vita semplice, ma un pochino più profondo. Ci invita al distacco, all’accettazione del nostro stato, che è solo transitorio. L’OCEANO accoglie le acque da tutti i fiumi del mondo, ma rimane sempre lo stesso; il PITONE aspetta pazientemente che le sue prede siano a portata per afferrarle, non le va a cercare; il BAMBINO, nella sua semplicità, gode di quel poco che ha, un po’ di latte e l’abbraccio della mamma; l’APE succhia solo poco nettare alla volta, quello che le serve, e se accumula lo fa soltanto per poter superare l’inverno, quando non ci sono fiori; la prostituta PINGALA solo quando abbandona la sua avidità di guadagno e si rende conto di avere abbastanza trova la serenità e dorme tranquilla; il CORVO è un passo ancora più avanti: conquista un pezzo di carne, ma questo suo possesso gli inimica tutti gli altri corvi e solo dopo averlo abbandonato ritrova la pace.
Cerchiamo sempre la felicità negli oggetti che crediamo ce la possano dare, dimenticando che la felicità è una condizione che può nascere solo ed esclusivamente da dentro di noi e non dagli oggetti esterni che possediamo. Anche perché poi arriva inesorabile il RACCOGLITORE DI MIELE,
Yama, il dio della morte, che ci priva di tutte le proprietà che abbiamo accumulato in vita, a cominciare dal nostro corpo. Questo personaggio dà in maniera molto chiara il senso dell’inanità, della vacuità della vita terrena quando è vissuta con l’unico scopo di soddisfare i propri desideri materiali.
La storia della RAGAZZA si collega in qualche modo a quella dei piccioni. Per chi decide di intraprendere una vita di meditazione e di profonda spiritualità la solitudine è imprescindibile. Molti conoscono la frase latina ‘
Beata solitudo, sola beatitudo’, proprio perché la ricerca interiore, in tutte le culture e in tutte le epoche, ha un assoluto bisogno di silenzio, di quiete, di introspezione; tutte cose che solo la solitudine può dare.
San Benedetto, prima di promulgare la sua ‘Regola’, si ritirò in solitaria meditazione per quasi tre anni in una grotta sulla riva scoscesa dell’Aniene, nei pressi di Subiaco. La comunanza con altre persone mette in risalto la propria individualità, porta il proprio io a distinguersi da quello degli altri, e questo inevitabilmente porta contrasti e perdita della necessaria serenità. Ovviamente, come ogni cosa, anche la solitudine va coltivata per gradi. Si cercano dei momenti solitari da dedicare allo studio, alla meditazione, alle pratiche spirituali, e man mano si cerca di allungare questi momenti.
Gli ultimi tre Maestri sono un po’ la
summa di tutti gli altri. Il PRODUTTORE DI ARCHI è ovviamente
Dharana, la concentrazione, il quinto
Anga del Raja Yoga. Dopo aver purificato corpo e mente con i primi quattro
Anga (
Yama, Niyama, Asana, Pranayama) e aver imparato a ritirare i sensi col
Pratyahara, si impara a concentrare la mente. Nella Bhagavad Gita più volte e sotto diverse angolature Krishna spiega ad Arjuna le qualità dell’uomo saggio.
Una che ricorre sempre è quella della capacità di meditare. Ma l’abilità necessaria ed ineludibile per meditare è quella di saper concentrare la mente. Gradualmente, prima per brevi periodi e in maniera parziale; poi sempre più a lungo e riducendo pian piano l’ampiezza dell’attività del pensiero, la mente diventerà
Ekagrata, concentrata su un unico punto. Da lì sarà, se non facile almeno possibile, spegnere l’interruttore, silenziare la mente, per poter vedere ciò che la mente stessa ci nasconde. È quello che chiamiamo meditazione,
Dhyana.
Il RAGNO è davvero emblematico dell’umanità tutta, quella occidentale dei giorni nostri in particolare. Le nostre ed altrui menti instancabilmente producono nuove idee, nuove mode, nuovi slogan, nuovi obiettivi da darsi. La maggior parte di tutto ciò non sono altro che trappole, ragnatele in cui si rimane invischiati e da cui non si riesce più a uscire. Subiamo una delusione amorosa e, ripensandoci a distanza di qualche anno, ci stupiamo di aver sofferto così tanto per una persona che oggi non degneremmo di uno sguardo. Da bambini ci eccitavamo tanto per dei giochi che oggi, quando i nostri figli ci ‘costringono’ a farli di nuovo, troviamo mortalmente noiosi. Che dire poi delle mode, che cambiano in continuazione e che ogni volta danno l’impressione di essere il ‘massimo’?
Eppure tutti, chi più chi meno, in un modo o in altro, sono catturati dalla ragnatela delle proprie idee. Solo la meditazione e la pratica spirituale possono fermare l’agitazione della mente, possono dare la necessaria serenità per vedere le cose della vita nella giusta luce e nella giusta prospettiva.
Parlo dello Yoga perché è la disciplina spirituale che pratico da anni e che conosco meglio, ma tutti coloro che hanno intrapreso un percorso di sviluppo spirituale concordano nel riconoscere che questo genere di pratiche cambia la scala di priorità nella vita. Esattamente ciò che ci insegna il ragno, smettendo di produrre inutili e dannose idee, preconcetti, certezze basate sul nulla, si trova (o si ritrova) il vero valore di ciò che ci circonda e , soprattutto, di ciò che è dentro di noi.
Infine lo SCARAFAGGIO. Questo Guru ci dà la misura della forza del nostro pensiero, soprattutto quando con
Abhyasa, la pratica costante, riusciamo a concentrarlo al massimo grado e a indirizzarlo nella giusta direzione. Siamo ciò che pensiamo. Più mandiamo coscientemente la nostra mente verso il pensiero del Divino Brahman, più ci identificheremo con Esso, e non solo in questa vita. Nella Bhagavad Gita Krishna lo dice con chiarezza: “E colui che al momento della morte lascia il suo corpo pensando a Me, si congiunge a Me; su questo non c’è alcun dubbio (…) Perché chiunque abbandona il corpo pensando a un essere qualsiasi, a quell’essere egli va, a causa del suo costante pensare a quell’essere stesso.” B.G. VIII, 5,6.
Ovviamente l’ultimo pensiero non è frutto del caso. Si dice, e lo affermano anche le persone che hanno avuto esperienze di morte per poi tornare in vita, che al momento del trapasso la vita appare davanti agli occhi come un film e si pensa alle cose che hanno avuto più importanza durante l’esistenza.
È per questo che è così importante abituare la propria mente a pensare al Divino il più possibile, meditare su cose elevate, rivolgere il meno possibile il pensiero alle miserie della vita corrente e cercare di mantenerlo fisso su idee sacre, di bontà ed altruismo. Solo con questo tipo di ‘allenamento’ potremo avere la certezza che all’ultimo momento la nostra mente non andrà a ciò che stiamo lasciando, ma a ciò che stiamo ottenendo:
Moksha, la liberazione.
Restano due importanti considerazioni da fare. La prima è questa: molti potrebbero ritenere gli insegnamenti di Dattatreya troppo difficili da seguire, troppo avanzati, rivolti esclusivamente agli asceti o aspiranti tali. È vero che egli era il Guru, anzi l’
Adi Guru, il primo Guru, degli
Avadhuta, gli asceti; ma è anche vero che ogni percorso, anche il più lungo, inizia non solo con il primo passo, ma con la volontà di farlo, quel primo passo. In ogni cosa c’è una gradualità, ogni arte, ogni mestiere si imparano un po’ alla volta, per gradi. I più grandi scrittori hanno dovuto innanzitutto imparare a tenere la penna in mano. Allo stesso modo, anche la pratica spirituale ha i suoi gradi, l’importante è capire qual è la direzione giusta e cominciare.
L’altra considerazione è su un possibile equivoco che potrebbe scaturire dalla storia di Dattatreya: che sia possibile compiere il percorso spirituale senza il bisogno di avere alcun Maestro, che basta fidarsi della propria capacità di osservazione e deduzione, della propria intelligenza. Non è esattamente così: la storia di Dattatreya e dei suoi 24 Guru fa parte di un testo sapienziale ed è parola di Krishna Jagad Guru.
Gli insegnamenti non si distaccano affatto da quelli presenti in tutti gli
Shastra, i testi sacri dello Yoga e del Vedanta, e lo stesso Dattatreya è
Datta Guru. Quindi, più che un invito a fare a meno di un Maestro, Datta Guru ci vuole dire di non essere solo passivi destinatari di un insegnamento, ma di digerirlo, di farlo nostro e di provare la veridicità di quell’insegnamento nella realtà che ci circonda. Se oggi è molto difficile, se non impossibile, trovare un Guru in carne e ossa, possiamo sempre fare riscorso agli insegnamenti dei Maestri del passato, dei grandi santi come
Ramana Maharshi,
Vivekananda o
Yogananda Paramahansa oltre, ovviamente agli
Shastra. Le vie ci sono e ci saranno sempre e il ricercatore spirituale serio e sincero, se lo vuole con tutto il cuore, una strada non può non trovarla.
Per concludere riguardiamo per un attimo i 24 Maestri: si parte da
Prakriti, l’universo fisico; poi si spiega come questo universo sia fondamentalmente
Maya, illusione, e quindi inaffidabile; si passa poi alla presa di coscienza del fatto che l’attaccamento all’io, al mio e a tutti i possessi materiali ed affettivi è solo fonte di dolore. Quindi il primo passo verso la soluzione: la concentrazione. Poi l’arresto della mente, fonte di infinite trappole paralizzanti. Ed infine l’invito ad indirizzare sempre, ogni momento del nostro tempo, il nostro pensiero al Divino, perché questa è la chiave che ci permetterà di diventare divini a nostra volta, o meglio, a prendere coscienza del fatto che già lo siamo, lo siamo sempre stati.
Questo è l’insegnamento di Dattatreya, Trimurti
Avatara.
Paolo Quircio
Roma, 08-11-2017