di Paolo Quircio
Una caratteristica delle divinità induiste è quella di avere moltissimi nomi. Una serie lunghissima di attributi che descrivono i diversi aspetti propri di ogni divinità. La cosa non dovrebbe sorprendere più di tanto, considerando che in realtà tutte le divinità, a prescindere dalle loro specifiche peculiarità, non sono altro che diversi aspetti dell’unico, eterno, immutabile Brahman, la causa prima del tutto. Si pensi al bellissimo Purna Mantra. Purna vuol dire tutto, intero, completo, assoluto, e il Mantra ci spiega che: “Questo è il Tutto, quello è il Tutto, dal Tutto nasce il Tutto e se dal Tutto si leva il Tutto non rimane che il Tutto”. Sembra quasi una formula matematica! Naturalmente il Tutto è talmente multiforme che può essere definito con una miriade di nomi. Molti di questi si riferiscono ad episodi raccontati nei vari testi sacri.
Esempio, uno dei nomi di
Devi, la divinità nel suo aspetto femminile, e in particolare di Durga, considerata nella sua forma più temibile, la spietata distruttrice del male, è Chamunda, colei che ha ucciso i due demoni Chanda e Munda. L’episodio è narrato nel
Devi Bhagavatam, uno dei Purana attribuiti al Saggio Vyasa, l’estensore del
Mahabharata, detto anche Vedavyasa, poiché ha raggruppato vari testi sparsi e li ha riorganizzati nei quattro Veda fondamentali. Uno dei nomi di Siva è Niilakantha, dalla gola blu, e deriva dall’antichissima storia della zangolatura dell’oceano del latte, quando il gigantesco serpente Vasuki, usato da Deva e Asura per far girare il bastone della zangola, comincia a rilasciare un terribile veleno che rischia di intossicare l’intero universo. Spaventati, i Deva invocano l’aiuto di Mahadeva, il grande dio, altro nome di Siva, il quale prontamente accorre e salva il mondo, bevendo il veleno e trattenendolo nella gola, che diventa blu. Altri nomi derivano da alcuni particolari dell’aspetto fisico, ad esempio Krishna viene detto Keshava, dai bei capelli, o anche Venugopala, protettore delle mucche (Gopala, in riferimento alla sua attività di guardiano di mucche negli anni dell’adolescenza) che suona il flauto. Infatti Krishna viene spesso raffigurato in atto di suonare il flauto, Bansuri, circondato da mucche bianche.
Krishna è talmente attaccato al suo Bansuri da non staccarsene mai, e questo rende gelosa Radha, la favorita tra le sue Gopi, le giovani guardiane di mucche inebriate di mistico trasporto per il bel Gopala, che gli chiede perché mai preferisca poggiare le labbra sul flauto invece che sulle sue. “Quando ti abbandonerai docilmente a me, come fa il flauto, che vibra con il mio respiro senza opporre alcuna resistenza, allora appoggerò le mie labbra su di te”.
Un tema che viene ripetuto più volte nella Gita: tutti gli esseri mi sono cari, ma in particolar modo mi è caro chi si abbandona a me senza remore. Potremmo andare avanti quasi all’infinito, se volessimo analizzare tutti i nomi e tutti i significati simbolici dell’aspetto delle varie divinità. Si pensi che una delle forme di culto più praticate in India, sia nei templi, sia in casa, è il
Sahasranama delle varie divinità. Sahasranama vuol dire ‘mille nomi’, che possono essere di Vishnu, di Devi, di Siva o di Ganesha. A seconda del tipo di culto praticato, si recitano i mille nomi della divinità di riferimento, un po’ come si fa nel mondo cristiano con le litanie della Madonna.
Ogni nome, aldilà del significato letterale e simbolico, racchiude in se, sotto forme di suono articolato, l’energia del dio stesso, come un Mantra. Ripetere il nome, o i mille nomi, della divinità, da una parte serve a evocare la divinità stessa e la sua energia, dall’altra, cosa ancora più importante, serve a sintonizzare colui che recita sulla lunghezza d’onda della divinità. Questo concetto è ben spiegato nella
Mandukya Upanishad, un breve testo interamente dedicato al Pranava, la sacra sillaba Om. Essendo Om l’essenza dell’intero universo, esso è sempre esistito, esiste e sempre esisterà; quindi, quando recitiamo la sillaba Om, pensare che la stiamo creando noi, con la nostra voce o con il nostro pensiero, è un’ingenuità. In realtà Om è eterno, non ha né inizio né fine, è onnipresente, è Brahman stesso sotto forma di vibrazione più o meno sottile, vibra continuamente dentro e fuori di noi, anche se nello stato di coscienza ordinaria non riusciamo a percepirlo. Recitare ripetutamente l’Omkara ci inserisce in un livello vibratorio estremamente sottile, quello stesso dell’energia divina che permea il Creato. Grazie a questa pratica, ripetuta in maniera regolare e prolungata nel tempo, il livello di coscienza si fa sempre più profondo e si diventa consapevoli della propria natura più vera e nascosta, quella divina,
Ananda.
Tra le tante divinità e i loro tanti nomi, vorrei soffermarmi su due Deva in particolare,
Siva e Krishna, e sull’attributo Yogeshwara, condiviso da entrambe le divinità, e, solo per quel che riguarda Krishna, il Nome Jagad Guru.
Yogeshwara vuol dire, in Sanscrito, ‘signore dello Yoga’ e Jagad Guru, ‘Maestro universale’, anche se in effetti la parola Guru è un po’ più di Maestro, vuol dire ‘colui che disperde l’oscurità’, ovviamente dell’ignoranza spirituale. Jagad Guru è un titolo omnicomprensivo, superiore a qualsiasi altro, almeno per quel che riguarda l’aspetto didattico. Jagad Guru è colui che dona all’umanità bisognosa la sublime saggezza della Gita, vero e proprio manuale di navigazione per chi cerca la via spirituale nell’epoca nera e terribile del Kali Yuga. Eppure proprio nell’ultimo verso della Bhagavad Gita, XVIII 78, Samjaya, il cronista dell’intera guerra, asserisce:” Ovunque sia Krishna il Signore dello Yoga (Yogeshwara) e ovunque sia Arjuna l’arciere sublime, là certamente saranno vittoria, prosperità e buon governo.”
E se Krishna è già, oltre che Guru universale, anche Signore dello Yoga, perché lo è anche Siva, e che bisogno c’è di questo duplicato? Per capire meglio bisogna parlare brevemente dei quattro percorsi dello Yoga. Intendiamoci, lo Yoga è uno solo e i cosiddetti quattro sentieri vanno praticati tutti allo stesso tempo; sono solo una divisione convenzionale che aiuta il praticante nella sua difficile ascesa spirituale, quattro aspetti di un’unica disciplina, i cui confini, peraltro, sono spesso assai labili. Essi sono:
Karma Yoga, Bhakti Yoga, Jnana Yoga e RajaYoga.
Karma vuol dire azione e l’azione viene considerata strettamente legata al desiderio, sia perché ne è l’attuazione, sia perché solitamente dall’azione ci aspettiamo dei risultati, e il godimento di quei frutti, sia buoni che cattivi, ci tiene incatenati al Samsara, il ciclo di nascite e morti. Il Karma Yoga consiste nel disciplinare se stessi a compiere le azioni necessarie senza sentirsene autori, separando l’agente, Prakriti, la natura, transeunte e soggetta a nascita, crescita, degrado e morte, dalla propria vera identità, l’Atman, porzione e riflesso del Brahman infinito. In questo modo, tramite lo Yoga, l’azione da causa di legame si trasforma in agente di liberazione e se non è sufficiente a raggiungere Moksha, la fine del ciclo delle reincarnazioni, è uno strumento eccezionale, imprescindibile, per avvicinarcisi.
Bhakti è la parola sanscrita per devozione. Ovviamente la devozione è la molla che fa girare il motore della ricerca spirituale. L’amore per il divino è ciò che spinge il praticante a cercare il modo per avvicinarsi ad Esso. È facile pensare, come pensano molti, che la fede è un dono che si ha o non si ha. In parte è vero e questo è conseguenza del punto in cui ogni individuo è nello sviluppo del proprio percorso karmico. Ma è anche vero che la fede, come ogni attività mentale o emotiva dell’essere umano, può essere condizionata dalla volontà, può essere in qualche modo ‘educata’. La fede religiosa è considerata la forma più elevata dell’amore. Ogni essere umano, anche il più abietto o crudele, ama qualcuno. Spesso questo sentimento di amore è inquinato dal senso di possesso, si ama ciò che ci appartiene o vorremmo che ci appartenesse, magari in forma esclusiva. Creare la fede significa educare se stessi ad amare senza aspettative, senza limiti. È facile amare chi ci ama, è importante imparare ad amare anche chi ci odia, chi ci rende difficile l’esistenza. Solo così, allargando sempre di più gli orizzonti e la gittata del nostro amore umano, esso può trasformarsi in Prem, l’amore divino.
Jnana vuol dire conoscenza, in particolar modo conoscenza spirituale. Se il Karma Yoga si pratica con l’azione, quindi nella sfera materiale, e il Bhakti Yoga nella sfera emotiva, lo Jnana Yoga si pratica nella sfera mentale. Lo studio degli
Shastra, i Testi Sacri, l’introspezione e l’analisi del pensiero, conducono al superamento della mente ordinaria per arrivare alla mente superiore, intuitiva, con l’esercizio di
Viveka, la discriminazione tra ciò che è reale,
l’Atman, e ciò che non lo è, il corpo e la mente. In definitiva, si usa la mente per andare oltre la mente stessa.
Il
Raja Yoga, lo Yoga Reale, lo Yoga dei poteri psichici, è una disciplina complessa, divisa in otto gradini o parti. Si inizia dalla purificazione del comportamento, seguendo le prescrizioni e i divieti detti
Yama e
Niyama. Si prosegue con le
Asana, le posture yogiche, che rendono il corpo più forte e flessibile, premettendo all’energia sottile, il Prana, di scorrere nel migliore dei modi. Quindi la parte dedicata alla respirazione, il
Pranayama. Da lì al ritiro dei sensi,
Pratyahara, quindi la concentrazione,
Dharana. Quando la concentrazione raggiunge la perfezione, si potrà cominciare a meditare, cioè a fermare la mente per poter cogliere quell’essenza divina che è insita in ognuno di noi, ma che non riusciamo a percepire proprio in virtù della cortina fumogena costantemente tenuta attiva dalla mente. Per dire quanto sia difficile sottomettere la mente costantemente agitata, in India si dice, in maniera colorita, che essa è come una scimmia, ubriaca e per di più assalita da uno sciame di vespe.
Nella
Bhagavad Gita Krishna descrive con dovizia di spiegazioni i primi tre sentieri dello Yoga, Karma, Bhakti e Jnana, anche se il Raja Yoga fa capolino molto spesso tra gli sloka del poema. Ci si potrebbe chiedere il perché di ciò, perché i primi tre e non il quarto? Ho una mia opinione in proposito, ed è questa: Karma, Bhakti e Jnana sono tre modi di vivere, tre modi di cambiare la propria esistenza in una
Sadhana continua. Trasformare in Yoga le proprie azioni, il proprio sentire, la propria attività mentale. E tutto questo sempre, nella veglia e nel sonno, quando si lavora e quando si riposa, qualsiasi cosa si faccia o non si faccia. Nella sua accezione più completa e più profonda, lo Yoga non si ‘fa’ e neanche si ‘pratica’. Lo Yoga è un modo di vivere. Quello che è stato detto poco più sopra rispetto al Mantra Om, vale anche per lo Yoga. Anche se la Bhagavad Gita è stata scritta ‘solo’ 5.000 anni, gli insegnamenti che Krishna impartisce al suo amico e cugino
Arjuna, non sono certo nuovi. Semplicemente stava finendo un’era cosmica, il Dwapara Yuga, e ne stava per iniziare un’altra, il Kali Yuga, l’era attuale, in cui il livello di sviluppo spirituale medio sarebbe stato molto più basso, rendendo necessarie spiegazioni e chiarimenti di cui gli uomini dell’era precedente non avevano bisogno.
Per quanto riguarda Siva, ricordiamo che tra i suoi nomi, oltre, come detto, Yogeshwara, il Signore dello Yoga, abbiamo anche Siva Dakshinamurti. Dakshina vuol dire Sud e Murti divinità, quindi la divinità rivolta verso Sud. La dimora di Siva è il monte Kailash, oggi in Tibet, all’estremo Nord del subcontinente.
Siva Dakshinamurti si rivolge a Sud, all’intera India, per impartire i propri insegnamenti. Viene rappresentato seduto su un trono, il piede destro sull’Asura Apasmara, un nano che rappresenta l’ignoranza. L’altro piede in grembo, una delle quattro mani in Jnana Mudra, simbolo della conoscenza, o in Vitarka Mudra, simbolo dell’insegnamento, in una il fuoco, simbolo della luce della conoscenza, in una il serpente, simbolo della Kundalini che si risveglia e nell’altra un rotolo che rappresenta gli Shastra, i Sacri Testi. La leggenda vuole che Siva abbia insegnato i segreti del Raja Yoga alla consorte
Parvati, la quale, attraverso una catena ininterrotta di Rishi, saggi illuminati, per millenni ha trasmesso all’umanità intera le conoscenze del Raja Yoga. In effetti, quello che viene comunemente detto il Raja Yoga di Patanjali, in realtà dovrebbe essere il Raja Yoga di Siva. In India le conoscenze, soprattutto quelle spirituali ed esoteriche, sono state tramandate per millenni esclusivamente per via orale. Ancora oggi esistono molte scuole dove si formano i Panda, esperti nei riti induisti. Questi studenti imparano fin dalla prima fanciullezza migliaia e migliaia di Sloka e di Stotra. Solo in epoche relativamente recenti queste conoscenze sono state messe per iscritto, e tra queste quelle relative al Raja Yoga, negli
Yoga Sutra di Patanjali.
Lo Yoga è stato per millenni una scienza, una disciplina assolutamente esoterica, riservata non solo esclusivamente agli appartenenti alla casta dei
Brahmani, ma anche tra questi, solo ai più puri ed evoluti spiritualmente. Verso la fine del XIX secolo e all’inizio del XX, alcuni grandi Maestri illuminato cominciarono a diffondere i fondamenti dello Yoga e del Vedanta in Occidente, soprattutto in Nord America. Proprio quel Nord America in cui in quegli anni stava esplodendo il capitalismo moderno, una delle filosofie economiche e sociali tra le più materialistiche che l’umanità abbia mai conosciuto. Da lì, nel corso del tempo, la diffusione dello Yoga sarebbe poi rimbalzata in Europa e sarebbe quindi tornata in India, dove oggi si contano milioni di praticanti. Era ovvio che dei Maestri saggi ed illuminati come
Swami Vivekananda, Paramahansa Yogananda, Swami Sivananda ed altri sapessero benissimo quello che sarebbe potuto succedere nel momento in cui certo sapere fosse diventato in qualche modo aperto al grande pubblico, praticamente a tutti. La diluizione degli insegnamenti sarebbe stato il danno minore. Renderli accessibili alle masse impreparate ad accoglierli avrebbe inevitabilmente portato alla corruzione degli stessi. E tutto questo è regolarmente avvenuto e continua ad avvenire ogni giorno.
Chi si interessa di Yoga ogni giorno vede nascere nuove ‘scuole’ con nomi mutuati dalla tradizione in maniera impropria, o addirittura col nome dell’inventore della nuova disciplina. Yoga ‘questo’ e Yoga ‘quello’, Yoga e relax, Yoga e cura del corpo, Yoga a cavallo e Yoga e alpinismo, Yoga in barca e Yoga e fiori di Bach, Yoga e cristalli e Yoga e birra (si! Persino un Beer Yoga!). Modelle sedute in Padmasana con le mani in Jnana Mudra che pubblicizzano lo yogurt che fa bene al pancino e manda al bagno. La parola Mantra, la sacra parola Mantra, la usano i giornalisti per indicare qualsiasi cosa ripetuta molte volte, al posto di ‘tormentone’. La sacra sillaba OM viene usata in qualsiasi contesto che poco o nulla ha a che fare con la spiritualità. Diciamolo: lo Yoga va di moda, e potremmo andare avanti ancora un bel po’!L’uomo occidentale con la sua attitudine rapace e sempre pronto ad appropriarsi di tutto, per poi piegarlo alle proprie convenienze, si è appropriato anche dello Yoga, e molti Indiani, sedicenti Guru, scaltri e opportunisti, li imitano con grande successo. Verrebbe da dire, usando le parole del sacrestano della Tosca a Mario Cavaradossi: “Scherza con i fanti e lascia stare i Santi”.
Oggi purtroppo assistiamo ad un travisamento, ad uno spezzettamento della sacra Scienza dello Yoga che la rende, agli occhi dei più, niente altro che una pratica fisica, che tutt’al più coinvolge anche la mente, una sorta di ginnastica dolce, raccomandata a chi soffre di mal di schiena, di ansie e di insonnia. Si considera il benessere derivante dall’aver intrapreso un percorso spirituale, l’obbiettivo dell’attività stessa.
Se dopo aver speso una vita ad occuparmi esclusivamente del corpo e della mente e a soddisfare i miei diversi desideri materiali, come facciamo quasi tutti, a un certo punto della mia esistenza mi avvicino (o è lei che mi si avvicina?) ad una disciplina antica, spirituale, introspettiva, che mi porta, a volte inconsciamente, e questa è la potenza dello Yoga anche quando viene praticato in maniera superficiale, a rendermi conto che in me c’è qualcosa di più di un corpo e di una mente. Se la pratica di questa disciplina mi fa entrare in contatto con quella parte di me così profonda che non ne sospettavo neanche l’esistenza e mi fa intravedere la possibilità di una vita molto diversa da quella che ho vissuto fino ad oggi, cambiando alla radice la mia scala di priorità, credo sia abbastanza naturale che, dopo un primo momento di perplessità e di sbandamento, prevalga un sentimento di appagamento, di serenità, di benessere.
Ma questo sentimento è solo un effetto collaterale della pratica, perché accontentarsi di un po’ di benessere fisico e mentale, quando proseguendo sul percorso intrapreso si possono toccare le vette della spiritualità?
È impensabile che i grandi Guru citati più sopra non immaginassero, meglio, non sapessero le conseguenze che tale diffusione avrebbe portato, ma evidentemente lo hanno considerato un prezzo che si poteva pagare, pur di portare, di dritto o di rovescio, migliaia di persone verso una vita spirituale, soprattutto in un’epoca in cui le religioni di massa sono ormai totalmente istituzionalizzate, alcune addirittura sono movimenti di grande potere economico e politico. Religioni settarie e litigiose, che hanno perso ormai da tanto tempo il ruolo di guida spirituale che competeva loro.
Era anche immaginabile che in questa epoca nera, il
Kali Yuga, in cui prevalgono le energie peggiori, una disciplina spirituale pura come lo Yoga, mai invischiata nella gestione del potere o del denaro (si pensi che fino ad alcuni decenni fa agli insegnanti non era consentito farsi pagare per le lezioni di Yoga), potenzialmente adatta a cambiare in meglio, ad elevare, tutto il livello vibratorio del pianeta, venisse attaccata da molte parti. La Chiesa di Roma lo ha più volte definito demoniaco e assolutamente proibito ai Cattolici, l’industria pubblicitaria e culturale lo ridicolizza, usandone delle parti in maniera inappropriata, gli stessi insegnanti, sulla cui preparazione si potrebbe parlare a lungo, lo sviliscono riducendolo ad una pratica da palestra o da circo.
Insegno Hatha Yoga da diversi anni e nel nostro centro abbiamo un altare con immagini sacre, iniziamo e terminiamo tutte le lezioni con la recitazione dei Mantra e dedichiamo buona parte dell’insegnamento all’aspetto più sottile e sacro dello Yoga. Un giorno venne un signore per una lezione di prova. Alla fine della classe mi disse che aveva già fatto altre lezioni di prova in altri posti e che, sebbene il mio modo di insegnare gli piacesse abbastanza, era un po’ turbato, o forse infastidito, dai Mantra e dai ‘santini’ sull’altare. Quindi preferì andare in un’altra scuola dove tutte queste cose non c’erano. E di scuole così ce ne sono tantissime!
Ma lo Yoga è una disciplina sacra, eterna, divina, tramandata all’umanità eticamente e spiritualmente derelitta dei nostri giorni da una serie di grandi saggi, veggenti e Guru che ne hanno analizzato i fondamenti teorici e pratici, che l’hanno spiegata ai propri discepoli, che a volte l’hanno resa comprensibile ai semplici, ma non l’hanno mai cambiata, non l’hanno mai spezzettata in mille piccole scuole che, separate dal contesto più ampio, perdono gran parte della forza originaria. È curioso che in un mondo in cui va tanto di moda la parola ‘olistico’, proprio la disciplina più olistica di tutte venga insegnata a pezzettini, scollegandola spesso dalla sua sacralità, che ne è l’essenza.
Se ricordassimo sempre l’origine dello Yoga, Siva Yogeshwara e Krishna Yogeshwara, i Signori dello Yoga, Krishna Jagad Guru, il Guru dell’universo, la potenza spirituale della disciplina in sé e della catena ininterrotta di Rishi che l’ha portato fino a noi incorrotto, senza mai cercare di migliorarlo, perché essendo di origine divina è già perfetto in sé, non migliorabile. Se ricordassimo sempre tutto ciò, forse impareremmo a distinguere la sacra disciplina dello Yoga da quello che offre, con tecniche da marketing modernissime, mi si passi l’espressione un po’ forte, l’attuale supermercato della spiritualità.
Paolo Quircio
Roma 11/09/2017
Per Approfondire:
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