di Paolo Quircio
Il rapporto che hanno gli uomini con coloro che li hanno preceduti, con i propri antenati, è spesso ambiguo. Per chi considera la storia come qualcosa di lineare, una strada che, seppur irta di difficoltà, conduce nella direzione del progresso, è quasi impossibile non considerarsi, se non il punto di arrivo, almeno uno stadio molto avanzato di un processo di evoluzione iniziato dalle caverne e che, passando per i grattacieli e le navicelle spaziali, ha portato l’umanità a un livello di sviluppo scientifico e tecnologico senza precedenti. In questa visione della storia gli antichi sono di solito considerati dei semi-selvaggi, ignoranti e superstiziosi, sanguinari e crudeli. Salvo poi rimanere attoniti davanti ai mille ‘misteri’ del passato più o meno remoto. Come e perché sono state costruite le piramidi? Come facevano gli Indiani a sapere che la materia è solo una forma più grossolana di energia? E i Dogon come conoscevano l’esistenza di Sirio? Grandi architetti che ammettono che forse oggi nessuno sarebbe in grado di costruire una cattedrale gotica. Per rispondere a questi interrogativi a volte si ricorre anche a soluzioni originali, se non bizzarre, interventi di extraterrestri inclusi.
Nella cultura indiana la questione si pone in termini sostanzialmente differenti. La storia non viene considerata lineare, ma ciclica. Nel Surya Siddantha e nella Legge di Manu, il Manusmriti, vengono descritti i quattro Yuga, i cicli cosmici, a cui fa riferimento anche la Bhagavad Gita: “Coloro che conoscono il giorno di Brahma, che è della durata di mille Yuga, e la notte, che è anche della durata di mille Yuga, conoscono il giorno e la notte” B.G. VIII, 17.
E nel verso precedente Krishna dice ad Arjuna che “Tutti i mondi, compreso il mondo di Brahma, sono soggetti a ritornare di nuovo”. Quindi se persino il mondo di Brahma, il Brahmaloka, l’Empireo indiano, è soggetto a continui e ciclici ritorni, come potrebbero non esserlo le cose del mondo terreno, e tra queste noi umani?
Nella tradizione i quattro Yuga sono: Krita o Satya Yuga, l’era della verità, detto anche l’età dell’oro; Treta Yuga, l’età dell’argento; Dwapara Yuga, l’età del bronzo, e infine il Kali Yuga, l’età del ferro, l’era nera. Riguardo alla durata degli Yuga la maggior parte dei commentatori concorda sulla seguente suddivisione: 1.728.000 anni il Satya Yuga, 1.296.000 anni il Treta Yuga, 864.000 anni il Dwapara Yuga e 432.000 anni il Kali Yuga. Quattro Yuga fanno un Mahayuga, 71 Mahayuga un Manvantara e 14 Manvantara costituiscono un Kalpa, un giorno di Brahma. La notte di Brahma è costituita da un altro Kalpa, cosicché un giorno e una notte di Brahma durano circa 8.640.000.000 dei nostri anni. Solo Yukteshwar Giri, il Guru di Paramahansa Yogananda, nel suo ‘La scienza sacra’ fornisce una durata decisamente più breve dei cicli cosmici, asserendo che siano stati fatti degli errori di calcolo dagli astronomi di corte i quali, vivendo nel Kali Yuga, con la mente ottenebrata da questa era nera, non erano stati in grado di capire l’errore, né tantomeno di correggerlo.
Seguendo questa concezione ciclica della storia dell’umanità, secondo cui un’epoca di violenza e di scarso sviluppo spirituale è stata preceduta da epoche in cui gli uomini avevano ben altro livello sia di spiritualità che di conoscenze scientifiche e pratiche, forse si riescono a capire meglio i tanti ‘misteri’ del passato. Quelle che oggi per noi sono delle scoperte ottenute con millenni di ricerca, forse per gli Antichi, o almeno i più illuminati fra loro, erano eredità di un’epoca precedente. Eredità che consisteva di conoscenze che gli uomini del Dwapara Yuga avevano accuratamente occultato, ben sapendo l’uso perverso che ne avrebbero fatto gli uomini dell’era successiva. Né dovrebbe stupire, pensando al timore che avevano gli antichi di come avrebbero potuto essere usate certe conoscenze, che nella narrazione delle cose del passato si ricorresse a una gran quantità di simboli, dai significati più o meno occulti. Tutte le scienze spirituali hanno sempre avuto una parte aperta alle masse, di semplice comprensione, e una riservata agli iniziati, a coloro che avevano già compiuto una buona parte del percorso spirituale, rendendosi così pronti a recepire conoscenze profonde, quelle conoscenze che nelle mani dei profani avrebbero potuto essere inutili o addirittura molto dannose.
Nell’insegnamento filosofico e spirituale della tradizione indiana si fa un grande uso di racconti, di esempi e di analogie. Si pensi allo ‘Yoga Vasishta’, uno dei testi più importanti dello Jnana Yoga, in cui il grande Rishi Vasishta, incaricato di dare al giovane Rama, XVIII Avatar di Vishnu, un’educazione spirituale, gliela impartisce narrandogli una serie di aneddoti e di storie dai profondi significati spirituali. Molte di queste storie, così come numerosi episodi sia del Ramayana, il poeta epico basato sulla lotta tra l’eroe divino Rama e il re degli Asura Ravana, sia del Mahabharata, il poema che narra della guerra di Kurukshetra tra i gruppi di cugini rivali fra loro Pandava e Kaurava, sono parte integrante del patrimonio culturale indiano. Non c’è Indiano, per quanto di scarsa cultura o addirittura analfabeta, che non conosca i personaggi principali dei poemi epici o alcune storie dello Yoga Vasishta.
A seconda del livello di sviluppo culturale e spirituale dell’ascoltatore, la stessa storia assumerà significati via via più profondi. Tanto per fare un esempio: Ravana, il re degli Asura, creature di natura demoniaca dotate di immensi poteri, ha dieci teste e vive a Lanka, la città dalle nove porte. Per le masse la bizzarria delle dieci teste non fa che aggiungere ulteriore mostruosità ad un personaggio totalmente negativo, perfido e cattivo, che ogni anno, durante la festa di Dusserha, viene bruciato, anzi fatto esplodere in effige per commemorare la sua sconfitta da parte di Rama, la vittoria del Bene sul Male. Una più attenta lettura ci dirà che le dieci teste rappresentano i cinque Jnanaindriya, i sensi di conoscenza, e i cinque Karmaindriya, i sensi di azione (mani, piedi, bocca, ano e genitali) e le nove porte simboleggiano i nove orifizi del corpo umano: orecchie, occhi, narici, bocca, ano e genitali.
Che vuol dire tutto questo? Che il demone da combattere e sconfiggere non è chissà dove; è dentro di noi, è la nostra stessa natura inferiore. Il corpo fisico è Lanka e quello astrale è Ravana. Rappresentano quel corpo e quella mente con cui erroneamente tendiamo ad identificarci, dimenticando che la nostra vera, profonda essenza è quella divina di Rama. L’intera letteratura sacra indiana ha molte chiavi di lettura, una dentro l’altra, ed è veramente sorprendente come molte menti eccelse occidentali non abbiano saputo o voluto leggere aldilà dell’apparenza bizzarra o ingenua di queste narrazioni.
La stessa chiave di lettura a più livelli può essere applicata a tutta o quasi le mitologie delle civiltà del passato. Bisogna fare un certo sforzo per credere che un popolo che ci ha dato le meraviglie eterne dell’architettura e dell’arte statuaria, della filosofia e della letteratura, della tragedia e della storiografia, il concetto di scala musicale, l’orientamento e le proporzioni degli edifici religiosi, i fondamenti profondi e purtroppo oggi trascurati della cultura occidentale tutta, il popolo della Grecia classica, fosse composto da bambinoni ingenui che credevano alle favolette degli dei che si facevano i dispetti, che amoreggiavano follemente e a volte si accanivano contro gli umani, approfittando dei loro poteri straordinari. È fin troppo ovvio, per chi vuol vedere, che il panteon greco, che peraltro ha una notevole serie di punti in comune con quello indiano, non fosse altro che l’adattamento dell’immagine e del concetto dell’unico Dio alla gamma infinita dei tipi psichici umani. E questo perché tutti, ma davvero tutti potessero avere la possibilità di familiarizzare col Divino, la possibilità di trovare una chiave di lettura del Divino.
Nel suo ‘
Bliss Divine – Il Libro della Beatitudine Divina’, Swami Sivananda, a proposito della moltitudine di forme in cui si manifesta il Divino, spiega: “Dio Si rivela ai Suoi devoti in vari modi. Egli assume esattamente la forma che il devoto ha scelto per il suo culto. Se Lo adorate come Signore Hari con quattro mani, vi Si presenterà come Hari. Se Lo adorate come Siva, vi darà Darshan come Siva. Se Lo adorate come Madre Durga o Kali, verrà a voi come Durga o Kali. Se Lo adorate come Rama, Krishna o Dattatreya, verrà a voi come Rama, Krishna o Dattatreya. Se Lo adorate come Cristo o Allah, verrà a voi come Cristo o Allah.”
In India si usano molti termini per indicare Dio: Bhagavan, Ishvara, Brahman, Devi per l’aspetto femminile, ed altri. Nel Vedanta il Dio supremo, indescrivibile, mai nato, eternamente esistente, nirguna, totalmente privo di attributi, è il Brahman, l’Assoluto. Concetto simile a quello aristotelico del motore immobile, il primum movens. Ishvara sono invece le varie divinità distinguibili l’una dall’altra, ognuna con le sue caratteristiche peculiari: Shiva, in meditazione vicino alle pire funebri, con il corpo cosparso di cenere, con i serpenti intorno al collo e alle braccia; Brahma, il creatore dell’universo, l’unico dio a cui sono dedicati pochissimi templi; Vishnu, sdraiato mentre dorme sulle spire di un enorme serpente, con un loto che gli spunta dall’ombelico. E poi Lakshmi, Saraswati, Ganesha, Kali, Durga e così via, l’elenco è lunghissimo, anche se molte sono forme diverse degli stessi dei. Swami Vivekananda diceva che Ishvara, il saguna Brahma, il Brahma a cui sono stati sovrapposti i guna, le qualità, molto simili a quelle degli uomini, è il concetto divino più elevato a cui la mente umana possa arrivare. D’altronde finché l’uomo usa la mente, che è finita, per i suoi processi di apprendimento, come potrà mai capire, o persino concepire, qualcosa di talmente infinito, illimitato come il Brahma Assoluto?
Continua Swami Sivananda: “Sono tutti aspetti di un unico Ishvara o Signore. Sotto qualsivoglia nome o forma, è sempre Ishvara ad essere adorato. L’adorazione va a Colui che è dentro, il Signore nella forma. Pensare che una forma sia superiore ad un’altra è pura ignoranza. Tutte le forme sono esattamente la stessa cosa. Adoriamo tutti lo stesso Dio, le differenze sono solo differenze di nome dovute alle differenze in coloro che adorano, ma non nell’oggetto dell’adorazione.
Il vero Gesù o il vero Krishna sono nel vostro cuore. Egli vive lì eternamente, dimora dentro di voi. È sempre il vostro compagno, non c’è un amico migliore di Colui che dimora dentro di voi.”
E come esistono numerosissimi aspetti del Divino, così esistono numerose storie, meglio, raccolte di storie, che li hanno per protagonisti. Coprotagonisti di tutte queste storie, insieme ai Deva, che letteralmente vuol dire ‘illuminati’ anche se il termine normalmente viene inteso come ‘dei’, sono ovviamente gli Asura, i demoni. Fin dai primordi, narrati in molte Scritture, lo scontro tra l’energia pura, buona, Sattvica incarnata dai Deva e quella impura, lussuriosa, violenta, Tamasica e priva di qualsiasi remora di carattere etico, rappresentata dagli Asura, è assolutamente centrale. Lo scontro tra bene e male, tra natura divina e natura demoniaca si ripete in continuazione.
Uno dei primi, importanti episodi narrati in più di un poema epico, è quello della zangolatura dell’oceano del latte. In questo oceano primordiale si celavano moltissime ricchezze, tra cui l’Amrita, l’ambrosia divina che conferisce vita eterna a chi la beve. Ovviamente sia i Deva che gli Asura erano intenzionati a impossessarsene, quindi, per una volta, decidono di collaborare. Usando il monte Mandara come zangola, poggiato su Kurma, l’incarnazione di Vishnu in forma di tartaruga, e il serpente Vasuki come fune per girare la zangola, finalmente fanno venire a galla vari preziosi tesori. Per ultimo appare Danwantari, il fondatore dell’Ayurveda, che ha con sé l’ampolla contenente l’Amrita. In quel momento la collaborazione finisce, entrambi i gruppi di contendenti cercano di arraffare l’ampolla e gli Asura hanno la meglio. I Deva disperati si rivolgono di nuovo a Vishnu per essere aiutati e lui si trasforma in Mohini, donna bellissima e affascinante oltre misura. Gli Asura si fanno sopraffare dalla lussuria, cattiva consigliera, e i Deva soffiano loro l’Amrita, ottenendo così, solo loro, l’immortalità. Uno degli Asura, Rahuketu, mischiandosi nel gruppo dei Deva, riesce a bere alcune gocce di nettare, ma Mohini se ne accorge in tempo e lo decapita, impedendo all’ambrosia di entrare nel suo corpo.
Questo remotissimo episodio dell’eterna guerra tra Bene e Male ci mostra diverse cose. Una è che persino i Deva non vanno troppo per il sottile quando si tratta di combattere l’energia negativa rappresentata dagli Asura, usando anche trucchi di bassa lega che sfruttano le debolezze degli antagonisti; la seconda è che le pulsioni basse, sensuali, quelle più vicine alla componente animale come la lussuria, inevitabilmente portano alla perdita dell’immortalità, costringendo chi ne è succube a rimanere nel ciclo del Samsara. Ma la più importante, a mio avviso, è che il male non è eterno, che il nettare dell’immortalità lo possiedono solo le forme benevole, Sattviche del Divino, che il male può anche prendere il sopravvento in alcuni periodi, ma è inevitabilmente destinato a soccombere davanti all’immortale, eterno bene.
Come dicevamo, molte raccolte di storie raccontano all’umanità le gesta dei Deva nella loro interminabile guerra al male. Lo Srimad Bhagavatan narra le gesta di Krishna, dalla nascita all’adolescenza. Il Devi Bhagavatam comprende una serie di narrazioni su come Devi ha salvato, in più occasioni, l’universo dalla tirannia degli Asura, i demoni. Devi è l’aspetto femminile di Ishvara. Le storie sono tante, ma un po’ si somigliano e hanno dei punti importanti in comune. C’è un Asura, un demone, che aspira a raggiungere l’immortalità, decide quindi di iniziare una rigidissima Tapasyam, un’austerità. Qualcosa di incredibile, come restare su un piede solo per mille anni, senza dormire né mangiare, in costante meditazione, con la mente rivolta esclusivamente a Brahma. Dopo questa lunghissima Tapasyam, il dio Brahma, assai soddisfatto di tanta devozione, chiede all’Asura di esprimere un desiderio. Ovviamente il vero fine di tutto questo sforzo ė quello di ottenere l’immortalità, ma sa bene che è impossibile, allora chiede di poter morire solo in modi particolarissimi, quasi impossibili da realizzarsi. Brahma accondiscende alle sue richieste e l’Asura diventa praticamente invincibile. Subito si scatena il suo attacco, a capo di folte schiere di suoi simili, un vero, numeroso esercito di demoni, contro gli uomini. Conquistato il mondo terreno, porta il suo attacco alle sfere celesti e, dopo averli sconfitti, costringe i Deva, gli splendenti, alla fuga e all’esilio.
Essendo governato dai demoni e non più dagli dei, il mondo diventa un luogo sempre più tetro, sporco e degradato, in cui vive un’umanità impoverita, cupa e materialista. Gli uomini non hanno più né i mezzi né il desiderio di fare offerte agli dei, che di queste offerte si nutrono. Indra, il re dei Deva, al culmine della disperazione davanti a tanto sfacelo, convoca gli altri dei e li porta da Shiva o da Vishnu a seconda della storia. Lì raccolti, tutti tristi e disperati alla vista di come l’intero universo sia stato ridotto dagli Asura, decidono di unire le rispettive Shakti, l’energia divina sotto forma di divinità femminile. Iniziano a proiettarla dall’Ajna Chakra, il terzo occhio. Tutte le Shakti dei vari Deva riunite formano una bellissima, affascinante Devi. Immediatamente la dea manda a dire al re degli Asura che è venuta per porre termine al suo regno di strapotere e di prepotenza. L’Asura nella sua arroganza non se ne dà per inteso, anzi, affascinato dalla bellezza della dea, le propone ripetutamente di diventare sua moglie e quindi la regina dell’universo. Le fa delle profferte sessuali esplicite e volgari, vantando le sue capacità amatorie e, nella cecità della sua presunzione, non riesce a capire come Devi possa rifiutare tutto questo. Infine, dopo che tutti i suoi ambasciatori sono stati uccisi uno dopo l’altro da Devi, lo stesso Asura, al culmine della rabbia, decide di conquistare in un modo o nell’altro quella bellezza di cui si è invaghito follemente. Ne risulta un rapido duello in cui la Devi, utilizzando l’unica arma che l’Asura aveva dimenticato di menzionare nella sua richiesta, lo uccide e libera l’umanità dal suo giogo.
Di storie di questo genere ce ne sono molte nella tradizione indiana e tutte hanno un’infinità di significati simbolici con funzione di insegnamento spirituale. Forse il più importante è quello che potrebbe essere definito con una semplice formula: ‘Odia il peccato, non il peccatore’. Odia l’energia negativa, demoniaca che si appropria di un essere, non l’essere stesso, che in fondo è la prima vittima di quell’energia nera. Le prime gesta di Krishna ancora bambino narrate nello Srimad Bhagavatan sono l’uccisione di numerosi Asura che attentano alla sua vita. Asura, energie orrende intrappolate in corpi mostruosi e che solo grazie alla misericordia di Krishna trovano finalmente Moksha, la liberazione.
Ma se volessimo, così, quasi per gioco, provare a leggere queste storie in modo un po’ più realistico, ‘storico’ e non ‘mitologico’ o pedagogico, forse non andremmo troppo lontani dal vero.
Ritorniamo ai grandi cicli cosmici, i quattro Yuga. Dalla notte dei tempi ad oggi sulla Terra si sono avvicendati chissà quanti Mahayuga. Quindi è molto probabile che sul nostro pianeta si siano già visti tanti, tantissimi Kali Yuga, ere in cui il potere era in qualche modo stato strappato dalle mani degli dei e si era concentrato in quelle ben meno nobili dei demoni, con gli effetti che abbiamo descritto poco sopra. Tutte le Scritture concordano nel definire il passaggio da uno Yuga all’altro segnato da eventi catastrofici, apocalittici.
E se tutto questo non fosse solo frutto di fantasia, ma un modo diverso, colorito e pittoresco di raccontare eventi del passato? Molti scienziati concordano nel dire che oggi la Terra si stia avviando verso la catastrofe ambientale. Le cause? Disboscamento feroce e sconsiderato; eccessivo uso di alimenti di origine animale e creazione di una popolazione di bestie di allevamento smisurata, una pratica non solo inumana e crudele, ma ecologicamente insostenibile; diffusione dissennata di prodotti industriali inutili e dannosi, il cui bisogno è stato indotto nella popolazione con campagne pubblicitarie martellanti e la cui produzione e, peggio ancora, il cui smaltimento, ha conseguenze disastrose per l’ambiente; la medicalizzazione di qualsiasi aspetto della vita, dalla nascita alla morte, con guadagni enormi da parte di un sempre più esiguo numero di società farmaceutiche; la produzione di semi geneticamente modificati che danno piante sterili, costringendo i contadini a dipendere dalle multinazionali dei semi che impongono il loro monopolio; un numero sempre minore di super ricchi, padroni di banche planetarie che decidono il bello e il cattivo tempo per il resto dell’umanità; inquinamento ormai ben oltre il punto di non ritorno di aria, acque e terra. Il tutto per le politiche economiche e sociali dissennate di un piccolo pugno di uomini potentissimi che decidono tutto, sempre e soltanto per il loro tornaconto, in totale dispregio degli interessi di Madre Natura e delle moltitudini di uomini, animali e piante che in essa vivono e che da essa dipendono.
Siamo così lontani dalle storie del Devi Bhagavatam? Chissà se la fase storica che stiamo oggi vivendo non sia in realtà niente di nuovo, ma un semplice riproporsi di avvenimenti che si sono ripetuti in forma simile innumerevoli volte, e che gli antichi Rishi indiani già conoscevano e raccontavano? Che gli Asura che noi immaginiamo fisicamente mostruosi non si siano in realtà insediati in corpi dall’aspetto normalissimo, in giacca e cravatta? Come, probabilmente, erano gli stessi Asura della mitologia, esseri dall’aspetto umano, ‘normale’, ma mossi da un’energia nera, Tamasica, nefasta. Capaci di devozione al Divino, capaci di fare austerità spaventose per chiunque, ma con l’occhio sempre rivolto al proprio tornaconto. Esattamente quello che ci insegna la Bhagavad Gita quando Krishna spiega i principi del Karma Yoga: agire è inevitabile e l’azione ci lega al Samsara, ma se rinunciamo ai frutti dell’azione stessa e soprattutto rinunciamo all’idea di essere noi gli esecutori di quella azione, il noi in corpo e mente, l’azione diventa un’offerta a Dio, diventa un agente di liberazione. Portato agli estremi, l’Asura è in ognuno di noi, è quell’energia Tamasica che ci rende schiavi dell’egoismo, dell’avidità e della lussuria, che ci tiene legati ai Chakra bassi, quelli della Prakriti inferiore e ci costringe a rimanere incatenati al Samsara, il ciclo di nascite e morti.
Non dovremmo mai pensare che le condizioni in cui si vive siano destinate a durare in eterno e che, semmai, possano solo migliorare. La storia ci ha insegnato che molte delle conquiste sociali e civili non sono mai definitive. Si fa presto a tornare indietro. Basti pensare a come è stata resuscitata dopo secoli la schiavitù in Nord e Sud America! Ma soprattutto bisogna pensare che le nefandezze che soffocano l’umanità non sono esclusivamente opera di uomini malvagi e che basta liberarsi di quegli uomini malvagi per liberarsi della loro malvagità. La malvagità è un’energia presente nel mondo, si insedia in vari corpi a seconda del loro Karma individuale e del Karma dell’umanità. Quindi, bisogna replicare all’essenza del Male con l’essenza del Bene, non con forme diverse di male.
Certo, l’impegno sociale, la lotta alle ingiustizie, alla crudeltà e alla sopraffazione in ogni loro forma, la solidarietà sociale verso chi ne ha bisogno, sono cose altamente meritorie, specialmente se messe in atto con un profondo spirito di altruismo, di devozione e di non attaccamento ai risultati dell’azione stessa, nello spirito del Karma Yoga. Però è importante imparare a non replicare al male usando i suoi stessi strumenti, replicare all'aggressività con l’aggressività, alla forza con la forza, anche perché ci si scontra con chi nell’uso di questi strumenti è maestro.
Ramana Maharshi a un discepolo che gli chiedeva come si può aiutare l'umanità, rispose che il miglior modo per farlo è di realizzare Dio. Perché le anime realizzate emanano una vibrazione di pace e di spiritualità talmente intensa da contrastare l'energia negativa che ci circonda. Impariamo a cambiare noi stessi prima di pensare di poter cambiare il mondo. Gli strumenti ci sono e sono liberamente accessibili a tutti. Le pratiche spirituali, i testi sacri, le discipline dello Yoga e della meditazione. Usarle significa purificarsi ed elevarsi; purificarsi ed elevarsi significa contribuire alla purificazione e all'elevazione di tutta l’umanità, anche in un’epoca nera come il Kali Yuga, anzi, soprattutto in Kali Yuga!
Paolo Quircio
Roma, 30-07-2017