di Paolo Quircio
“Quando la mente è fermamente convinta che Brahman è reale e l’universo irreale, è ciò che chiamiamo viveka, la discriminazione tra il Reale e l’irreale.”
Adi Shankaracharya ‘Viveka Chudamani’, XX
Questo è il concetto principale, fondante, dell’Advaita Vedanta, il Vedanta non dualistico, così come è stato formulato dal grande filosofo e mistico indiano Adi Shankaracharya, vissuto, probabilmente, tra il 788 e l’820.
Brahman, infinito, mai nato, eternamente esistente, che tutto pervade, è l’unica realtà. Prakriti, la natura sensibile, a volte indicata anche come Jagat, l’Universo, o Maya, il velo dell’ignoranza, è un’illusione, una creazione della mente. Così come il sogno è creato dalla mente di chi dorme e al suo risveglio non esiste più, così l’erronea identificazione con il corpo e la mente dà luogo nell’individuo, il Jiva, ad una sorta di sogno apparentemente molto reale, destinato comunque a dissolversi con il risveglio spirituale, la profonda presa di coscienza che la nostra vera realtà non è quella illusoria dei sensi di percezione e della mente che li coordina, ma l’Atman, il riflesso del Brahman che è in tutti noi, come l’unico Sole che si riflette in innumerevoli pozze piene d’acqua. Il raggiungimento della consapevolezza che ognuno di noi è in essenza divino elimina Avidya, l’ignoranza spirituale, e ci rende pronti per il Samadhi, lo stato di comunione col Divino, e quindi per Moksha, la liberazione dal Samsara, il ciclo di rinascite e morti.
Ottenere l’illuminazione è cosa estremamente difficile. È un percorso lungo e complesso che richiede un numero grandissimo di vite ed un immenso sforzo di volontà. Per capire quanto sia lungo e complesso il percorso di ritorno alla fonte divina da cui tutti veniamo, è indispensabile conoscere e comprendere la legge del Karma. Karma in sanscrito vuol dire ‘azione’, e la legge del Karma prevede che ad ogni azione corrisponda un’azione uguale e contraria. Potrebbe sembrare che chi si comporta bene in una vita verrà premiato nella vita seguente, mentre chi si comporta male verrà punito. Ma bene e male sono categorie umane, abbastanza mutevoli peraltro; cose che qualche secolo fa erano considerate immorali oggi sono ampiamente accettate e viceversa. La linea guida, più che il bene e il male, è il Dharma. Spesso tradotto con la parola ‘rettitudine’, Dharma ha anche altri significati, come ‘disciplina’, ‘religione’. Il suo significato più importante, però, non si riferisce tanto all’etica, quanto al percorso spirituale: Dharma è ciò che ci fa progredire in questo percorso, Adharma, la sua negazione, è ciò che ci ferma o addirittura ci fa tornare indietro, un po’ come nel gioco dell’oca.
Quindi non è tanto una questione di punizioni e ricompense, quanto un avanzare o retrocedere in un percorso formativo di elevazione spirituale verso il Divino che tutti noi siamo chiamati a compiere. Una vita non basta a sperimentare e capire fino in fondo le infinite varietà di situazioni, emozioni, rapporti personali e sociali e, soprattutto, il nostro rapporto con noi stessi e col Divino. Per passare dallo stadio di essere umano appena uscito dallo stato animale a quello di Jivanmukta, l’uomo che ha realizzato la sua natura divina pur essendo ancora in vita, di nascite ce ne vogliono moltissime e in ognuna di esse ci troviamo a vivere nelle condizioni e con un bagaglio di tracce caratteriali creati nelle esistenze precedenti. Ciò che ci accade non può non accadere. Non possiamo cambiare il nostro attuale destino, che è stato da noi creato nelle nostre vite precedenti.
Quello che però possiamo cambiare è il modo in cui noi viviamo le situazioni in cui inevitabilmente ci veniamo a trovare. Agli stessi identici accadimenti si può reagire in una grande varietà di modi. Dalla rabbia all’indifferenza, dalla rassegnazione passiva all’accettazione comprensiva, solidale e piena d’amore. Non c’è bisogno di leggere le Sacre Scritture per capire ciò, basta guardarsi intorno e osservare l’umanità che ci circonda e, meglio ancora, il nostro proprio comportamento.
Per capire bene le cose e le persone che abbiamo intorno, come sono e come agiscono, ma soprattutto per capire davvero a fondo chi siamo e perché viviamo in un modo e non in un altro e come possiamo cambiare la nostra natura e portarla verso una più alta e consapevole spiritualità, è necessario comprendere un’altra componente essenziale del Vedanta: i Guna.
La parola Guna viene solitamente tradotta con ‘qualità’, anche se sarebbe più appropriato usare la parola ‘tendenza’. I Guna sono tre: Sattva, Rajas e Tamas. Il primo indica la purezza, il secondo l’azione e la passione, il terzo, Tamas, l’inerzia. Queste tre qualità o, come detto, tendenze, pervadono l’intero Universo, ogni cosa e ogni essere vivente. Inoltre determinano i comportamenti e le attitudini.
“Purezza, passione e inerzia - queste qualità, O potente Arjuna, nate dalla Natura, legano saldamente al corpo colui che si è incarnato, l’Indistruttibile!” Bhagavad Gita XIV, 5
Dove per l’Indistruttibile si intende ovviamente l’Atman, il riflesso nell’individuo del Brahman universale. Quindi i Guna non sono semplicemente aspetti della Natura, ma ne sono l’essenza stessa. Guna, Prakriti, Jagat, Maya, in realtà sono nomi diversi che designano un’unica cosa, la realtà sensibile, identificandoci con la quale ci troviamo invischiati nelle panie del Samsara, il ciclo di nascite e morti.
Molto raramente i Guna si trovano isolatamente, sono per lo più presenti in combinazione tra loro e dalla prevalenza dell’uno o dell’altro dipende la qualità globale di una cosa o di una persona e, nel secondo caso, il suo carattere e il suo comportamento. Una persona serena, spirituale, generosa, che tende ad aiutare gli altri senza aspettarsi ricompense avrà una tendenza prevalente al Sattva, con una componente di Rajas che le permette di essere attiva. Una persona tesa, iperattiva, aggressiva, iraconda, manifesta una preponderanza di Rajas con una buona componente di Tamas, che indirizza la sua attività e la sua passione in modo distruttivo.
La persona caratterizzata da una prevalenza di Tamas sarà pigra, indolente, tendente all’inerzia. Ovviamente, tra un individuo quasi esclusivamente Sattvico, come può esserlo un grande Maestro spirituale o un santo, e uno totalmente Tamasico, un demone, c’è una scala di valori e di caratteri più o meno infinita.
Secondo la cosmogonia vedica, all’inizio era la quiete più totale, una quiete in cui i tre Guna erano in assoluto equilibrio tra loro. Proprio questo equilibrio tra i Guna permetteva all’Universo di rimanere nello stato potenziale, senza manifestarsi. Ma così come esiste il Karma degli individui, delle famiglie, dei gruppi sociali e delle nazioni, così esiste il Karma dell’intero Universo. Quindi, per motivi karmici, i tre Guna hanno cominciato ad essere sbilanciati tra di loro. Questo disequilibrio ha fatto sì che l’Universo cominciasse a muoversi. Inizialmente come Shabdabrahman, la vibrazione primordiale, il suono senza suono. Nel suo ‘Meditazione e Mantra’, Swami Vishnudevananda definisce lo Shabdabrahman “La lunghezza d’onda percepita come Dio”. Da esso, per espansioni e differenziazioni, gradualmente ha preso forma il mondo sensibile così come lo conosciamo, passando dall’estremamente sottile, energia divina, causale, via via al sempre più grossolano, il mondo materiale. La creazione del mondo grossolano, quello della materia, ovviamente non esclude i permanere del mondo, ovvero dei mondi, sottile; ed è proprio il ritorno al sempre più sottile la chiave del percorso dello Yoga.
In ‘
Bliss Divine - Il Libro della Divina Beatitudine’, il grande santo e divulgatore dello Yoga Swami Sivananda ci dice: “Condurre una vita virtuosa non è sufficiente in sé per ottenere la realizzazione di Dio. È assolutamente necessario raggiungere la concentrazione della mente.
Una vita buona e virtuosa prepara semplicemente la mente ad essere uno strumento adatto alla concentrazione e alla meditazione. Sono la concentrazione e la meditazione che alla fine conducono alla realizzazione del Sé. […] La meditazione è l’unica via regale per il conseguimento della salvezza, di Moksha. È una scala misteriosa che conduce dalla terra al cielo, dall’errore alla verità, dalle tenebre alla luce, dal dolore alla beatitudine, dall’inquietudine alla pace permanente, dall’ignoranza alla conoscenza. Dalla mortalità all’immortalità.”
Questo lavoro preparatorio alla meditazione, la chiave che apre la cella in cui siamo rinchiusi, che ci conduce ‘Dalla mortalità all’immortalità’, si effettua lavorando sul cambiamento dei Guna in noi. Dove sentiamo l’inerzia e la pigrizia prevalere, Tamas, dobbiamo utilizzare il Rajas dell’azione e della passione per liberarcene. Ma dopo aver usato Rajas per sconfiggere Tamas, dobbiamo gradualmente trasformare questo stesso Rajas in Sattva. Una prevalenza in noi di Sattva sarà ciò che ci permetterà di avvicinarci con atteggiamento positivo e fattivo allo Yoga e quindi alla meditazione.
È importante non dimenticare che anche Sattva, per quanto sottile e positivo, è pur sempre un Guna e, come tale, dà attaccamento, l’attaccamento alla felicità.“Quando l’osservatore non vede altro agente che i tre Guna, conoscendo ciò che è al di sopra di essi, egli arriva al Mio Essere”“L’incarnato, essendo andato oltre i tre Guna da cui si è evoluto il corpo, si libera da nascita, morte, decadenza e dolore e raggiunge l’immortalità.” B.G. XIV 19-20 Una volta un anziano Swami mi raccontò questa storia: un mercante che viaggia per affari si trova ad attraversare un bosco solitario, dove viene aggredito da tre ladri. Dopo averlo derubato dei suoi averi, uno dei tre propone di ucciderlo, il secondo dice di legarlo ad un albero, cosa che fanno prima di andarsene per la loro strada. Dopo un po’ di tempo il terzo ladro torna dal mercante, lo slega e lo accompagna fino alla strada. Qual è il significato della storia? Il primo ladro è il Tamas, che ti uccide; il secondo è il Rajas, che ti lega e se ne va, mentre il terzo ladro è ovviamente Sattva, che ti scioglie le corde e ti accompagna sulla giusta strada. Ma è pur sempre un ladro che ti ha rubato i tuoi averi più preziosi!
Quello che Swami Sivananda e questa breve storia ci dicono è che il percorso di trasformazione che deve avvenire in noi attraverso lo Yoga, non può non avvenire che attraverso i Guna, perché sono ciò di cui disponiamo. La trasformazione consiste nel graduale passaggio dal più letale al meno pericoloso dei tre, consapevoli del fatto che anche da Sattva bisogna staccarsi e che solamente la meditazione ci farà fare quel salto finale e decisivo verso Moksha, la liberazione dal ciclo di nascite e morti.
Il percorso di trasformazione interiore, di passaggio tra la prevalenza di Tamas a quella di Sattva, inevitabilmente si traduce in una trasformazione del nostro rapporto col Divino. Negli ultimi capitoli della Bhagavad Gita Sri Krishna spiega ad Arjuna, e quindi a tutti noi, come i Guna si manifestino in ogni cosa che pensiamo, sentiamo e facciamo. Nel cibo che prediligiamo, nel modo in cui offriamo i sacrifici, pratichiamo le austerità o facciamo la carità. Si manifestano nei tre gradi della rinuncia, della conoscenza, dell’azione e di come si compie l’azione stessa. Per finire, ci spiega come caratterizzino l’intelletto, la fermezza, il piacere. Ma l’aspetto più importante della manifestazione dei Guna è quello che essi hanno sulla fede, Shraddha:
“Triplice è la fede dell’incarnato ed è insita nella sua natura—la Sattvica (pura), la Rajasica (passionale), e la Tamasica (buia). Ascolta questo.”
“La fede di ognuno è in accordo con la sua natura, O Arjuna! L’uomo consiste della sua fede; com’è la sua fede, così egli è”. B.G. XVII 2-3
“In accordo con la sua natura”, la natura innata in ognuno di noi, così come viene determinata dalle azioni compiute nelle vite precedenti. Come detto prima, a livello pratico la legge del Karma può apparire inesorabile, senza vie d’uscita, e in effetti in qualche modo lo è. Ma è importante capire che le cose apparentemente terribili che ci accadono nella vita non sono punizioni inflitte da un Dio crudele, né il passatempo di un Dio capriccioso e bizzarro. È importante cogliere l’aspetto pedagogico di questi accadimenti.
Swami Vishnudevananda, allievo di Swami Sivananda Saraswati e fondatore di una delle più importanti scuole di Yoga del mondo, diceva che non ci sono Karma buoni e Karma cattivi, ma Karma buoni e Karma piacevoli. Lo scopo ultimo di ogni reincarnazione è quello di morire migliori di come siamo nati, di procedere nel percorso millenario di evoluzione spirituale. La vita spensierata e sensuale della persona benestante che si occupa esclusivamente del proprio piacere non procura alcuna evoluzione spirituale; una vita irta di difficoltà, a volte dolorose, ci può far capire la vacuità dei nostri sogni e dei nostri desideri, portandoci a dare il giusto peso sia ai beni materiali che a quelli spirituali, a cambiare la nostra scala di priorità.
“L’uomo sattvico adora i Deva, il rajasico i Yaksha e i Rakshasa, mentre il tamasico adora i Preta e le schiere dei Bhuta.” B.G. XVII, 4
Nel suo straordinario commentario alla Bhagavad Gita, Sri Paramahansa Yogananda così spiega questo sloka:
“Gli uomini sattvici, o uomini buoni, adorano i Deva (le divinità), incarnazioni delle qualità spirituali.
Gli uomini rajasici, mondani e passionali, adorano gli Yaksha, (spiriti custodi della ricchezza) e i Raksha (demoni del mondo astrale e giganti molto potenti e aggressivi).
Gli uomini tamasici e indolenti adorano i Preta (spiriti dei morti) e i Bhuta (fantasmi ed esseri elementali).”
Basta guardarsi attorno e senza nessuno sforzo particolare si possono vedere nella società che ci circonda tutti questi personaggi descritti dalla Gita, ovviamente non in maniera così schematica, in bianco e nero, ma con la graduale scala dei grigi. Da una parte ci sono gli uomini buoni e spirituali, miti, generosi ed altruisti, desiderosi di migliorarsi e crescere spiritualmente.
Poi gli adoratori di Mammona, che hanno come solo scopo nella vita quello di diventare ricchi e potenti e non guardano in faccia a nessuno per ottenere ciò che vogliono, pronti a camminare su qualsiasi scheletro pur di raggiungere i propri obiettivi.
Infine gli inerti, frequentatori di sedute spiritiche, superstiziosi, parassiti, sia fisici che energetici, che a causa della loro pigrizia ed apatia rimandano sempre a data da definire qualsiasi impegno di crescita.
Quindi l’uomo è ‘
Shraddhamaya’, è fatto della sua fede, del tipo di fede che nutre; perché la qualità della sua fede esprime il suo livello di evoluzione spirituale; la fede pura, a sua volta, migliora o, per così dire, accelera il suo percorso karmico di ritorno alla Fonte Divina. L’uno fa crescere l’altro. Come quando si fa una salita ripida si va avanti con un piede alla volta e ognuno dei due permette all’altro di andare un po’ più avanti, così la fede fa aumentare l’evoluzione spirituale e l’evoluzione spirituale fa aumentare la fede. Spesso accade che le pratiche yogiche, iniziate a volte senza un preciso obiettivo spirituale, conducono, quasi inaspettatamente, a provare la fede, ed è proprio questa fede che permette di fare il grande salto in avanti nel cammino spirituale, diventandone il motore profondo.
Perché la fede non può e non deve essere una fede cieca, che prescinde dall’intelletto e dalla razionalità, deve essere una fede consapevole, consapevole che la nostra vera, profonda essenza è divina. Un grande santo indiano dello scorso secolo, Swami Vivekananda, usava dire ai suoi allievi: “Non dovete credere a nulla, dovete sapere. E lo Yoga vi fornisce gli strumenti per ottenere la conoscenza”. Conoscenza spirituale che non ha senso se non è conoscenza diretta, sperimentata in prima persona. Swami Sivananda parlava con ironia del ‘Vedanta da salotto’, il ‘Vedanta a parole’, al punto di dire al lettore dei suoi propri libri: “Lascia questo libro e vai a praticare”. In effetti i libri, le lezioni, la conoscenza teorica sono solo degli strumenti che guidano il praticante, l’aspirante spirituale fino al punto in cui diventa capace di superare ‘le porte della percezione’, il mondo sensibile.
“Per colui che conosce il Brahman, i Veda sono della stessa utilità di un piccolo serbatoio d’acqua quando l’alluvione arriva da ogni lato” B.G. II, 46
Persino i Veda, considerati ‘
Sruti’, ciò che si è sentito, in quanto scritti da grandi santi e veggenti che avevano raggiunto il contatto col Divino; i Veda, venerati come Verbo divino, massima fonte di saggezza spirituale, diventano inutili davanti al potere dell’illuminazione, della presa di coscienza profonda e consapevole della nostra vera natura, quella divina. Sapere tutto dell’altrui saggezza non ci rende automaticamente saggi, eruditi forse si, ma saggi no.
Solo la pratica diretta e costante, Abhyasa, può operare questo ‘miracolo’, può trasformare un individuo ordinario in un essere altamente spirituale, riavvicinandolo alla fonte divina da cui tutti proveniamo. Può realizzare ‘
Yug’, l’unione tra Atman e Brahman, tra l’anima individuale e l’anima cosmica, che già esiste e che è sempre esistita, ma di cui non ci rendiamo conto, illusi come siamo dalla nostra ignoranza spirituale. L’ignoranza spirituale che è l’unico vero ostacolo che si frappone tra noi e la nostra vera, profonda essenza:
Ananda, la beatitudine divina.
Hari Om Tat Sat
Paolo Quircio
Roma, 03-03-2017
Per Approfondire:
Bliss Divine - Il libro della Beatitudine Divina
Il vero scopo della vita umana e i mezzi per conseguirlo
Edizioni Il Libraio delle Stelle
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