“Dovete credere solo a voi stessi. Dovete cercare di ascoltare la Voce Interiore”.
M. K. GANDHI
L’insegnamento del Buddha è molto articolato e si rivolge alle esigenze e alle inclinazioni di tutti gli esseri. Il Buddha si è adoperato in vari modi per toccare il cuore degli esseri senzienti affinché questi trovassero al proprio interno una via di uscita dalla propria condizione di sofferenza. È all’interno dei nostri cuori che dobbiamo rivolgere lo sguardo e scoprire il nostro disagio, più o meno latente.
Nel corso della pratica meditativa abbiamo modo di focalizzare meglio l’attenzione su noi stessi pacificando per quanto possibile la mente, cercando un nuovo orientamento che possa donare alla vita pratica maggiore chiarezza e discernimento.
Essenzialmente, dobbiamo riconoscere ciò che possiamo cambiare e ciò che non possiamo cambiare al nostro interno. Il retto discernimento ci permette di acquisire maggiore saggezza. Osservandoci noteremo il sorgere di diversi pensieri e ricordi, che sono rappresentazioni del passato più o meno accurate, ma non sempre e non necessariamente sono rappresentazioni reali di quanto è accaduto: spesso si tratta di nostre interpretazioni.
Gli eventi che hanno caratterizzato il nostro vissuto e che ci hanno portato alla situazione attuale costituiscono il nostro passato, che è quindi determinato da cause e condizioni, non sempre controllabili e non sempre determinate dal nostro agire. Dobbiamo riconoscere, pertanto, che la nostra stessa persona si colloca in un quadro esperienziale più grande. Se riusciamo a capire questo, ci rendiamo conto dell’interconnessione e dell’interdipendenza con tutti gli esseri: noi non siamo i soli agenti. Ci sono cause e fattori che contribuiscono al modo in cui le cose accadono, e non sempre sono determinabili. Il passato ci offre un’esperienza da non sottovalutare. Rapportarci nel modo più corretto con il passato ci permette di avere maggiore chiarezza rispetto al nostro agire, poiché è nel presente che possiamo effettivamente cambiare il corso della nostra vita, rimuginare il passato non serve molto.
Molto spesso ci diciamo in modo critico, piuttosto aspro, che se avessimo agito diversamente, se non avessimo detto quella parola, se non avessimo fatto una certa azione, le cose sarebbero andate diversamente. Sebbene questa sia un’osservazione piuttosto logica, tuttavia non trova una collocazione nel contesto di quanto è avvenuto in passato, poiché ciò che è stato fatto è stato fatto; nel bene e nel male, è accaduto.
Il disagio è l’effetto delle nostre azioni: ciò che mandiamo all’esterno ci ritorna indietro. E in questa stessa luce la dottrina del karma diventa pregna d’implicazioni.
Generalmente, la parola páli ‘kamma’, che equivale al sanscrito ‘karma’, indica l’azione, l’azione compiuta con il pensiero, con la parola, con il corpo . Tanto più quest’intenzione è carica della nostra volontà, della nostra intenzionalità, tanto più è ricca, nella sua espressione energetica, di possibilità e ripercussioni. Per questo stesso motivo, la pratica meditativa diventa lo strumento più efficace per percepire fin dall’inizio quanto sta accadendo. Questa capacità di essere centrati, di prevenire l’effetto negativo del nostro agire, è propria dei saggi. Riflettere sulla nostra esperienza ci aiuta a comprendere, giorno dopo giorno, qual è il modo di agire più corretto.
Il retto agire, infatti, nasce dalla retta comprensione: la retta comprensione permette la retta espressione nei pensieri, nelle parole e nelle azioni, cioè promuove un comportamento etico universale che va al di là delle appartenenze e delle tradizioni religiose. Grazie a questa capacità di essere in armonia con noi stessi possiamo diffondere vibrazioni amorevoli nell’universo, uscire dai confini dell’ego per ritrovare quella forza e quella frequenza vibratoria che ci rende veramente canali di luce.
È importante avere fiducia nella nostra capacità di rivoluzione interiore, lasciare andare il passato e i sensi di colpa, ritrovare nel presente la forza di cambiare il corso della nostra vita, agendo sul piano mentale ed emotivo e sul nostro stesso comportamento.
La capacità di spoliazione delle abitudini comportamentali, frutto dell’accumulazione, del ripetersi delle azioni incoscienti, ci rinnova momento per momento, mantenendoci attenti e capaci d’ascolto amorevole e compassionevole. Questa apertura richiede una totale disponibilità da parte nostra, un vero e proprio abbandono. Il più delle volte non ne siamo capaci a causa della paura. L’abbandono, come la fiducia, è frutto del raccoglimento interiore: riuscire a trovare al nostro interno la forza, l’aspirazione e la motivazione nel cammino spirituale è di enorme nutrimento; ci dona, poco a poco, quell’equilibrio che è indispensabile per arrivare alla meta. Dovremmo chiederci che cos’è che vogliamo veramente, qual è il senso della nostra vita. Queste domande ci permettono innanzitutto di riconoscere al nostro interno la confusione riguardo alle nostre mete e al nostro agire, la mancanza di chiarezza rispetto al senso della vita, allo scopo della nostra vita.
Di solito agiamo perché spinti da forze, da condizionamenti che sfuggono alla nostra vigilanza. Sembriamo palle di neve che dalla vetta di una montagna cominciano a cadere provocando una vera e propria valanga. La potenzialità distruttiva è presente in ognuno di noi e deve essere percepita nel momento in cui sorge, affinché all’ignoranza non si aggiungano altri strati di ignoranza, di distruttività, di negatività.
L’azione richiesta, se vogliamo effettivamente uscire dalla sofferenza, è sciogliere sul sorgere il nucleo egoico, tagliare con la spada della saggezza la falsa concezione di sé. In questo modo superiamo i nostri limiti, smettiamo di pretendere che il mondo ruoti attorno a noi. Evitando di cadere nell’egocentrismo, riconosciamo fin dall’inizio l’espansione territoriale dell’ego, la sua vorace richiesta d’attenzione da parte degli altri.
Crescere richiede grande coraggio, la stessa pratica meditativa richiede grande coraggio: si può crescere di più in una sola ora di pratica che in dieci anni vissuti distrattamente. Gli stessi ritiri di meditazione dovrebbero essere chiamati ritiri di crescita intensiva, in cui siamo un po’ come piantine tenute nella serra, in condizioni ideali, affinché possano germogliare, crescere, dare frutti.
La forza acquisita nel contesto particolare dei ritiri deve essere comunque sostenuta all’esterno dalla pratica. Non basta un’immersione completa di qualche giorno per avere più chiarezza o capacità di discernimento, abbiamo bisogno di continuità.
In altre parole, abbiamo bisogno di sostenere il nostro impegno alla pratica affinché quel piccolo lume che abbiamo acceso non si spenga subito dopo per mancanza d'olio. È dunque importante riuscire ad integrare la pratica meditativa nella vita quotidiana. Senza dubbio, si tratta di un’impresa ardua; io stesso, una volta privo del sostegno della comunità monastica, ho trovato difficoltà in questo senso. In un contesto laico ho avuto modo di sperimentare in prima persona quanto sia difficile praticare da laici. Siamo così presi dalle attività, oppressi da richieste di tutti i generi, al punto di avere poca attenzione per noi stessi, al punto di trascurarci e trascurare ciò che di più bello c’è in un uomo, il cuore.
In lingua páli esiste una parola, citta, che indica sia la mente sia il cuore, ovvero tanto le facoltà intellettive quanto gli aspetti emozionali. È questo cuore-mente che deve essere educato con la meditazione. La parola pali citta-bhávaná, con la quale comunemente s’intende la pratica meditativa, letteralmente significa ‘ciò che dona essere alla mente’, indica pertanto la ‘coltivazione’ e lo ‘sviluppo’ di tutte le potenzialità positive della mente. Quando al Buddha venne chiesto “In cosa consiste il tuo insegnamento?”, egli rispose: “Il mio insegnamento consiste nel fare il bene, nell’evitare il male e nel coltivare e purificare la mente”. Poche, semplici parole che riassumono un insegnamento valido per tutta l’umanità, che invita indiscriminatamente ogni essere capace di intendere e di volere a divenire fonte d’amore ed espressione di saggezza.
Troppo spesso il nostro approccio alla vita è privo di sensibilità. Un approccio alla vita che poggi sulla sensibilità ci porterebbe a riconoscere il nucleo vitale presente in tutti gli esseri, quindi la loro sensibilità, la loro precarietà, la loro vulnerabilità, riconoscere l’impermanenza di tutte le cose. Questa presa di coscienza opera un cambiamento radicale nelle nostre prospettive, nelle modalità comportamentali. In virtù di questa comprensione ognuno di noi può avvicinarsi a un altro essere con amorevolezza e compassione.
Quando il principe Siddhartha, uscendo dal palazzo reale, vide per la prima volta un malato, un anziano e un morente, prese coscienza della precarietà dell’esistenza. Questi incontri lo indussero a lasciare la vita agiata, il conforto dei propri cari, a lasciare la moglie e il bambino appena nato per trovare una risposta alla problematica esistenziale del nascere, ammalarsi e morire. Le scritture narrano che Siddhartha, prima di lasciare il palazzo, espose questo dilemma a suo padre, il re Suddhodana. Il padre non seppe rispondergli. Noi stessi da bambini avremo rivolto sicuramente innumerevoli domande ai nostri genitori e spesso non abbiamo ricevuto risposte soddisfacenti. Acquistando una nostra indipendenza, cercando una nostra autonomia negli affetti, nelle relazioni sociali, abbiamo cercato di assicurarci un benessere che non può soddisfare le nostre domande innocenti, quelle stesse domande che facevamo da bambini e che forse da adulti abbiamo accantonato.
Ricordo il dolore, la sofferenza nel vedere il mio cagnolino ferito, quando mi chiedevo: “Perché, perché deve soffrire un essere così innocente?”. Ricordo la sofferenza nel momento del distacco alla morte del mio gatto, una sofferenza che chiuse il mio cuore per anni; non volevo alcun tipo di rapporto, né con gli animali né con le persone. La via del non–attaccamento richiede la capacità di aprire il nostro cuore, affinché questo trovi al tempo stesso vulnerabilità e indistruttibilità, che sono caratteristiche della Verità. Il cuore umano si deve trasformare nel cuore della saggezza, deve essere temprato dalle esperienze della vita. Non serve chiuderlo per non far entrare nessuno; ciò significherebbe non-vita, morte, mancanza di coraggio, mancanza di relazioni, significherebbe solitudine, incapacità e paura d’amare. Siamo chiamati ad amare perché siamo chiamati a crescere sani, non è possibile la crescita biologica se non c’è amore, se non c’è un tendere dall’interno verso l’esterno per ritrovare nel movimento armonico, nel pulsare stesso della vita un flusso d’energia che va al di là della forma.
Crescere è essenzialmente espressione di salute, un albero che non cresce è malato, un albero che non mette radici è un albero che può essere sradicato facilmente. Una persona che non cresce, che non matura, non è una persona sana, non ha trovato nel mondo una sua base per costruire. Trovare questa base richiede, essenzialmente, un’attenta valutazione dei pensieri e dei condizionamenti mentali. Forse ci vorrà tutta la vita per comprendere davvero la mente e i suoi contenuti. Trovare le coordinate al nostro interno ci permette di usare la bussola, di fare una mappa più precisa al fine di percorrere una strada e di continuare il nostro viaggio. Scopriamo, dunque, che crescere significa innanzitutto tornare a casa, ritrovare la via. Ed è in questo mondo che dobbiamo vivere la nostra vita con impegno e con chiarezza, applicando nell’azione, nei pensieri, nella parola, quella comprensione che è frutto del nostro cammino interiore.
THANAVARO
Nato in Friuli nel 1955 a 22 anni si reca in Gran Bretagna ed incontra Achaan Sumedho, che riconosce come suo maestro. Sotto la sua guida inizia un intenso periodo di formazione meditativa all'interno della tradizione dei Maestri della Foresta della scuola Theravada. Nel 1979 riceve l'ordinazione completa di bhikkhu. Per 8 anni rimane in Gran Bretagna ove partecipa attivamente alla fondazione di 2 monasteri. Nel 1985 si reca in Nuova Zelanda per costruire un nuovo centro monastico. Come monaco errante visita diversi paesi incontrando molti maestri dai quali riceve preziosi insegnamenti. Tra questi: Sua Santità il XIV° Dalai Lama, S.S. il XVI° Karmapa, Achaan Chah, Krishnamurti, etc… Nel 1990 torna in Italia e fonda il primo monastero Theravada, del quale diviene Abate. Ricopre la carica di Presidente dell'Unione Buddhista Italiana, collabora con la Fondazione Maitreya e ne diventa il vicepresidente. Nel 1996 dopo 18 anni di vita monastica lascia i voti. Nel 1999 con la Dottoressa Franzese, psicologa e psicoterapeuta, fonda l'Associazione Amita Luce Infinita che in diversi modi promuove l'esplorazione della coscienza e la crescita psico-spirituale. Qualificato maestro di meditazione vipassana tiene conferenze, seminari e ritiri in tutt'Italia.
E' autore delle opere: Non creare altra sofferenza, Verso la luce, Da cuore a cuore,Uno sguardo dall'arcobaleno e Meditiamo insieme edite da Ubaldini.
Per la Promolibri ha pubblicato: La via del Pellegrino - Visita ai luoghi sacri del Buddha.
Per informazioni:www.amitaluceinfinita.it