IDEA E ESPERIENZA DI BELLEZZA
“Bello” - insieme a “grazioso”, “carino”, oppure “sublime”, “meraviglioso”, “superbo” ed espressioni consimili - è un aggettivo che usiamo sovente per indicare qualcosa che ci piace. Sembra che, in questo senso, ciò che è bello sia uguale a ciò che è buono, e infatti in diverse epoche storiche si è posto uno stretto legame tra il Bello e il Buono. Se però giudichiamo in base alla nostra esperienza quotidiana, noi tendiamo a definire come buono ciò che non solo ci piace, ma che anche vorremmo avere per noi. Infinite sono le cose che giudichiamo buone, un amore ricambiato, una onesta ricchezza, un manicaretto raffinato, e in tutti questi casi noi desidereremmo possedere quel bene.
È un bene ciò che stimola il nostro desiderio. Anche quando giudichiamo buona un'azione virtuosa, vorremmo averla compiuta noi, ovvero ci ripromettiamo di compierne una altrettanto meritevole, spronati dall'esempio di ciò che riteniamo essere bene.
Oppure chiamiamo buono qualcosa che è conforme a qualche principio ideale, ma che costa dolore, come la morte gloriosa di un eroe, la dedizione di chi cura un lebbroso, il sacrificio della vita compiuto da un genitore per salvare un figlio… In questi casi riconosciamo che la cosa è buona ma, per egoismo o per timore, non vorremmo essere coinvolti in un'esperienza analoga. Riconosciamo quella cosa come un bene, ma un bene altrui, che guardiamo con un certo distacco, anche se con commozione, e senza essere trascinati dal desiderio. Spesso, per indicare azioni virtuose che preferiamo ammirare anziché compiere, parliamo di una “ bella azione”.
Se riflettiamo sull'atteggiamento di distacco che ci permette di definire come bello un bene che non suscita il nostro desiderio, comprendiamo che noi parliamo di Bellezza quando godiamo qualcosa per quello che è, indipendentemente dal fatto che lo possediamo. Persino una torta di nozze ben confezionata, se la ammiriamo nella vetrina di un pasticcere, ci appare bella, anche se per ragioni di salute o inappetenza non la desideriamo come bene da conquistare. È bello qualcosa che, se fosse nostro, ne saremmo felici, ma che rimane tale anche se appartiene a qualcun altro. Naturalmente non si considera l'atteggiamento di chi, di fronte ad una cosa bella come il quadro di un gran pittore, desidera possederlo per l'orgoglio di esserne il possessore, per poterlo contemplare ogni giorno, o perché ha un grande valore economico. Queste forme di passione, gelosia, voglia di possesso, invidia o avidità, non hanno nulla a che fare col sentimento del Bello.
L'assetato che, trovata una fonte, si precipita a bere, non ne contempla la Bellezza. Potrà farlo dopo, una volta che il suo desiderio si è assopito. Per questo il senso della Bellezza è diverso dal desiderio. Si possono giudicare degli esseri umani come bellissimi, anche se non si desiderano sessualmente, o se si sa che non potranno mai essere nostri. Se invece si desidera un essere umano (che oltretutto potrebbe essere anche brutto) e non si può avere con esso i rapporti sperati, si soffre.
…. Se certe teorie estetiche moderne hanno riconosciuto solo la Bellezza dell'arte, sottovalutando la Bellezza della natura, in altri periodi storici è accaduto l'inverso: la Bellezza era una qualità che potevano avere le cose della natura (come una bella luce di luna, un bel frutto, un bel colore), mentre l'arte aveva soltanto il compito di fare bene le cose che faceva, in modo che servissero allo scopo a cui erano destinate - a tal punto che si considerava arte sia quella del pittore e dello scultore sia quella del costruttore di barche, del falegname o del barbiere. Soltanto molto tardi, per distinguere pittura, scultura e architettura da quello che oggi chiameremmo artigianato, si è elaborata la nozione di Belle Arti.
La Bellezza dei filosofi Il tema della Bellezza viene elaborato ulteriormente da Socrate e Platone. Il primo, secondo la testimonianza dei Memorabilia di Senofonte (sulla cui veridicità nutriamo oggi qualche dubbio, stante la faziosità dell'autore), sembra aver voluto legittimare sul piano concettuale la prassi artistica, distinguendo almeno tre diverse categorie estetiche: la Bellezza ideale, che rappresenta la natura attraverso un montaggio delle parti; la Bellezza spirituale, che esprime l'anima attraverso lo sguardo (come accade nelle sculture di Prassitele, sulle quali lo scultore dipingeva gli occhi per renderli più veritieri), la Bellezza utile, o funzionale.
Più complessa è la posizione di Platone, da cui nasceranno le due concezioni più importanti della Bellezza che sono state elaborate nel corso dei secoli: la Bellezza come armonia e proporzione delle parti (derivata da Pitagora), e la Bellezza come splendore, esposta nel Fedro, che influenzerà il pensiero neoplatonico. Per Platone la Bellezza ha un'esistenza autonoma, distinta dal supporto fisico che accidentalmente la esprime; essa non è dunque vincolata a questo o quell'oggetto sensibile, ma risplende ovunque.
La Bellezza non corrisponde a ciò che si vede (celebre era infatti la bruttezza esteriore di Socrate, che però risplendeva di Bellezza interiore). Poiché il corpo è per Platone una caverna buia che imprigiona l'anima, la visione sensibile deve essere superata dalla visione intellettuale, che richiede l'apprendimento dell'arte dialettica, ossia della filosofia.
Non a tutti dunque è dato di cogliere la vera Bellezza. In compenso, l'arte propriamente detta è una falsa copia dell'autentica Bellezza e come tale è diseducativa per i giovani: meglio dunque bandirla dalle scuole, e sostituirla con la Bellezza delle forme geometriche.
Il numero e la musica Secondo il senso comune giudichiamo bella una cosa ben proporzionata. È pertanto spiegabile perché sin dall'antichità si fosse identificata la Bellezza con la proporzione - anche se occorre ricordare che nella definizione comune della Bellezza, nel mondo greco e latino, si univa sempre alla proporzione anche la piacevolezza del colore (e della luce). Quando nella Grecia antica i filosofi detti pre-socratici – come Talete, Anassimandro e Anassimene, fra il VII e il VI secolo a.C. – iniziano a discutere quale sia il principio di tutte le cose (e indicano l'origine della realtà nell'acqua, nell'infinito originario, nell'aria) essi mirano a dare una definizione del mondo come un tutto ordinato e governato da una sola legge. Questo significa anche pensare al mondo come a una forma, e i greci avvertono nettamente l'identità tra Forma e Bellezza. Tuttavia chi affermerà queste cose in modo esplicito, iniziando a stringere in un solo nodo cosmologia, matematica, scienza naturale ed estetica, sarà Pitagora con la sua scuola, sin dal VI secolo avanti Cristo.
Pitagora (che probabilmente nel corso dei suoi viaggi era venuto in contatto con le riflessioni matematiche degli egizi) è il primo a sostenere che il principio di tutte le cose è il numero. I pitagorici avvertono una sorta di sacro terrore di fronte all'infinito e a ciò che non può essere ricondotto a un limite, e perciò cercano nel numero la regola capace di limitare la realtà, di darle ordine e comprensibilità. Con Pitagora nasce una visione estetico-matematica dell'universo: tutte le cose esistono perché sono ordinate e sono ordinate perché in esse si realizzano leggi matematiche, che sono insieme condizione di esistenza e di Bellezza.
I pitagorici sono i primi a studiare i rapporti matematici che regolano i suoni musicali, le proporzioni su cui si basano gli intervalli, il rapporto tra la lunghezza di una corda e l'altezza di un suono. L'idea dell'armonia musicale si associa strettamente a ogni regola per la produzione del Bello. Questa idea attraversa tutta l'antichità e si trasmette al Medio Evo attraverso l'opera di Boezio tra IV e V secolo dopo Cristo. Boezio ricorda che un giorno Pitagora osservò come i martelli di un fabbro, picchiando sull'incudine, producessero suoni diversi, e si era reso conto che i rapporti tra i suoni della gamma così ottenuta sono proporzionali al peso dei martelli. Non solo, Boezio ricorda come i pitagorici sapessero che i diversi modi musicali influiscono diversamente sulla psicologia degli individui, e parlavano di ritmi duri e ritmi temperati, ritmi adatti a educare gagliardamente i fanciulli e ritmi molli e lascivi. Pitagora aveva reso più calmo e padrone di sé un adolescente ubriaco facendogli ascoltare una melodia di modo ipofrigio in ritmo spondaico (poiché il modo frigio lo stava sovreccitando). I pitagorici, pacificando nel sonno le cure quotidiane, si facevano addormentare da determinate cantilene; svegliatisi si liberavano dal torpore del sonno con altre modulazioni.
Il cosmo e la natura Per la tradizione pitagorica (e il concetto sarà ritrasmesso al Medio Evo da Boezio), l'anima e il corpo dell'uomo sono soggetti alle stesse leggi che regolano i fenomeni musicali, e queste stesse proporzioni si ritrovano nell' armonia del cosmo così che micro e macrocosmo (il mondo in cui viviamo e l'intero universo) appaiono legati da un'unica regola matematica ed estetica insieme. Questa regola si manifesta nella musica mondana: si tratta della gamma musicale prodotta dai pianeti di cui parla Pitagora i quali, ruotando intorno alla terra immobile, generano ciascuno un suono tanto più acuto quanto più lontano il pianeta è dalla terra e quanto più rapido, quindi, il suo movimento. Dall'insieme proviene una musica dolcissima che noi non intendiamo per inadeguatezza dei nostri sensi.
Il Medio Evo svilupperà un'infinità di variazioni su questo tema della Bellezza musicale del mondo. Nel IX secolo, Scoto Eriugena ci parlerà della Bellezza del Creato costituita dal consonare dei simili e dei dissimili a modo di armonia le cui voci, ascoltate isolatamente, non dicono nulla, ma fuse in un unico concento rendono una naturale dolcezza. Onorio di Autun (secolo XII) nel Liber duodecim quaestionum dedicherà un capitolo a spiegare come il cosmo sia disposto in modo simile a una cetra in cui i diversi generi di corde suonano armoniosamente.
Nel XII secolo gli autori della scuola di Chartres (Guglielmo di Conches, Thierry di Chartres, Bernardo Silvestre, Alano di Lilla) riprendono le idee del Timeo di Platone, unitamente all'idea agostiniana (di origine biblica) per cui Dio ha disposto ogni cosa secondo ordine e misura. Il cosmo, per la scuola di Chartres è una sorta di unione continua fatta di consenso reciproco tra le cose, sorretta da un principio divino che è anima, provvidenza, fato. Opera di Dio sarà appunto il kósmos, l'ordine del tutto, che si contrappone al caos primigenio. Mediatrice di quest'opera sarà la Natura, una forza insita nelle cose, che da cose simili produce cose simili, come dice Guglielmo di Conches nel Dragmaticon. E l'ornamento del mondo, e cioè la sua Bellezza, è l'opera di compimento che la Natura, attraverso un complesso organico di cause, ha attuato nel mondo una volta creato.
La Bellezza comincia ad apparire nel mondo quando la materia creata si differenzia per peso e per numero, si circoscrive nei suoi contorni, prende figura e colore; ovvero, la Bellezza si fonda sulla forma che le cose assumono nel processo creativo. Gli autori della scuola di Chartres non ci parlano di un ordine matematicamente immobile, ma di un processo organico di cui possiamo sempre reinterpretare la crescita risalendo all'Autore. La Natura, non il numero, regge questo mondo.
Anche le cose brutte si compongono nell'armonia del mondo per via di proporzione e contrasto. La Bellezza (e questa sarà ormai persuasione comune a tutta la filosofia medievale) nasce anche da questi contrasti, e anche i mostri hanno una ragione e una dignità nel concento del creato, anche il male nell'ordine diviene bello e buono perché da esso nasce il bene, e accanto a esso il bene meglio rifulge
Da “Storia della Bellezza” di Umberto Eco (I - INTRODUZIONE)
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