di Sri Aurobindo
39. "Questa è la conoscenza trasmessa dal Sànkhya . Ascolta adesso quella che t'impartisce lo Yoga; se ti lascerai penetrare profondamente da questa sapienza, o figlio di Pritha, potrai sfuggire ai vincoli dell'agire .
"Ti ho esposto l'equilibrio che apporta l'intelligenza liberatrice, secondo il Sànkhya," dice ad Arjuna il divino Maestro. "Ti proporrò adesso un altro equilibrio, quello secondo lo Yoga. Tu indietreggi davanti alle conseguenze dei tuoi atti, tu desideri altri risultati e abbandoni il vero cammino perché non te li può dare; ma questa maniera di concepire le opere e i loro frutti - desiderio dei frutti come movente dell'azione e azione come mezzo per soddisfare il desiderio - è il servaggio dell'ignorante che non conosce ciò che sono le opere, la loro vera origine e la loro vera utilità. Il mio yoga ti libererà dall'asservimento alle tue opere."
40. "In questo sentiero nessuno sforzo è perduto, nessun ostacolo può prevalere; anche un minimo di questo dharma libera da una grande paura.
Arjuna è in preda al terrore che assale l'uomo: paura del peccato, paura della sofferenza, in questo mondo e nell'altro, paura di un mondo di cui ignora la vera natura, paura di un Dio che non conosce e le cui intenzioni cosmiche gli sono velate.
41. "L'intelligenza risoluta si dimostra unificata e stabile, o Gioia dei Kuru ; instabile ed estremamente divisa è invece l'intelligenza dell'irresoluto.
La volontà intelligente unificata è stabilita con fermezza nell'anima illuminata e concentrata nella conoscenza interiore di sé. L'intelligenza è invece dispersa quando si occupa di numerose e svariate cose, trascurando la sola necessaria. Sottoposta all'agitazione continua del pensiero discorsivo, si disperde nella vita e nell'azione esteriori alla ricerca dei frutti.
42-43. "Coloro che non posseggono un chiaro discernimento si compiacciono dei precetti vedici intesi alla lettera e proclamano, con fiorito parlare, che la stretta osservanza [delle Scritture] è sufficiente, o Figlio di Pritha. Anime di desiderio e ricercatori di paradisi, parlano del concetto della rinascita come del frutto delle azioni compiute sulla terra e prescrivono molti riti speciali per ottenere godimento e poteri.
Nei primi sei canti, la Gita fissa le basi della sua sintesi dell'azione e della conoscenza, la sua sintesi del Sànkhya, dello Yoga e del Vedanta. Osserva dapprima che il termine karma, l'azione, le opere, viene interpretato dagli antichi vedantini, da coloro che si attaccano all'interpretazione letterale dei Veda, secondo una loro particolare accezione; la parola Veda significa per loro i sacrifici e le cerimonie vediche, compiute secondo riti precisi e complicati. Questi sacrifici, dice la Gita, sono offerte di desiderio fatte nella speranza di una ricompensa, sulla terra o in cielo, in questa vita o in un'altra - godimenti o poteri, gioie più grandi, immortalità e suprema salvazione. La Gita non rifiuta, come il Buddismo per esempio, l'idea del sacrificio, ma essa preferisce elevarlo e renderlo più ampio. Essa non nega l'efficacia del sacrificio vedico, la riconosce, ammette anche che, grazie a questo sacrificio, si possano ottenere godimenti su questa terra e un paradiso nell'al di là. "Io stesso," dice più avanti il divino Maestro (IX, 23), "sono colui che accetta il sacrificio e a cui tutti i sacrifici vengono offerti, sono Io colui che concede i frutti, rivestendo la forma degli dèi, poiché questo cammino hanno scelto gli uomini per avvicinarMi. Ma non è il vero cammino, e il godimento del paradiso non è né la liberazione né il compimento che l'uomo deve cercare”. Sono gl'ignoranti che adorano gli dèi, senza sapere chi adorano sotto queste forme divine. Malgrado la loro ignoranza, essi adorano l'Unico, il Signore, il solo Deva, ed è Lui che accetta le offerte. Al Signore dev'essere offerto il sacrificio - il vero sacrificio di tutte le energie e di tutte le attività della vita - con devozione, senza desiderio, per il solo amore del Signore e per il bene dei popoli. Attraverso l'intrico dei suoi riti, il vedavada maschera questa verità, rendendo l'uomo schiavo dell'azione dei tre guna: ed è per questo che si deve condannarlo severamente e respingerlo con forza. L'idea centrale non dev'essere però distrutta; una volta trasfigurata ed elevata, essa diviene parte importantissima della vera esperienza spirituale e del metodo di liberazione.
44. "Coloro che si lasciano così fuorviare, attaccati al godimento e al potere, per quanto perspicace possa essere la loro intelligenza , non possono fissarsi nella contemplazione perfetta .
L'unione con il Sé esige la concentrazione perfetta del pensiero e della volontà; il pensiero che vaga ad ogni istante non può pervenire a così elevata altezza.
45. "I Veda si occupano del giuoco dei tre guna; ma tu, o Arjuna, liberati dalle tre qualità, portati oltre gli opposti, e per sempre stabilito nel vero essere, senza curarti di acquistare e conservare, prendi possesso del vero Sé.
46. "Per il bramino ' che possiede la conoscenza, i Veda sono tanto inutili quanto può esserlo un pozzo in un luogo inondato dalle acque.
I Veda e le Upanishad non sono necessari all'uomo che ha ottenuto la conoscenza attraverso l'esperienza spirituale diretta. Possono persino essere per lui un ostacolo, perché la lettura della Scrittura Sacra - certamente a motivo del conflitto fra i testi e le loro molteplici interpretazioni - turba e devia l'intendimento, che può solo trovar la certezza e la concentrazione nella luce interiore .
47. "Tu hai diritto all'azione, ma in nessun caso ai suoi frutti, non devi compiere l'opera per i frutti che essa ti procura, ma nemmeno devi attaccarti alla non-azione.
Dice in sostanza il Maestro: "Ti ho assegnato l'intero dominio dell'azione umana per compiere il progresso dell'uomo, dalla Natura inferiore fino alla Natura superiore, dal non-divino apparente fino al divino cosciente. Colui che conosce Dio deve muoversi in questo campo di attività umane." Ma "i frutti delle azioni non devono essere il tuo movente!" Ciò che all'uomo viene ingiunto non è l'opera compiuta sotto la spinta del desiderio, come per coloro che seguono alla lettera i Veda, e nemmeno il diritto di soddisfare attraverso un'attività costante una mente agitata e piena di energia, come rivendica l'uomo pratico e dinamico.
48. "Saldamente stabilito nello yoga , o Conquistatore di tesori, compi la tua azione libero dall'attaccamento, imperturbabile nella sconfitta e nel successo. Yoga significa equanimità.
Quali possono essere le conquiste e i possessi dell'anima libera? Possedendo il Sé, essa possiede tutto. Tuttavia l'uomo liberato non si astiene dall'azione. In questo risiede la forza e l'originalità della Gita che, dopo aver affermato per l'anima liberata il valore di questa condizione statica, di questa superiorità sulla Natura, del vuoto da cui è costituita di solito l'azione della Natura, può ancora rivendicare per quest'anima la continuazione dell'agire, ed anche imporla, evitando in tal modo il gran difetto delle filosofie puramente quietistiche e ascetiche, errore da cui oggi tentano di sottrarsi.
A causa della sua intelligenza deviata, l'uomo prova speranza e timore, collera, afflizione e gioie effimere; potrebbe altrimenti compiere le sue opere in perfetta serenità e libertà. È per questo che ad Arjuna viene imposto in primo luogo lo yoga dell'intelligenza, il buddhi yoga.
49. "L'azione è di gran lunga inferiore allo yoga dell' intelligenza; rifugiati nell'intelligenza, o Conquistatore di tesori; pietà destano coloro che compiono le opere con mira ai loro frutti.
Agire con giusta intelligenza e, di conseguenza, con giusta volontà, saldamente stabilito nell'Uno, cosciente del Sé unico in tutti, incominciando con serena equanimità, senza agitarsi in tutti i sensi unto dai mille impulsi del sé mentale di superficie, significa agire secondo lo yoga della volontà intelligente.
50. "Colui che mediante l'intelligenza ha raggiunto l'unione [con il Sé] , si eleva sopra il bene e il male. Lotta dunque per realizzare lo yoga; lo yoga è l'abilità nelle opere.
Anche in questo mondo di opposti (II, 45), colui che ha raggiunto la divina unione, si eleva - oltre il bene e il male - a una legge superiore fondata sulla libertà venuta dalla conoscenza di sé. Si potrebbe Pensare che le azioni effettuate senza il desiderio dei frutti siano senza effetto, senza efficacia, senza una spinta sufficiente, senza una forza animatrice ampia e vigorosa. No, l'azione fatta nello yoga non solamente è la più alta, ma la più saggia, la più potente e la più efficace, anche per le cose dì questo mondo. Essa è ispirata dalla conoscenza e dalla volontà dal Maestro delle opere: "Lo yoga è la vera abilità nelle opere."
51. "I saggi che rinunciano al frutto delle loro azioni e che, mediante l'intelligenza, hanno raggiunto l'unione [con il sé], vengono liberati dal legame delle nascite e raggiungono una condizione stabile di là da ogni male.
Ma le azioni dirette verso la vita non allontanano forse dai fini universali degli yogi che, secondo l'unanime opinione, consistono nello fuggire alla schiavitù di questa miserabile e dolorosa nascita umana? No, i saggi che agiscono senza desiderio per i frutti delle loro azioni e in perfetta unione con il Divino vengono liberati dalla schiavitù delle nascite e raggiungono il perfetto stato (vedi più avanti, II, 68-72), dove non esistono i mali che affliggono il pensiero e la vita dell'umanità sofferente.
52. "Quando la tua intelligenza avrà superato il turbine dell'illusione , allora perverrai all'indifferenza per ciò che hai udito e per ciò che devi ancora udire .
53. "Quando la tua intelligenza, [in questo momento] sviata dalle Scritture rivelate, rimarrà salda e immota in samadhi , allora raggiungerai lo yoga."
Questa critica alle Scritture rivelate, shruti, offende talmente il sentimento religioso convenzionale che la comoda e utile inclinazione umana di voler torturare i testi ha tentato naturalmente di dare a questi versetti un senso differente. Ma il loro significato è chiaro e coerente da un capo all'altro, e viene confermato da un passaggio ulteriore dove è detto che la conoscenza di colui che conosce supera la portata dei Veda e delle Upanishad (VI, 44). Tuttavia la Gita non tratta con spirito di semplice negazione o non ripudia parti così importanti della cultura ariana. La sua critica tende ad eliminare l'interpretazione egoistica, limitata e chiusa di loro che vogliono interpretare alla lettera le Sacre Scritture.
Arjuna disse: 54. "Qual è, o Keshava, il segno dell'uomo saldamente stabilito nella saggezza e immerso in samadhi? II saggio dall'intelligenza stabile, come parla, come si siede, come cammina?"
Arjuna, esprimendo il sentimento dell'uomo medio, chiede, del samadhi, un segno facile da distinguersi, materiale. Tali indicazioni non possono essere fornite, e il Maestro non tenta di farlo; poiché il solo criterio possibile dell'entrata in samadhi è interiore. L'equanimità è il segno principale dell'anima liberata e i segni più evidenti dell'equanimità sono anch'essi soggettivi.
Per samadhi, s'intende generalmente l'estasi, la trance yoghica. Ma la perdita di coscienza del mondo esteriore non accompagna necessariamente l'unione completa; l'estasi è un'intensità particolare del samadhi, non ne è il segno essenziale (vedi il commento al versetto seguente).
Il Beato Signore disse:
55. "Quando un uomo allontana dalla sua mente tutti i desideri, o figlio di Pritha, e trova solo soddisfazione nel Sé e dal Sé, si può dire che egli è saldo nella saggezza.
Il segno del samadhi è rappresentato dall'espulsione di tutti i desideri, dalla loro incapacità di raggiungere la mente, ed è lo stato interiore da cui nasce la libertà, la felicità dell'anima raccolta in sé stessa, con una mente calma, uguale, equilibrata, sopra le attrazioni e le ripulsioni, sopra le alternative di sole e di tempesta, esente dalle tensioni della vita esteriore. In questa condizione l'uomo vive ritirato interiormente anche quando agisce esteriormente; concentrato in sé anche quando lo sguardo si posa sugli oggetti; unicamente occupato nel Divino, anche quando agli occhi altrui sembra preoccuparsi degli affari del mondo.
56. "Colui che non si turba mentalmente in mezzo ai dolori e che va esente dal desiderio in mezzo ai piaceri colui che ha abbandonato la passione, la paura e la collera, è ritenuto un saggio dall'intelligenza stabile.
La Gita impone di affrontare il desiderio e di sopprimerlo. La sua prima descrizione dell'equanimità è quella dello stoico, ma se accetta questa filosofia eroica, vi aggiunge anche la visione sattvica della conoscenza, con alla base l'aspirazione a realizzare il Sé libero e, ad ogni passo, l'ascesa verso la Natura divina.
57. "Colui che non prova attaccamento per cosa alcuna e, allorquando sopravvengano il male e il bene, non si affligge o si rallegra, in lui la saggezza è saldamente stabilita.
58. "Allorché ritrae i sensi dagli oggetti sensibili, come la tartaruga le membra, in lui la saggezza è saldamente stabilita.
Il primo moto dev'essere quello di sbarazzarsi dal desiderio, sola radice del male e della sofferenza; e per sbarazzarsi dal desiderio bisogna metter fine alla causa del desiderio stesso, all'impazienza dei sensi di voler afferrare gli oggetti e gioirne. Bisogna frenare i sensi quando stanno per precipitarsi di fuori, bisogna richiamarli e riportarli alla sorgente, dove devono mantenersi tranquilli nella mente, la mente tranquilla nell'intelligenza e l'intelligenza tranquilla nell'anima e nella conoscenza di sé, che osserva l'azione della Natura ma senza esserle sottomessa e nulla desiderare della vita materiale.
"Ma," aggiunge Krishna (nel versetto seguente), "per evitare il malinteso che certamente ne deriverebbe, quello che t'insegno non è un ascetismo esteriore, una rinuncia fisica agli oggetti dei sensi, ma un ritiro interiore, una rinuncia al desiderio."
59. "Quando dall'anima di colui che si astiene dall'usufruirne si ritraggono i sensi, ma l'inclinazione per essi permane, con la visione del Supremo anche questa svanisce.
A partire dal momento in cui l'anima si incarna in un corpo, deve normalmente occuparsene nutrendolo, affinché possa esercitare la sua normale azione fisica. Astenendosi dal nutrire il corpo, l'anima sopprime solamente il contatto materiale con l'oggetto dei sensi, non sopprime il rapporto interiore che è quello che rende pernicioso il contatto. Essa lascia intatto il piacere che i sensi hanno per l'oggetto - rasa -, l'attrazione e la ripulsione, i due aspetti di rasa. L'anima deve invece poter sopportare il contatto fisico senza risentire interiormente la reazione dei sensi. L'equanimità stoica si giustifica, nella disciplina della Gita, come elemento che può associarsi, aiutandola, alla visione del Supremo - param drishtvà - ossia alla realizzazione di un nuovo stato di coscienza che la Gita ci descrive nei versetti seguenti - lo stato brahmico (II, 68-72).
60. "O figlio di Kunti, l'impeto dei sensi trascina con violenza anche la mente del saggio che lotta [per la perfezione].
61. "Ritornato padrone dei sensi, si mantenga saldo nello stato di unione con Me, prendendoMi come [scopo] supremo . In colui che domina i sensi, la saggezza è saldamente stabilita.
Nessun consiglio è più corrente di quello di dominare i sensi, ma questa padronanza non può essere compiuta alla perfezione mediante un atto della sola intelligenza, o una disciplina solamente mentale. Non può essere ottenuta che mediante lo yoga - l'unione - con qualcosa di più elevato dell'intelligenza e a cui siano inerenti la calma e il dominio di sé stessi. Questo yoga potrà avere successo solamente con la consacrazione, l'abbandono, votandosi interamente al Divino, a Me, dice Krishna. Il liberatore è in noi, ma questo liberatore non è la nostra mente, la nostra intelligenza, la nostra volontà personale, anche se ne sono gli strumenti: è il Signore, in cui - la Gita ce lo dirà alla fine - dobbiamo prendere integralmente rifugio. Per questo motivo il nostro essere deve esserGli totalmente consacrato e mantenere con Lui il contano dell'anima.
62-63. "Nell'uomo che indugia assorto negli oggetti dei sensi, nasce l'attaccamento per essi; dall'attaccamento nasce il desiderio, dal desiderio la collera; la collera conduce allo smarrimento, lo smarrimento alla perdita della memoria e la perdita della memoria produce la distruzione dell'intelligenza; e in seguito a questa distruzione l'uomo giunge a rovina.
La passione oscura l'anima, la volontà e l'intelligenza dimenticano di vedere e di tenersi fermamente stabilite nell'anima che osserva con calma; la memoria del vero Sé è perduta, e con questa perdita, la volontà intelligente si oscura e può essere anche distrutta; poiché da quel momento essa non esiste più nella nostra memoria ma si dilegua in una nube di passione; diveniamo passione, collera o dolore, cessiamo d'essere il Sé, l'intelligenza e la volontà.
64-65. "Ma colui che si muove fra gli oggetti sensibili con i sensi sottomessi al Sé, esente dall'attaccamento e dall'avversione, questi, padrone di sé stesso, perviene alla serenità. La serenità genera in lui la sparizione del dolore; e quando l'anima è serena, l'intelligenza è presto stabilita.
Ma come è possibile stabilire questo contatto con gli oggetti dei sensi, quest'impiego che non dipende da essi? È possibile quando l'intero essere soggettivo, mediante lo Yoga dell' intelligenza, vive in unione o in unità col Supremo. Allora, liberati da tutte le reazioni, i sensi non reagiranno più davanti all'attrazione ed alla ripulsione; sfuggiranno al dualismo dei desideri, positivi e negativi, e così, la calma, la pace, la chiarezza, la felice tranquillità si diffonderanno nell'uomo. Questa chiara tranquillità è la sorgente della felicità dell'anima; l'afflizione perde il suo potere; l'intelligenza si stabilisce rapidamente nella pace del Sé; la sofferenza viene distrutta. A questa immutabilità della buddhi nell'equilibrio e nella conoscenza di Sé - immutabilità calma, senza desideri, senza dolore - la Gita dà il nome di samadhi.
66. "L'uomo non unito [al Sé] non possiede né intelligenza né concentrazione; colui che manca di concentrazione è privo di pace; e senza la pace come potrebbe esser felice?
67. "Colui, la cui mente si lascia sviare dai sensi vagabondi, vede ben presto la saggezza allontanarsi come una nave trasportata dal vento sulle acque.
68. "Di conseguenza, o Guerriero dal braccio possente, colui i cui sensi si sono distolti per ogni verso dagli oggetti sensibili, è fermamente stabilito nella saggezza.
È il rinnovarsi dall'esortazione fatta prima (Il, 58-59) e, come in quel caso, si deve comprendere che l'eccitazione - attrazione o ripulsione - causata dagli oggetti sensibili, deve essere frenata, superata e conquistata. La Gita incomincia da qui la descrizione dello stato brahmico, coronamento dello yoga della volontà intelligente.
69. "Ciò che è notte per tutti gli esseri, è stato di veglia per colui che ha la padronanza di sé, e il loro stato di veglia è notte per il saggio veggente.
Il saggio che compie le opere senza il desiderio dei frutti e in unione costante col Supremo, raggiunge lo stato di perfezione dove non esiste alcuno dei mali che affliggono l'umanità (II, 51). È il rovesciamento di tutte le concezioni, di tutte le esperienze, della conoscenza, dei valori e delle percezioni, prerogativa delle creature legate alla terra. La vita sottomessa agli opposti, che per queste creature è il giorno, lo stato di veglia, la coscienza, la brillante condizione d'attività e di conoscenza, è per il saggio veggente un sonno turbato, un'oscurità d'anima, la notte; e la coscienza superiore che per loro e notte oscura, il sonno in cui cessano conoscenza e volontà, è lo stato di veglia per il saggio che ha conquistato la padronanza di sé stesso, il giorno luminoso di esistenza vera, di conoscenza e di potere.
70. "Colui in cui tutti i desideri entrano come entrano le acque nell'oceano, che senza tregua si riempie, ma che tuttavia non aumenta mai di livello, raggiunge la pace - non colui che è preda del desiderio .
71. "L'uomo che abbandona tutti i desideri, che vive e agisce senza brama, che non possiede più né ‘me’ né ‘mio’, costui raggiunge la [grande] pace.
72. "Tale è lo stato brahmico , o figlio di Pritha. Colui che lo ha raggiunto non può più smarrirsi; e se vi si attiene fortemente, anche al momento della morte, raggiunge il nirvana in Brahman."
Egli continua ad agire, ma ha abbandonato tutti i desideri e tutte le passioni. È entrato nella grande pace e non è più sviato dall'apparenza delle cose. Ha spento nell'Unico il suo ego individuale, vive in questa unità e, saldamente stabilito in essa al momento della sua fine, può raggiungere il Nirvana, l'estinzione nel Brahman - non l'annichilamento dei Buddisti, ma la grande immersione del sé personale separato nella vasta realtà dell'Esistenza una, infinita e impersonale.
Tale è la prima base dell'insegnamento della Gita. È lungi dall'essere l'insegnamento completo, ma è la prima fusione pratica indispensabile della conoscenza e dell'azione, che contiene già l'indicazione del terzo elemento, il più intenso, quello che perfeziona la pienezza dell'anima: la devozione e l'amore divino.
da
Commento alla Bhagavad Gita