I pesci vivono in banchi, le api volano in sciami, ma alcuni animali - i gatti domestici, ad esempio - sono dei solitari. Gli esseri umani mostrano entrambe le tendenze: noi siamo amanti della compagnia ma apprezziamo anche la solitudine. Viviamo in famiglie, in tribù e in città, eppure allo stesso tempo godiamo del piacere di essere soli. Lavoriamo in giardino, leggiamo e preghiamo per conto nostro. Anche se passiamo la maggior parte del tempo con altre persone ci sono dei periodi in cui preferiamo stare in compagnia semplicemente di noi stessi e ritirarci dal trambusto del mondo per trovare il nostro 'spazio' privato. Qui il silenzio ha un effetto curativo. Qui la solitudine mi aiuta a mettere a fuoco il senso fondamentale del mio essere. Nel silenzio e nella solitudine troviamo spazio e tempo di godere in tranquillità la meraviglia senza tempo della coscienza: il miracolo di un argine ricoperto di aglio selvatico, ad esempio, o del volo di un picchio. Come nota Ronald Blythe, il rumore fa sì che udiamo ben poco; il silenzio ci fa captare suoni meravigliosi.
Un tempo il silenzio era tenuto in grande considerazione. La ricerca della solitudine risale a tempi antichi ed ha le sue radici nelle filosofie cinesi, indiane ed europee. A partire da Lao-Tse, Buddha, i Padri del Deserto e i primi eremiti Celti, passando per Rousseau, Henry David Thoreau e Thomas Merton fino al tempo presente, certi individui hanno rifiutato il materialismo delle società in cui vivevano preferendo la semplicità e la ricerca della saggezza spirituale. Viaggiavano per trovare la solitudine. Ascoltavano il silenzio e in esso udivano le pulsazioni creative del loro cuore. Visitati dal silenzio imparavano che cosa giace nella profondità del proprio essere. In verità, chi ha il coraggio di stare da solo arriva a sperimentare tutto ciò che normalmente è ostacolato dall'esperienza, dalla brama o dal pregiudizio. La verità di ciò può soltanto trovarsi nella pratica stessa, e neanche allora può essere espressa a parole.
Il silenzio viene dall'invisibile, dall'al di là, e farne l'esperienza significa venire a contatto con gli inizi delle cose, per rinnovarsi. Come dice
Thomas Merton: "
La persona solitaria, ben lontana da chiudersi in se stessa, diventa una con tutti. Partecipa della solitudine, della povertà, dell'indigenza di ogni essere umano."
In quasi tutto il passato pre-industriale il silenzio si stendeva ovunque.
Richard Rolle di Hampole (c.1300-1349), il padre del misticismo inglese, scrisse lodandone i numerosi pregi: "Grande
piacere ho avuto stando seduto in luoghi selvaggi, così da più dolcemente cantare lontano dal rumore, e con cuore più leggero lodare Iddio, e senza dubbio ho attinto a questo dono per amare con meraviglia ogni cosa."
È anche vero che il silenzio non si trova più così facilmente ovunque. La nostra epoca è ostile al silenzio e così si perde anche il profondo rispetto per la natura. Perfino nella parte dell'Inghilterra dove abito io, riconosciuta come una delle aree meno rumorose della nazione, il fracasso degli stimoli sempre più numerosi ora gravano sull'antico mondo di pace. La campagna del Devon del Nord è raramente silenziosa ormai, e meno buia di un tempo. Il ronzio dei mezzi di trasporto, il rombo degli aerei, il suono di ogni tipo di macchinari generano un sottofondo di brusio costante; ad Exeter, la capitale della contea, questo è addirittura assordante. Dalla maggior parte dei negozi, dai ristoranti, per le strade, perfino negli ambulatori dei veterinari, questa 'musica' amplificata scorre ininterrottamente come da un rubinetto a cui manca la guarnizione. Il silenzio non esiste più.
La gente vuole rumore e luci e la loro assenza mette tutti a disagio. Ma non finisce qui: noi desideriamo ardentemente incessante divertimento e stimolazione. Si distrugge il silenzio e si consuma di tutto: film, notizie, riviste, cibo, bevande, abiti, droghe, anti-depressivi, viaggi, partner sessuali e, naturalmente, denaro. Parafrasando George Orwell: la nostra è una vita irrequieta, priva di cultura, che predilige i cibi precotti, la televisione, i giochi sul computer e il telefono cellulare. È una civiltà in cui i bambini crescono sapendo tutto sulle guerre stellari, ma completamente ignari dell'esistenza della Bibbia. A tale civiltà appartiene quelli che sono maggiormente a proprio agio nel mondo moderno di cui fanno indubbiamente parte: i tecnici e gli specialisti ben pagati, gli esperti di Tecnologia dell'Informazione, i cantanti rock, i giocatori di calcio e i presentatori dei più popolari spettacoli televisivi.
Orwell descriveva una società in cui siamo diventati ingranaggi di una ruota economica incontrollabile, un sistema di valori che non vede la gente in quanto esseri umani ma in quanto consumatori di cose. Tutto lo proclama: gli 'spot' in TV, gli enormi affissi che magnificano i pregi delle automobili, la posta-spazzatura che promuove viaggi all'estero, la pubblicità su Internet: parole, immagini, suoni, comportamento, che raccontano tutti la stessa storia. È abbastanza significativo che il Buddha condannasse proprio le caratteristiche - desiderio sensuale, bramosia, irrequietezza, scontentezza, desiderio di guadagno - che tutta la pubblicità odierna cerca di soddisfare o di decantare. I classici peccati capitali - avarizia, invidia, lussuria, gola, orgoglio e pigrizia - da tempo non vengono più condannati: ad eccezione dell'ira, la pratica di questi "peccati" è ciò che sostiene l'economia di mercato.
I critici del capitalismo si contano a migliaia, ma forse pochi di essi si sono avvicinati alla verità più di quanto non abbia fatto l'eminente psichiatra sociale di origine tedesca,
Erich Fromm (1900-1980).
La persona comune, egli sostiene,
oggigiorno è una straniera nell'universo: al livello più profondo essa sente la sua depressione, la sua noia, il vuoto che pervade la sua anima. Sono questo vuoto e questa disaffezione che chiedono soddisfazione e vogliono essere riempiti dal rumore, dal possesso di cose materiali e dal divertimento. Eppure lo sappiamo tutti che il rumore e il divertimento ci fanno ancora più vuoti e bisognosi. Non ci rendono affatto più felici.
Tutti i nostri divertimenti sono asserviti al fine di rendere più facile all'essere umano fuggire da se stesso e dalla noia che lo minaccia, e a rifugiarsi nelle molte vie di fuga che la nostra cultura gli offre. Tuttavia nascondere un sintomo non libera dalla condizione che lo produce. A parte la paura di ammalarsi o di essere umiliato dalla perdita di posizione sociale e di prestigio, la paura della noia gioca un ruolo massimamente importante fra le paure che minacciano l'uomo moderno. In un mondo di spassi e divertimenti, egli ha paura della noia ed è felice quando un'altra giornata è passata senza inconvenienti, un'altra ora è stata uccisa senza che lui si sia accorto della noia in agguato.
Erich Fromm
Queste parole sono state scritte all'inizio degli anni '60, in un tempo precedente l'avvento del riscaldamento globale del pianeta e dell'attuale vandalismo di cui è vittima il nostro patrimonio terrestre; ciò, dunque, era prima del saccheggio del pianeta di cui ora finalmente cominciao ad essere sempre più consapevoli. Perciò alla disperazione di Fromm per l'uccisione delle ore, noi possiamo aggiungere la nostra disperazione per la strage di tutta la vita sulla Terra. D'altra parte dobbiamo riconoscere che c'è una stretta relazione tra l'estinzione degli anfibi, dei mammiferi, degli uccelli, dei pesci e la nostra richiesta insoddisfatta di saziare l'enorme fame di stimolazione come pure l'entusiasmo per il materialismo: questi fenomeni formano un'unità.
Come ha scritto il filosofo buddista Dr
Daisaku Ikeda:
"
Una mente sterile e distruttiva produce un ambiente sterile e devastato.
La desertificazione del pianeta è creata dalla desertificazione dello spirito umano."
E dunque possiamo dire che il silenzio e la solitudine non sono mai stati così importanti come in quest'epoca. Ci preservano dalla stanchezza estrema, dal fanatismo, dall'irrequietudine - da ogni eccesso; rimangono il terreno fertile della creazione, la sorgente della contemplazione, il luogo dell'attenzione totale e della comunione più intima, come avviene fra due amanti così affiatati da non aver bisogno di riempire lo spazio con parole. È solo nella solitudine e nel silenzio che la nostra vita è realmente presente, che noi rispondiamo veramente al battito del cuore dell'universo e siamo liberi di contemplare il miracolo dell'esistenza. Forse non il mondo della strada ma il mondo del qui e ora. Cominciamo dunque questo nostro viaggio volgendo lo sguardo sulla sorprendente meraviglia della creazione e porgendo l'orecchio alla sottile polifonia dei suoni che ci circondano - la vista delle nuvole al di sopra del tetto, il fruscio delle foglie su un marciapiede, il suono del cucchiaino nella tazza di porcellana, il passo felpato del gatto.
Seguire il sentiero della solitudine e del silenzio può liberarci da una vita fatta di agitazione e condurci verso una consapevolezza serena del momento presente; può toglierci da una vita di comodo consumismo e di conformismo inconsapevole per condurci alle fonti dell'essere: la pura realizzazione e accettazione degli altri e delle cose per ciò che sono. "È nella solitudine," scrive Isabel Colgate, "che il sé incontra se stesso, o, se preferite, il suo Dio, ed è partendo da ciò che può andare ad unirsi alla danza universale. Non c'è terapia di gruppo, studio delle relazioni interpersonali, impegno per il proprio miglioramento, esercizi in palestra che possano lenire la solitudine di chi non riesce a sopportare di essere solo." Ci sorprende forse che il silenzio stia al centro di tutte le grandi religioni e così pure della creazione di così tante opere del pensiero, di preghiere, arte, musica e letteratura?
IL SILENZIO CRISTIANO
Che il linguaggio dell'anima sia così importante nei luoghi del silenzio è il paradosso che troviamo nei monasteri.
Essi sono le dimore dell'anima ed il loro linguaggio più profondo viene dalla profondità del silenzio.
Peter Levi
La Vocazione al Silenzio
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arrendersi, rimettersi, affidare completamente se stessi al silenzio di un grande paesaggio di boschi e colline, oppure di una distesa di mare o di deserto; stare seduti nella quiete di fronte al sole che sorge su quel paesaggio e ne riempie di luce i silenzi. Pregare e lavorare al mattino, affaticarsi e riposare il pomeriggio, e di nuovo meditare in silenzio la sera quando la notte scende su quei luoghi e quando il silenzio si riempie di oscurità e di stelle: questa è una vocazione vera e speciale. Sono pochi coloro disposti ad appartenere totalmente ad un tale silenzio, lasciarlo che impregni le loro ossa, non respirare altro che il silenzio, nutrirsi di esso, e trasformare la sostanza stessa della loro vita in un silenzio vivente e vigilante.
Thomas Merton
L'eremita è una persona che vive in solitudine, che si è allontanato dal trambusto del mondo e della compagnia dei suoi simili per darsi totalmente alla devozione religiosa. La parola eremita deriva dal greco 'deserto'; la parola monaco a sua volta deriva dal greco 'solo': sia l'uno che l'altro aspetto sono noti in forme diverse in ogni civilizzazione. L'induismo, il buddismo e il taoismo hanno i loro peculiari santi, uomini e donne. Molte pitture di paesaggi cinesi mostrano degli eremiti solitari, separati dal mondo dell'umanità.
Anche il cristianesimo ha ispirato molti ad abbandonare il mondo per dedicarsi ad una vita di preghiera e per imporsi delle privazioni. Già dagli inizi della sua storia, alcuni individui cominciarono ad allontanarsi da ciò che essi consideravano come la malvagità ed il lusso del mondo per cercare Dio nella solitudine del deserto. Le fedi giudaica, islamica e cristiana sono fiorite da radici piantate nelle sabbie del deserto.
Esistevano già degli eremiti intorno al 212 d.C. quando Costantino riconobbe la nuova fede cristiana. Il più famoso di tutti fu Sant'Antonio, ritenuto dai più come il padre del monachesimo. Avendo regalato tutti i propri beni ma trovando che la vita difficile di una città offriva ancora troppe distrazioni, nel 285 egli si ritirò nel deserto egiziano. Qui rimase, combattendo i demoni per altri vent'anni, vivendo di pane, sale e acqua, digiunando per tre o quattro giorni di seguito e privandosi del sonno per periodi anche più lunghi. Vite altrettanto austere appaiono caratteristiche di chi era alla ricerca di una santità genuina. Solitudine, povertà, obbedienza, silenzio e preghiera predispongono l'anima per il suo misterioso destino in Dio.
Ma Antonio non era l'unico. Nel 394 un viaggiatore rese noto che vi erano almeno tanti monaci nel deserto di quanti non fossero gli abitanti delle città. Pare che vi fossero 5000 monaci sul Monte Nitria, 10.000 ad Arsinoe, e 7000 fra uomini e donne nella Valle del Nilo. Per quanto esagerate possano essere queste cifre e le narrazioni riguardanti l'ascetismo dei Padri del Deserto, non dovremmo lasciare che questo sminuisse la sincerità della loro ricerca. Il significato dei loro sforzi non si trova nella propensione a privarsi del sonno o alla flagellazione, ma nell'anelito per l'infinito e nel disprezzo per gli scopi mondani con cui è fin troppo facile dissipare la propria vita. Nel quarto secolo il movimento monastico cominciò a diffondersi nell'Europa occidentale. Nel 527 San Benedetto fondò il Monastero di Monte Cassino nell'Italia meridionale ed enunciò la Regola di San Benedetto, rimasta da allora come base della vita monastica occidentale. Nella sua Regola egli mantenne fermo il tipico principio romano di ordine e disciplina e aggiunse alla povertà ed alla castità la regola dell'obbedienza.
La sua regola di vita era ben equilibrata. Preghiera e ringraziamento ne erano le basi: il periodo di preghiera, le ore canoniche occupavano poco più di due ore. Tra quattro e sei ore erano dedicate al lavoro manuale nei campi o in cucina. Tre ore furono fissate come il minimo da dedicare allo studio: "Un chiostro senza libri," egli scrisse "è come una fortezza senza armi." Inoltre, le ore canoniche erano abbellite dai lenti e maestosi canti dei salmi a cui partecipavano tutti i monaci, anche quelli musicalmente poco dotati. In tal modo lavoro e preghiera, musica e studio, comunità e solitudine erano concepiti come un insieme armonioso. L'aspetto comunitario e quello personale erano bene integrati, non troppo né troppo poco dell'uno e dell'altro. La povertà e la carità erano anche importanti: il monaco non possedeva nulla di suo ma riceveva il necessario per vivere. Fabbricati e terreni erano considerati proprietà comune. Tuttavia la povertà non era semplicemente una questione relativa al possesso di beni materiali, ma piuttosto un modo di concepire la vita. Significava abbandonare le preoccupazioni per le cose materiali per essere in grado di concentrarsi sulle cose non di questo mondo.
Ho scelto di soffermarmi sullo schema della vita monastica perché è così potentemente in contrasto con la frenetica irrequietudine dell'era moderna, e al tempo stesso caratteristica del mistero infinito, eterno e trascendente dell'essere che è il terreno su cui poggiano tutte le religioni. Per chi non voglia entrare in un monastero, per chi non desidera nemmeno di far parte della religione cattolica o comunque di qualsiasi altra fede, il silenzio offre un'alternativa: il silenzio puro che sorge dalle profondità dell'essere ci trasporta più vicino non solo a ciò che i cristiani chiamano Dio, ma a ciò che la persona agnostica riconosce come un livello diverso di santità, la santità dell'illuminazione.
La mia esperienza personale di vita monastica è stata inevitabilmente superficiale, ma durante le mie visite un tempo frequenti alle abbazie benedettine di Solesmes in Francia e di Quarr sull'isola di Wright ho sperimentato un certo ché di quel "incanto risanatore e misterioso" di cui Patrick Leigh Fermor ha scritto nel suo libro sulla vita monastica A Time to Keep Silence. L'Abbazia di Quarr non è un luogo di silenzio assoluto come si trova nell'Ordine Trappista, ma ciò nonostante una sorta di sospensione del tempo pervade il suo spirito e le sue mura. Dietro alla calma routine di ogni giorno - pranzo nel refettorio consumato in silenzio; Compieta in chiesa o la lectio divina (lettura sacra) - vi si respira una quiete umana indisturbata e fondamentale, come il basso continuo in una suite di Bach.
Dico 'umana' perché il mondo naturale è di rado completamente silenzioso: il ghiaccio scricchiola, una cascata rumoreggia, gli uccelli cantano e la pioggia scroscia, ma noi esseri umani, se lo scegliamo, possiamo essere tranquilli come un'asse di legno o come un blocco di granito. "Non dobbiamo mai dimenticare che silenzio, solitudine e preghiera sono gli elementi più importanti nella vita monastica," scrive Thomas Merton nel suo libro sull'argomento, The Silent Life. In un monastero questo silenzio, ben lungi dall'essere un vuoto, agisce come un crogiolo per le molteplici attività, miranti a trasformare gli uomini e le donne che hanno scelto di compiere un cammino interiore dentro alle sue mura. Che differenza fra questo e il modo in cui noi conduciamo la nostra vita oggigiorno!
L'ampiezza dello sviluppo del monachesimo cristiano nel Medio Evo europeo resta uno dei miracoli della civilizzazione occidentale: migliaia di persone furono toccate dal suo spirito luminoso e influenzate dalla purezza dei suoi ideali. Nel cuore di molte valli e di molte città dominava un regno di silenzio. E alla fine del XIII secolo, l'Ordine Cistercense, allora al suo culmine, consisteva di 700 abbazie, mentre gli altri importanti Ordini - Benedettini, Certosini e Francescani - erano anche assai diffusi. Nel XIV secolo in Inghilterra vi erano mille case monastiche. Per un certo periodo la vita silenziosa non era affatto rara, anzi, era proprio l'essenza che nutriva la vita di quel tempo. Fu il silenzio del deserto che 'salvò' la civilizzazione occidentale dal tempo di Costantino in avanti. Fu il silenzio del monachesimo a forgiare una cultura che, nel giro di altri mille anni, genererà l'Occidente moderno.
IL SILENZIO INDU'
Trova dentro alla tua anima
l'oggetto eterno della tua ricerca
Yaajur Veda
In contrasto con la natura interiore del monastero cristiano, il tempio indù è un luogo rumoroso: vibra di una vitalità pulsante - colorata, sensuale e sonora. Al suo ingresso nel tempio il devoto fa risuonare le campane per annunciare alla divinità del luogo la sua presenza. Poi, le offerte di cibo, l'incenso, i fiori, le luci, i cori e i canti degli inni, tutto ciò sopraffà e delizia i sensi. Tuttavia, anche in questa fede robusta (non una religione codificata ma la compilazione di centinaia, forse migliaia di minori sistemi di credenze) si riesce a trovare il silenzio e la calma più profonde. L'induismo incoraggia gli individui che vi si sentono portati a vivere come eremiti ed asceti ed a passare le loro vite dedicandosi alla rinuncia ed alla contemplazione. Vengono chiamati sadhu o sannyasi. Si calcola che in India vi siano più di cinque milioni di sadhu o sannyasi, di cui novanta per cento uomini.
Secondo le dottrine indù, la vita ideale consiste di quattro stadi: brahmacarya, il periodo di disciplina e di educazione, seguito da garhasthya, la vita produttiva e procreativa del capo di casa che adempie i suoi doveri sia verso la famiglia sia verso la casta di appartenenza. Nel terzo stadio, vanaprasthya, il 'rinato' si ritira nella giungla per vivere la vita di eremita della foresta, compiendo i riti sacrificali del fuoco e recitando le Scritture. Nello stadio finale, il sadhu rinuncia a tutto e diventa un sannyasa itinerante alla ricerca dell'unione con il Divino, Brahma.
Vi sono molte varietà di sadhu e di sannyasi: quelli che vivono da eremiti nelle montagne, completamente nudi e cosparsi di cenere, e quelli che vivono in relativa comodità all'interno di vasti monasteri. Secondo la tradizione, tutto ciò che possiedono consiste in un pareo di cotone, una ciotola per la questua, un bastone, alcuni 'rosari' di grani per la preghiera ed i simboli delle Divinità di cui sono devoti - un tridente per gli Shaiva (discepoli del Dio Shiva) o una conchiglia per i Vaishnava (discepoli del Dio Vishnu).
Gli asceti provengono da ogni tipo di condizione sociale. Non è inconsueto incontrare persone che, da giovani, erano stati musicisti, professori e perfino uomini d'affari. Nei pressi di Rishikesh ho incontrato un uomo incantevole che aveva vissuto nella cava di Nasist Gurfa fin dal 1934. Mi disse che a quel tempo la cava era circondata da una foresta abitata da animali selvaggi. Mentre se ne stava in meditazione silenziosa i leoni venivano a fargli visita. La pratica della meditazione, della puja e dello yoga, i rituali magico-religiosi e l'adorazione di una divinità tutelare sono le più normali attività, ognuna rivolta alla purificazione del sé. Attraverso la pratica dei severi voti di auto-mortificazione e perfino della tortura corporale, i sadhu e i sannyasi vogliono dimostrare la propria sottomissione al Divino. Tuttavia, quale che sia la loro scelta di un genere particolare di devozione, lo scopo principale di tutti gli asceti indù è di rendere onore a ciò che è sacro. Anche spazzare i pavimenti, cucinare, così come immergersi nelle acque di un fiume sacro, vengono considerate ulteriori prove della loro umiltà e profonda dedizione al Divino.
Ma per l'indù che vive una vita normale, per la casalinga, il contadino, la madre e lo spazzino, l'insegnante e il venditore ambulante, la propria dedizione al Divino può prendere la forma di ciò che viene definito
Darsan che significa 'vedere'. Nella tradizione rituale indù si riferisce specialmente ad una visione religiosa, o percezione visiva del sacro. L'atto centrale della devozione indù, dal punto di vista della persona comune, è trovarsi alla presenza della divinità. Il devoto, sia donna che uomo, entra nel tempio e contempla l'immagine - Shiva o Parvati, Durga o Saraswati - e in quel semplice atto contemplativo dello sguardo sta la venerazione: attraverso gli occhi si ricevono le benedizioni del divino. Circondato dal clamore, dal suono delle campane, dalle offerte votive di lampade ad olio, accanto a chi si nutre di cibi consacrati mentre c'è chi versa acqua e latte, in mezzo all'andirivieni dei fedeli, il nostro devoto se ne sta in un laghetto di silenzio: è solo nella folla, silenzioso in mezzo al rumore. L'incenso, i fiori, le luci, i cori e i canti degli inni e le offerte di cibo sono importanti, ma il nocciolo dell'esperienza religiosa in quei momenti è contenuto nella pace e nelle benedizioni che il devoto sperimenta nel suo intimo.
IL SILENZIO ZEN
Tra le cose più grandi che si possono trovare tra di noi,
il più grande è l'Essere del Nulla.
Leonardo da Vinci
Ogniqualvolta penso all'India mi vengono in mente il rumore, gli odori e i colori, ma quando rivolgo la mia mente al Giappone, penso al silenzio. In tempi andati (cioè prima che giungesse l'influenza della cultura americana), il silenzio faceva parte di ogni fase della vita della sua gente - i loro paesaggi, i templi, i giardini e, nelle aree rurali, le loro abitazioni. Era la spoglia chiarezza dello Zen.
Lo Zen è una religione di tranquillità e di quiete. Perfino le parole possono essere considerate ingannevoli quando se ne afferra soltanto l'aspetto formale invece della nuda realtà dell'esistenza. D.T. Suzuki, nel suo testo classico sull'argomento, dice che "Lo Zen non è assolutamente contrario alle parole, ma è ben consapevole del fatto che possono sempre allontanarsi dalla realtà e diventare dei concetti. Ed è contro questa concettualizzazione che si pone lo Zen …. Nello Zen si insiste nel trattare la cosa nella sua realtà e non come una vuota astrazione. È per questo motivo che lo Zen trascura la lettura e la recitazione dei sutra o le impegnative dissertazioni su argomenti astratti." In tal modo, lo studio, le ipotesi, le analisi e le sintesi vengono ignorate e si favorisce l'incontro faccia a faccia con ciò che si può definire 'realtà'.
In altre parole, lo Zen contrappone l'intuizione all'intelletto, perché l'intuizione è il modo più diretto per toccare l'immediatezza dell'esperienza qui e ora. La verità è che la vita si rivela nel modo più significativo quando non la si tiene stretta né con il sentimento né con l'intelletto inquisitivo. Si rivela nel modo più chiaro quando ci si concentra nella soddisfazione di fare una cosa alla volta. Contrariamente a quanto avviene nella cultura occidentale dove non si lascia che nulla semplicemente sia e significhi ciò che è, dove tutto deve significare qualcos'altro, lo Zen pone l'enfasi su ciò che viene descritto come 'essenza' o 'evidenza' di una teiera, di un ramo di pruno in fiore o di un raggio di sole. Il coraggio di essere proprio qui, ora e non altrove, è precisamente ciò che lo Zen esige: quando mangi, mangia; quando cammini, cammina; quando stai curando il giardino, cura il giardino; quando stai spazzando, spazza.
Forse l'esperienza della cerimonia del tè esprime nel modo più piacevole la serenità dello spirito che è il cuore dell'antica cultura giapponese. Incoraggia ad eliminare il superfluo, fa risaltare i pregi della semplicità e di ciò che è stato chiamato una 'gentilezza dello spirito'. Nel dare importanza ai meriti del silenzio, al tranquillo scambio tra amici e alla contemplazione di alcuni semplici oggetti, la cerimonia del tè si svolge in una struttura rustica senza pretese il cui interno è fatto, dice Nancy Wilson Ross, per essere vissuto come "la dimora del vuoto". Qui, dove il bollitore dell'acqua e il suo vapore sibilante riempie dolcemente il seducente silenzio della stanza, si avverte un senso di sospensione del tempo, di armonia e di tranquillità che facilita l'avvicinarsi allo spirito reverenziale del sacramento Zen. È questa l'atmosfera che pervadeva le culture pacifiche del passato pre-industriale. Ma i silenzi che troviamo nella cerimonia del tè non sono unici nella cultura giapponese: propria la stessa serenità pervadeva un tempo i drammi del teatro Noh, gli antichi templi di legno, la sua calligrafia, il suo tiro all'arco e le sue porcellane. In un modo molto speciale, l'umore riflessivo, contemplativo si insinua ancora nell'asciutto panorama dei giardini dei templi di Kyoto. Costruiti con materiali estremamente austeri - sabbia e sassi ed in un caso muschio - questi giardini, destinati ad essere luoghi di esercizi spirituali, emanano l'essenza più vera dello Zen.o
La semplice spontaneità e la percezione istantanea del haiku - un brevissimo verso di diciassette sillabe che tratta delle più semplici osservazioni quotidiane - abbonda anche di versi a celebrazione della meraviglia della vita quotidiana, un senso magico dell'intersecarsi dell'assenza di tempo e dell'effimero. Il famoso haiku di Basho sulla rana si svolge in un ambiente così tranquillo che il suono del tuffo di una rana ha l'impatto del rimbombo di un tuono:
Un'antica pozza
una rana si tuffa
il suono dell'acqua.
Il rumore tanto caratteristico del vandalismo noncurante della modernità non ha nulla a che fare con l'antica modalità giapponese tanto permeata di vita poetica.
IL SILENZIO DEGLI EREMITI CINESI
L'eremita fugge il mondo degli uomini
ed ama dormire sulle montagne
negli spazi di verdi vigneti
dove cantano limpidi torrenti.
Sprigiona gioia e muovendosi felice in libertà,
le lusinghe del mondo non lo toccano,
puro è il suo cuore come bianco loto.
Han Shan
Gli antichi paesaggi cinesi rivelano, tra montagne torreggianti, cascate e foreste, il fragile contorno di una pagoda, e in qualche caso una figura meditante. Alcuni fissano lo sguardo nello spazio: piccole figure stagliate nell'ampio paesaggio. Nel suo libro Road to Heaven: Encounters with Chinese Hermits, Bill Porter presenta con sensibilità la storia della tradizione degli eremiti e delle sue manifestazioni nella contemporaneità. "Lungo tutta la storia della Cina, si incontrano sempre persone che hanno scelto di passare la vita in mezzo alle montagne, si accontentano di poco, dormono sotto tettoie di paglia, vestono vecchi panni, affrontano le più alte cime, non parlano molto, e ancor meno scrivono - forse alcuni versi, una o due ricette. Se non hanno contatto col tempo, a loro non manca quello con le stagioni, coltivano le radici dello spirito e preferiscono le brume delle montagne alla polvere delle pianure. In apparenza distanti e insignificanti, erano gli uomini e le donne più rispettati nelle più antiche società del mondo ... Fin dalle più remote testimonianze sulla Cina si trovano sempre degli eremiti."
Gli eremiti erano sciamani e indovini, erboristi e medici: erano ricercatori dell'occulto e potevano comunicare con il cielo. I cinesi hanno sempre considerato gli eremiti fra i maggiori benefattori della società. Ma esistono ancora, dopo la devastazione della Rivoluzione Culturale? Bill Porter decise di esplorare questo campo a cominciare dalle Montagne Chungan nei pressi di Sian, per trovare se e quanto la tradizione fosse sopravissuta.
Certo sì, ma a stento. Egli incontra eremiti taoisti, buddisti ed eremiti intellettuali che preferiscono silenzio e isolamento per dedicarsi allo studio o alla scrittura. Ma sono meno numerosi che in passato. Gli storici della Dinastia Han (206 a.C.-221 d.C.) narrano che c'erano milletrecento famosi maestri taoisti durante il regno dell'imperatore Ming, ma oggi ci sono probabilmente meno di centocinquanta fra monache e monaci taoisti in tutta la Cina. Uno di essi spiega: "Il taoismo ci insegna a moderare i desideri e a vivere una vita tranquilla. Ma le persone che siano disposte a ridurre i loro desideri o a coltivare la tranquillità in quest'era moderna sono molto poche. Questa è l'era del desiderio … Ma la cosa importante è imparare ad acquietare la mente. Una volta che si è in grado di farlo, si può vivere ovunque anche in una città rumorosa."
"Una delle montagne dove ci recammo," Porter racconta, "era Monte Tailaoshan proprio sull'estremità nord ovest della provincia di Fukien. Un buddista laico che incontrammo sulla pista che conduceva lassù ci guidò fino ad una caverna dove un vecchio monaco di ottantacinque anni viveva da cinquant'anni. Durante la conversazione, il monaco mi chiese chi fosse questo Presidente Mao che continuavo a nominare. Disse che era andato a vivere nella caverna nel 1939, dopo che in un sogno gli erano apparsi gli spiriti della montagna e gli avevano chiesto di diventare il suo protettore. Da allora non ne era più disceso. Discepoli e abitanti dei villaggi vicini gli portavano le poche cose di cui aveva bisogno. E non aveva bisogno di gran che: farina, olio, sale, e circa ogni cinque anni una coperta nuova o qualche indumento. Il suo mantra era il nome di Budda: 'Amitabha', il Budda dell'Infinito."
In un'altra circostanza, Porter incontra una monaca di ottantotto anni,
Yuan-chao, che per diversi anni aveva insegnato il buddismo a molti studenti. "Estrassi dalla mia borsa un foglio di carta da calligrafia e le chiesi se poteva scrivere per me l'essenza della pratica buddista. Mise il foglio da una parte e io non tornai sull'argomento. Due mesi più tardi - mi trovavo a Taiwan - ricevetti per posta quel foglio con su scritte quattro parole:
benevolenza, compassione, gioia, distacco. La sua calligrafia era chiara come la sua mente."
Un altro monaco al quale era stato chiesto se non si sentiva mai solo rispose: "No, fintanto che ho come compagni il vento e la luna, l'acqua e le montagne." Ed un altro ancora: "Se la gente è quieta, lo può essere ovunque. Se non lo è, non lo sarà neanche qui."
L'ERA DEL FRASTUONO
Il ventesimo secolo è, tra l'altro, l'Era del Frastuono.
Rumore fisico, inquietudine mentale, tumulto dei desideri:
in tutti questi campi noi siamo i detentori del primato storico.
E non fa meraviglia, poiché tutte le risorse della nostra tecnologia quasi miracolosa
sono state investite nell'attuale assalto contro il silenzio.
Aldous Huxley
Fu la rivoluzione industriale del diciannovesimo secolo, col suo indomabile desiderio di velocità, coi suoi ingranaggi, ruote e metalli, a introdurre il fracasso esasperato dei macchinari nelle fabbriche, le stazioni ferroviarie, gli aeroporti, le abitazioni e le strade del mondo moderno. I luoghi rumorosi sono sempre esistiti, ma solitamente nel contesto di un ambiente silenzioso o relativamente tale. Dopo la rivoluzione industriale il rumore ha cominciato ad espandersi come le increspature generate da un sasso lanciato in un laghetto.
In The Adventures of Oliver Twist (Le Avventure di Oliver Twist) (1837-39) Charles Dickens descrive il mercato di Smithfield come un'oasi di fracasso nella relativa quiete delle strade circostanti, con parole di entusiasmo celebrativo:
Contadini, macellai, mercanti di bestiame, venditori ambulanti, ragazzi, ladri, fannulloni e vagabondi della peggior specie, tutti confusi insieme: i richiami dei mercanti di bestiame, l'abbaiare dei cani, i muggiti e l'avanzare dei buoi, il belare delle pecore, i grugniti e i gemiti dei maiali, le grida degli ambulanti, gli insulti, le imprecazioni, e gli alterchi da ogni parte; il suono di campane, il tumulto di voci uscenti da tutte le bettole; l'affollamento, gli spintoni, gli strilli e le grida; il frastuono orrendo e discordante rimbalzante da ogni angolo del mercato … faceva di questo luogo uno scenario assordante e stupefacente, che frastornava i sensi.
Ma se oggigiorno il mercato di Smithfield probabilmente non è più tranquillo di allora - anzi è più rumoroso - adesso la sua cacofonia è parte integrante del continuo fracasso delle strade adiacenti, dove il rumore delle automobili, dei furgoni, insieme a quello degli aerei, della musica proveniente dai negozi, o delle persone che parlano ad alta voce nei loro cellulari è incessante giorno e notte. È sempre più difficile trovare pace e quiete, come pure l'oscurità. Dappertutto un brusio in sottofondo e, la notte, il bagliore della luce elettrica. La vita senza tutto ciò non solo è indesiderabile, ma introvabile. Temo che molte persone al giorno d'oggi proverebbero un disagio esistenziale se si trovassero in un silenzio, una pace, un buio profondi. Allo stesso modo troverebbero la vita insopportabile senza la comodità di roba pronta all'uso.
Eppure per milioni di anni la gente trovava la vita non soltanto tollerabile ma godibile senza tutti i 'gadget' e le comodità della vita moderna. Un caso esemplare, ma non del tutto eccezionale, è il grande pittore del diciassettesimo secolo,
Vermeer di Delft (1632-75). Le sue rare opere, conosciute per la loro celebrazione di scene domestiche fatte di ordine e tranquillità, parlano di quiete, serenità e calma: esse appartengono ad una tradizione che presta attenzione alle cose con una certa tenerezza e leggerezza di mente che evita ciò che è immenso, infinito ed eterno, ma apprezza i tesori preziosi e le ricchezze inesauribili della vita quotidiana. Ma certamente gli interni delle case che lui dipinge non erano forniti di accessori ricercati, né tanto meno di elettricità! E dunque, pur con la presenza di figure umane, i suoi interni erano sempre immersi nella benedizione del silenzio. Solo pace: niente telefoni, niente pubblicità in TV, niente giochi sul computer, niente rumore di traffico nella strada! Solo quiete, proprio come la quiete del suono di un flauto accanto ad un'acqua tranquilla, o il fruscio della pioggia sui vetri della finestra.
Trovarsi di fronte al quadro Il pane e il latte nel Rijksmuseum di Amsterdam, notare come la luce bagna la parete bianca della stanza, ammirare la ragazza, la sua attenzione totalmente rivolta a ciò che sta facendo, contemplare il cesto per il pane in vimini appeso alla parete, è comprendere quanto profondamente il silenzio dominasse la vita del passato. Non meno sereno è il lavoro di altri due pittori olandesi contemporanei di Vermeer: Pieter de Hooch and Pieter Saenredam. Nelle loro opere il regno del silenzio è altrettanto assoluto: nelle stanze e negli interni delle chiese che hanno dipinto non si sente alcun suono né un bisbiglio. Soltanto "una pace al di là di ogni intendimento".
Un'altra figura di contemporaneo, l'inglese
Izaak Walton (1593-1683) arrivò al punto di scrivere le parole "Studio della Quiete" sul frontespizio del suo libro che gli ha dato la celebrità, The Compleat Angler (Il Pescatore perfetto) del 1653. È interessante notare che più tardi Walton pubblicò una biografia del divino poeta George Herbert (1593-1633), la cui vita e la cui opera sono impregnate della più stupenda tranquillità.
Nel diciassettesimo secolo l'Inghilterra era particolarmente ricca, se non di mistici, certamente di uomini inclini al misticismo. Tra di essi George Fox (1624-1691), il quale insegnò ai suoi Quaker a servire Dio in un silenzio reminiscente della via negativa dei filosofi medievali; ed i poeti John Donne (1572-1631) e Thomas Vaughan (1621-1695), il cui lavoro è altrettanto carico di silenzio.
estratto da
LO SPIRITO DEL SILENZIO di
John Lane ,
Il Libraio delle Stelle edizioni