DONNE, TAO E ARTI MARZIALI
Roberta Belli
In questi anni mi sono spesso posta la questione della mia presenza in una scuola di Kung Fu in quanto donna, quindi minoritaria in un ambiente quantitativamente e tradizionalmente maschile. Ho iniziato con il Tai Chi Chuan, affascinata dalla sua grazia e dal benessere psico-fisico che è in grado di produrre in chi lo pratica e sono finita, fatalmente direi, per intraprendere anche lo studio del kung fu esterno. Praticare entrambi i settori, esterno ed interno, è stato come far combaciare i pezzi di un mosaico - oserei dire come ricongiungere le due polarità yin e yang - e in definitiva la sensazione che si prova è la gratificazione che deriva dalla "completezza", dall'integrità.
Se innegabilmente il kung fu esterno è più yang e per convenzione più "maschile", mentre il tai chi è più yin e per convenzione più "femminile", allo stesso modo all'interno delle singole discipline si riproduce nuovamente questa polarità. Ciò a ben vedere vale per ogni fenomeno o cosa esistente, se vogliamo considerare valida la teoria taoista che vuole il Tao, l'indefinibile, come lo stato di superamento di ogni dualismo. Sia nel kung fu esterno che in quello interno, ad esempio, ci sono tecniche più yang di altre, ed aspetti relativamente più yin, c'è il continuo passaggio dal pieno al vuoto e viceversa: l'uno non potrebbe esistere senza l'altro e proprio per questo l'uno non è "migliore" o più importante dell'altro.
Pensando a questi concetti filosofici ho cercato di darmi una spiegazione riguardo alla esigua presenza di donne nelle scuole di arti marziali. Io credo che la ragione sia essenzialmente di natura sociale: la società fatica ad accettare che una donna si sottoponga a duri allenamenti volti al combattimento, da sempre visto come prerogativa maschile, quindi assai poco "femminile". Allo stesso modo a volte sono rimasta perplessa nel costatare come alcuni praticanti maschi di arti marziali siano ancora tenacemente radicati nella tradizione che vuole questo ambiente più adatto agli uomini. Ciò non si traduce in un rifiuto delle donne, tutt'altro, le donne sono ben accette perché… "mettono un tocco di grazia" nell'ambiente. Perché, proprio come accade anche in tutti gli altri ambienti sociali, si continua a pensare ad uomini e donne come entità psicologicamente e non solo fisicamente diverse: l'uomo sicuro, determinato, forte, votato alla trascendenza o all'attivismo e la donna fragile, sentimentale, insicura e votata all'immanenza o alla passività.
Si sbandiera, spesso, un astratto concetto di "femminilità", che a ben vedere non ha nulla di naturale ed al contrario ha molto dell'elaborazione concettuale, della convenzione sociale. A partire da Simone De Beauvoir in avanti, molte donne si sono poste questo problema della "femminilità". Quale sia il motivo che ci ha spinte a farlo in fondo non ha molto importanza e se ne ha è nel suo confermare la discriminazione alla quale la società ci sottopone sin dalla culla con più o meno gravi traumi di mancata accettazione.
Ma cos'è questa benedetta "femminilità" che dovremmo tanto difendere? È qualcosa di innato, naturale o è un modello sociale? Io propendo per questa seconda ipotesi, che vuole la donna non solo come diverso "fatto anatomico", ma come un insieme di sentimenti, comportamenti ai quali l'uomo ha dato il valore di un modello ideale, quindi molto evanescente, accomodante rispetto alle singole situazioni e ben poco reale.
Molte donne, spiega Simone de Baeuvoir, si impegnano con zelo per incarnare questo modello, ma "ci fa difetto un esemplare sicuro, un marchio depositato". Quindi, conclude l'autrice: "se oggi la femminilità è scomparsa, è perché non è mai esistita". Non dobbiamo dimenticare, infatti, che questa concezione astratta è frutto di un primordiale conflitto di interessi: "tutto ciò che hanno scritto (o detto) gli uomini sulle donne, dev'esserci sospetto, perché essi sono al tempo stesso giudici e parti in causa".
Ad un uomo, dice l'autrice, non verrebbe mai in mente di classificarsi come un individuo di un certo sesso: "Esiste un tipo umano assoluto, che è il tipo maschile". Quindi sin dall'origine della nostra cultura, "l'umanità è maschile e l'uomo definisce la donna non in quanto tale, ma in relazione a se stesso; non è considerata un essere autonomo". Quindi l'uomo è il soggetto, l'assoluto, la donna è l'altro. Il concetto di "Altro", è antico come la stessa coscienza e risponde ad un'esigenza di essenzialità, di potenza, che è alla base di qualunque rapporto: tra individui, paesi, razze, religioni ecc. ed ovviamente "la coscienza dell'Altro gli oppone a sua volta la stessa pretesa": di qui il conflitto, la divisione.
Eppure il kung fu sembra una disciplina esente da queste categorizzazioni: la forza è importante, ma da sola non basta, ha bisogno dell'energia, dell'agilità, dell'intuizione del praticante per essere efficace. A ben vedere ciò che fa la differenza tra gli artisti marziali non è tanto la prestanza fisica quanto l'atteggiamento mentale, quindi se si accetta davvero l'uguaglianza tra i sessi nelle facoltà psichiche e morali, pur riconoscendone la diversità fisica, non si può dire che il kung fu sia "cosa da uomini". Perché allora, pur ammettendo che la sessualità e la società condizionano anche la psiche, bisogna anche riconoscere ad ogni essere umano la capacità in potenza di trascendere la propria condizione di partenza. Tra l'altro qualità come determinazione, sicurezza e volontà non sono prerogative dell'uomo in quanto tale, ma solo perché incoraggiato in questo senso dalla società. Infatti se l'uomo ha inventato per la donna il modello "femminilità", allo stesso modo ha posto per se stesso il modello "maschilità" e perciò si è votato alla fragilità ed alla frustrazione che provoca l'anelito ad un'irraggiungibile figura ideale, esemplare.
si tratta di negare la diversità di uomo e donna, ma di prendere atto che "ogni essere umano concreto ha sempre la sua particolare situazione". "Non si può pretendere in buona fede di porsi al di là del proprio sesso", ma tra questo dato di fatto e la pretesa di affibbiare un ruolo, una sfera di sentimenti, una categoria di comportamenti o di capacità all'uno o all'altro sesso sulla base di una presunta naturalità, c'è un'enorme differenza.
Si continua a dire, infatti, che la donna nella nostra società sta sacrificando la famiglia e la vita privata per la carriera, che sta rinunciando alla grazia e alla sensibilità per l'aggressività e l'arroganza, che sono tipiche degli uomini, mentre sul piano della disciplina marziale sento dire che stili "duri" come l'Hung Gar non siano adatti alle donne. Ciò vuol dire che si riconosce alla donna il diritto di emanciparsi dagli antichi schemi sociali, purché non pretenda di arrogarsi alcune caratteristiche che l'uomo ama pensare come sue peculiarità.
In realtà l'aggressività, la trasgressione, l'egoismo, il cinismo, la volontà di incedere nel mondo con spavalda fisicità, sono sentimenti e atteggiamenti non caratterizzanti il sesso maschile in quanto tale, ma caratterizzanti l'essere umano in quanto libero di agire ( e l'uomo lo è sempre stato), e quindi anche di sbagliare o dare spazio al proprio ego. Perciò la donna che vive in un contesto sociale e culturale abbastanza civile, non dovrebbe negare a se stessa il diritto di "essere" nella propria totalità, comprendente anche gli aspetti meno lusinghieri dell'animo umano, o quelli più assertivi, limitandosi a relegare l'emancipazione a quei soli comportamenti che la connotano ancora come "angelo", come essere gentile e sensibile...insomma, proprio come la vorrebbero gli uomini per sentirsi più potenti, almeno della metà del mondo, per diritto di nascita. Porsi la questione in termini di libertà vuol dire ragionare senza schemi preconcetti ma solo nel pieno rispetto dell'essere umano in quanto tale e della sua innata vocazione alla trascendenza.
Ma nel kung fu c'è anche un altro principio che dovrebbe eliminarne ogni connotazione eccessivamente "maschile". Mi riferisco al Taoismo e al Buddhismo, le due filosofie che più hanno influito su questa disciplina marziale, con le loro componenti alchemiche, che si avvicinano molto anche all'alchimia occidentale. In alchimia si pensa che Dio, la Pietra filosofale, la perfezione alla quale aspira l'alchimista, siano l'unione dei principi complementari, rappresentata figurativamente come il Rebis o "Androgino", un essere che comprende in egual misura la natura maschile e femminile e quindi ha sanato ogni dualismo. Si può ben dire che il Rebis occidentale corrisponda esattamente al diagramma orientale che noi tutti conosciamo come Tao.
Se da una parte questa asserzione sembrerebbe confermare le effettive opposizioni dualistiche di uomo-donna, luce-oscurità, duro-molle, yang-yin, dall'altro afferma anche che la complementarità non significa opposizione insanabile ma compresenza indispensabile delle polarità in ogni fenomeno, che in sostanza elimina ogni differenza o predilezione per l'uno o l'altro aspetto. Quindi un artista marziale, a mio avviso, dovrebbe essere disposto a lasciar spazio alla sua componente femminile, senza rifiutarla con esorcistica aggressività, se davvero aspira a sviluppare le sue massime potenzialità.
Nel Taoismo gli opposti sono parte di un'unità, non c'è quindi dualismo assoluto e non c'è l'accezione netta del bene e del male che abbiamo noi di cultura cristiana. Io intendo il Tao un semplice simbolo, una rappresentazione che antichi uomini saggi hanno dato di qualcosa che è alla base dell'esistenza del tutto, che può essere osservata ed intuita ma non interamente compresa. Un qualcosa che deriva da quello che gli antichi chiamavano "la cosa in stato di miscuglio ancora in divenire", il che vuol dire compresenza caotica degli elementi costituenti che, grazie ad una forza non chiaramente compresa e conoscibile, ha generato i complementari che creano una nuova unità non più caotica ma armonica. In questo senso nel caos dimora la *possibilità* dell'armonia esattamente come nell'armonia esiste la possibilità del caos...
Inoltre, se vogliamo fare un esempio ancora più banale e radicato anche nella nostra tradizione filosofica, possiamo constatare agevolmente che per sapere che la luce è luce abbiamo bisogno dell'esperienza del buio esattamente come per sapere che il buio è tale abbiamo bisogno dell'esperienza della luce e similmente per tutte le cose. Per questo non si può dire che il male sia assolutamente male, poiché l'esperienza del bene sarà direttamente proporzionale all' intensità della conoscenza del male e in questo senso il male è uno strumento di conoscenza.
Questo principio lo ritroviamo anche nel Buddhismo, in cui si invita al rispetto e all'amore per le cose che ci danneggiano, in quanto preziosi maestri. Se il "male" e l'"oscurità" sono essenziali per la comprensione del "bene" e della luce" non possono essere caricati della valenza negativa che noi siamo soliti dare a questi termini. Per questo sono parte essenziale e complementare di quel supremo equilibrio di forze che è rappresentato nel Tao. Quindi nel Taoismo la separazione tra bene e male, tra buio e luce, femminile e maschile, yin e yang non è affatto netta o permanente, ma al contrario è uno stato temporaneo, come dicono i buddisti "occasionale", destinato a realizzare la sua aspirazione - questa sì - naturale all'unità.
Il supremo equilibrio delle forze complementari è la radice del bene ed è quanto l'essere umano dovrebbe ricercare in ogni sua attività. Io interpreto il Tao come il risultato di quella forza "divina" che spinge verso l'equilibrio, forza presente in ogni parte della natura quindi anche nell'uomo.
Per questo credo che i praticanti di arti marziali non dovrebbero rinnegare la componente "yin" della loro personalità e del loro modo di praticare, ossia quell'insieme di sensazioni, pensieri e comportamenti che per convenzione chiamiamo femminili. In questo senso mi spingo addirittura dire che allo stato attuale delle cose lo donne potrebbero avere maggiori potenzialità di eccellere nella pratica del kung fu, proprio perché esse non hanno remore e infondati pudori nel concedere spazio alla loro parte yang e "maschile", dal momento che nella società il maschile è visto come un principio superiore.
Auspico che i lettori traggano da questa pagina la volontà di riflettere e di approfondire la questione, cercando di leggere, anche dentro se stessi, con assoluta serietà ed equanimità, mettendo da parte alibi personali, giustificazioni morali o sociali e cercando invece di seguire la logica stringente che vede uomo e donna strettamente connessi ed indispensabili l'uno all'altra esattamente come lo yin e lo yang del Tao e, in quanto esseri umani, dotati degli stessi identici diritti ed orizzonti intellettuali, fisici e spirituali. Il mio più grande desiderio, in questo senso, è che ognuno di noi dia il proprio contributo affinché cessi l'attribuzione di comportamenti, sentimenti ed azioni all'uno o all'altro sesso, e che vengano pensati semplicemente come "umani".
è importante solo per noi, lo è soprattutto pensando a quelle donne che, in tutto il mondo, sono ancora sottoposte ad una sistematica e spesso abominevole privazione di dignità e libertà.
Roberta Belli
Aprile 2009
Non posso essere che felice nel vedere scritto ciò che è sempre stato il mio pensiero.
questo è articolo è fantastico!!! uno dei migliori articoli sul maschile/femminile che abbia mai letto in vita mia e che mi riguarda moltissimo da vicino dal momento che anche io pratico kung fu e che ho una parte maschile molto sviluppata. Veramente bello e illumimante! complimenti!
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