"Apri il cuore e accontentati di quello che la vita ti concede. Siamo tutti invitati alla festa della vita,
dimentica i giorni dell'oscurità, qualsiasi cosa possa essere successa non è la fine"
  Augusto Daolio

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TU & IO
Incontro amicizia condivisione unione,
l'Amore e i suoi impedimenti
TU & IO
COME L'ALBERO DALLA TERRA
Come l'albero dalla terra
e dalla roccia l'acqua
dall'uomo l'amore
Danilo Dolci-1957
PER QUANTO STA IN TE
Kostantinos Kavafis

E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te:
non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole e in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balia del quotidiano gioco
balordo degli incontri e degli inviti
sino a farne una stucchevole estranea.
QUANDO AMI
AMI TUTTO IL MONDO

Cecilia Chailly
Quando ami, ami tutto il mondo. E non solo le persone, anche gli animali, le piante, gli oggetti. L'amore non può essere un gioco di potere, e forse neppure una relazione, perché é uno stato d'animo autonomo, che comprende tutto....
Devo accettare di amarti incondizionatamente, perché solo così posso vivere questo sentimento che altrimenti mi corrode come un acido.Voglio alimentarmi dell'amore che ho per te, é la carica della mia esistenza, la linfa della mia vita che altrimenti é spenta. Amando te amo il mondo. E vorrei che il mondo partecipasse alla gioia del mio amore, e non importa se é solo mio né se il tuo preferirai darlo a qualcun altro....

da "Era dell'Amore"
ONDA DELL'AMORE
Cecilia Chailly
Se é vero che c'è un destino, se é vero che il pensiero e quindi i sentimenti esistono e si trasmettono, come é possibile che tu trovi qualcuno che tu ami più di me?
Il mio amore é la mia forza, con esso posso superare tutte le gelosie, tutte le necessità. A me basta amarti. E amando te amerò anche me, e tutti quelli che mi circondano. E cercherò solo l'amore, solo nei luoghi e nelle persone che mi permetteranno di tornare a vivere col sorriso sempre aperto...E il tuo spirito sarà con me, nel cerchio che con gli altri formeremo, e gireremo insieme nella ruota dell'amore cosmico che per sempre ci circonderà.

da"Era dell'Amore"
Aver bisogno

Se tu fossi incerta
ti sarei da guida
Se fossi impaurita
ti farei coraggio.
Se fossi debole
ti rafforzerei.
Se fossi smarrita
ti condurrei per la via.
Se fossi minacciata
potrei difenderti.
Se fossi triste
suonerei una musica pura.

Da sola, sarei tuo compagno
se poi, ti sciogliessi in lacrime
potrei asciugarle
con i miei capelli
e ricomporre il tuo sentimento.
Se fossi disperata
potrei darti Luce.

Io, sono l’altra parte
quella che non si svela mai
estremo bagliore
del momento grave.
 
Misteriosa paura
ti tiene allo specchio.
Tu forse conosci dagli altri,
Così forte, sicura e invulnerabile,
l’amore che si riceve
e nulla sai ancora
della preziosa bellezza
dell’amor che si dà.

P.I. 30-06-2005
IMPEGNO E MATRIMONIO: QUANDO EROS E' UN MISTERO
IMPEGNO E MATRIMONIO: QUANDO EROS E' UN MISTERO di Stuart Sovatsky

Nel mondo erotico, i voti e le premesse sono al servizio delle possibilità e delle potenzialità che possono sbocciare nei momenti condivisi di suspense, e non delle certezze e delle aspettative preconcette. Come si colloca quindi l'impegno in queste acque eraclitee? Proviamo a contattare questo mondo nel suo punto più vulnerabile: la nostra paura dell'amore e del rapporto. Il profondo valore della scoperta della nostra inadeguatezza in questo modo di prendere reciproco impegno erotico non sta nello stimolarci a fare meglio la prossima volta. Questo atteggiamento si adatta unicamente ai contratti legali e commerciali, modelli che hanno preso il controllo del matrimonio, nella pratica e attraverso i loro ben regolati vocabolari. Ma applicare queste forme formalizzate di impegno al rapporto erotico può portare gravi distorsioni. Similmente la psicologia popolare trasforma l'impegno in qualcosa “a cui lavorare”. È diventato un cerchio in cui uno dei due partner cerca di far saltare l'altro (o se stesso). Ma, nel mondo dell'eros-mistero, l'impegno non può essere un contratto, un'aspettativa di stabilità o un segno di “progresso” del rapporto.
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ECOPSICOLOGIA


di Ilaria Colombo

1. La crisi ecologica
“Ci sono pochi dubbi ormai: la crisi ecologica è la maggior emergenza planetaria e si tratta di fatti nostri sia perché noi, umanità, l’abbiamo provocata, sia perché tocca a noi, ora (ma qui siamo in abbondante compagnia), subircela” (Mainardi, 2001, p. 268).
Che il problema ecologico sussista è ormai un dato accertato sul quale sembra impossibile dubitare. Leggendo gli annali del Worldwatch Institute è improbabile convincersi del contrario.
Ma senza necessità di ricercare conferme dagli studi scientifici possiamo affermare che si tratta di una situazione di cui abbiamo tutti esperienza. Indubbiamente il problema ambientale è tra le questioni più urgenti che ci troviamo ad affrontare.
L’attuale crisi ecologica è determinata sia dall’incremento demografico che dalla modalità specifica di esistenza adottata dall’uomo moderno. In sintesi, come dice molto semplicemente Widmann (1997), la crisi ecologica “è tutta imperniata sulla presenza dell’uomo, sia nei suoi aspetti quantitativi sia in quelli qualitativi” ( p. 9).

2. Natura e cultura
La crisi ecologica, crisi globale, ci vede coinvolti come specie. Come ricorda Claudio Widmann (1997), sono molteplici le catastrofi ecologiche che hanno interessato il nostro pianeta in epoche remote. Sebbene l’emergenza ecologica non sia un problema nuovo “…per la prima volta la crisi dell’ecosistema non è soltanto un evento biologico, ma anche culturale…” (Widmann, 1997, p. 9). Caratteristica distintiva della specie umana è infatti la capacità di produrre cultura ma per ironia della sorte è precisamente questa particolarità a rappresentare oggi per l’uomo una minaccia per la sua stessa sopravvivenza. La cultura quindi si scontra con i vincoli connessi alle possibilità biologiche dell’essere umano e con le costrizioni dell’ambiente biofisico.
Il progresso tecnologico rappresenta oggi una minaccia per la terra e per la stessa specie. “L’uomo in tempi rapidissimi ha apportato e sta apportando modificazioni tali al pianeta da renderlo incompatibile con la sua vita biologica. Nessun processo evolutivo potrà permettere a questa specie di adattarsi in tempo. Ma proprio per questo, paradossalmente, sarà culturale e tecnologica, e non biologica, un’eventuale via d’uscita” (Rossi, in Widmann, 1997, pp. 29-30).
La crisi ambientale è strettamente connessa allo sviluppo tecnologico, sembra che intrappolati nella presunzione di un progresso senza limite abbiamo dimentichiamo la nostra origine animale. “Non ci consideriamo più mammiferi divenuti particolarmente intelligenti, ma esseri superiori in assoluto” dice Cirincione (1991, p. 31).
La problematica ambientale si gioca dunque tra la dimensione culturale e quella biologica dell’uomo. “L’uomo è da un lato prodotto dalla natura e pertanto parte della natura stessa, dall’altro in quanto unico essere in grado di comprendere il principio della natura e di se medesimo, è qualcosa che trascende la natura, è l’altro dalla natura. Mi pare che proprio questa ambivalenza dell’uomo sia l’enigma fondamentale insito in ogni teoria del rapporto tra natura e uomo” (Hosle, 1992, p. 46-47).
La situazione in cui ci troviamo è molto delicata, l’evoluzione ci ha condotti ad un punto critico. L’uomo possiede le armi per il proprio totale annientamento, il rischio di un autodistruzione è ai nostri giorni quanto mai realistica, allo stesso tempo esistono le stesse possibilità di raggiungere una condizione di assoluto benessere, un’autorealizzazione senza precedenti. Sta a noi la scelta. La nostra intelligenza dovrebbe spingerci a stabilire un’alleanza con l’ambiente naturale fondata sull’equilibrio e il rispetto. Invece perseveriamo a distruggere l’ambiente e con esso le condizioni essenziali alla nostra stessa vita.
Qualcuno si è domandato se l’uomo possa davvero fregiarsi del titolo di “sapiens”. Stiamo andando incontro alla nostra autodistruzione e se così dovesse realmente accadere si tratterebbe di una fine quanto mai stupida, potremmo ritenerci l’unica specie in tutta la storia della vita sulla terra estinta esclusivamente per colpa propria. “Attualmente l’uomo interpreta la forma più evoluta della Vita, ma potrà continuare a farlo solo fintanto che rimarrà in sintonia con l’evoluzione; diversamente essa lo travolgerà, poiché ha già dimostrato di seguire il proprio corso incurante delle forme di vita che sacrifica” (Widmann, 1997, p. 8-9).
“La rana non beve tutta l’acqua della pozzanghera in cui vive” recita un proverbio dei nativi d’America. “Noi siamo indubbiamente la specie più intelligente finora comparsa nel corso dell’evoluzione, ma ciò non ci ha impedito di metterci nei guai. Saremo abbastanza intelligenti da tirarcene fuori?” (Mainardi, 2001, p. 270).

3. La crisi e la sua negazione
Esiste tuttavia disaccordo tra gli esperti rispetto ai tempi in cui si verificherà la catastrofe così che rimane dibattuto e controverso il momento in cui si giungerà al collasso. Evidentemente i primi sintomi del disastro ecologico vengono ritenuti cosa da poco conto.
“Così, – dice Cirincione – anche chi prospetta le conseguenze più disastrose di certi fenomeni, come l’aumento della temperatura atmosferica, tende a proiettare il tutto a distanza di decenni, sottovalutando i danni a brevissimo termine e quelli già in atto che hanno cominciato a danneggiarci, come la siccità e la morte delle piante” (1991, p. 8).
Tale discordanza di opinioni infatti fa si che la questione venga da parte di molti sottovalutata e minimizzata. Questa incertezza fa sorgere l’idea che si tratti comunque di fenomeni che avranno luogo in un futuro lontano e che per questo non ci riguardano e non dobbiamo preoccuparcene. L’eventualità di non venirne coinvolti autorizza molti individui a non occuparsi della questione, a non sentirsi responsabili. Le generazioni future, in quanto non ancora esistenti, sembrano non essere titolari di diritti.
Ma d’altronde non possiamo negare che negli ultimi decenni si è assistito ad un notevole diffondersi delle tematiche ambientali. L’interesse e l’attenzione per il problema ecologico si sono intensificati nell’ultimo ventennio in merito al dibattito ambientalista divenendo ormai un tema relativamente diffuso.
Sebbene le questioni ambientali si siano notevolmente estese al punto da meritare l’attenzione anche della ricerca scientifica e tecnologica, e da trovare spazio nei programmi di alcuni partiti politici e nell’azione legislativa dei governi, il degrado ambientale va freneticamente aggravandosi. Dunque le molte iniziative a scopo ecologico e i progetti di educazione ecologica avviati negli ultimi anni dimostrano come “l’attenzione ai problemi dell’ambiente risulti spesso niente più che una moda, e in quanto tale debole sul versante di un possibile cambiamento reale” (Mortari, 1994, p. 13).
L’educazione relativa ad un corretto uso dell’ambiente è stata argomento al centro di molte ricerche applicative a partire dagli Anni Settanta. Secondo i risultati degli esperimenti pare non esserci alcuna corrispondenza tra la quantità d’informazioni riguardanti i problemi ambientali e il comportamento definito proambientale. Ad esempio in una ricerca di Schahn e Holzer (1990) le donne seppure meno aggiornate dei compagni maschi sui problemi ambientali hanno manifestato un atteggiamento più riguardoso dell’ambiente. I risultati lasciano quindi dubbiosi rispetto all’efficacia delle iniziative di informazione ambientale.
“Come del resto sanno gli studiosi degli atteggiamenti, - afferma Maria Rosa Baroni - cambiare l’atteggiamento delle persone verso i beni ambientali è un problema educativo non risolvibile solo attraverso campagne informative (infatti negli atteggiamenti la componente cognitiva è solo una parte, affiancata almeno da una componente affettiva e da una comportamentale)” (1998, p. 150). Dunque nonostante le innumerevoli campagne informative e l’evidenza dei fatti di fronte ai quali risulta difficile fingere di avere i paraocchi, sembriamo non accorgerci dell’estremo appello lanciato dalla natura e al contrario si rafforza incessantemente l’impronta antiecologica del nostro stile di vita. L’atteggiamento più diffuso sembra quindi quello di alzare le spalle ignorando i reali pericoli oppure nel migliore dei casi accettiamo passivamente le sventurate previsioni confidando nella fortuna convinti dunque che tutto si sistemerà per il verso giusto. In un modo o nell’altro si sfugge alla questione ecologica sviandola e seguitando a sottovalutarla.
Appare evidente che alla radice di tale atteggiamento si insinua il desiderio di non sapere. Ci ostiniamo a negare la gravità della situazione e anziché adoperare misure correttive proseguiamo imperterriti nella medesima direzione.
Riferendosi a questo comportamento Cirincione parla di un delirio di negazione: “di fatto la negazione è considerata un comune meccanismo psicologico di difesa e non un processo delirante. È però da ritenere che dal momento in cui un pericolo oggettivo venga ignorato in maniera costante e sistematica e ci si continui a comportare come se non esistesse affatto, non considerandone le conseguenze e non attuando le adeguate contromisure, tale posizione mentale assuma più le dimensioni e le caratteristiche dell’idea delirante, cioè d’un errore di giudizio che non viene modificato dalla ragione e dal senso critico” (1991, p. 7). Le stesse discussioni e i dibattiti hanno spesso solo il compito di illudere di affrontare e controllare la crisi ambientale. Quasi che il frequente discorrere in merito alla questione esuli dall’adoperarsi effettivamente per risolverla e dal mettere in atto misure adeguate ad affrontare efficacemente la situazione (Ibidem, p. 8). Sebbene sia condivisa la necessità di rinunciare al catastrofismo che ha solo l’effetto di generare sconforto e rifiuto di notizie e informazioni che non fanno che accrescere la sfiducia e il senso d’impotenza, resta comunque innegabile l’esigenza di pervenire ad un’analisi realistica della situazione che riconosca la gravità della questione. Come sostiene Cirincione: “Sappiamo quanto siano sgraditi gli allarmismi e come siano anzi controproducenti se servono soltanto a generare panico e agitazione. D’altra parte non è possibile trovare i giusti rimedi a un problema se si persiste nell’ignorarne o nel velarne le dimensioni. Un’autentica presa di coscienza in tal senso deve necessariamente passare sia attraverso il rilievo oggettivo dei danni ambientali che attraverso il superamento di quei meccanismi inconsci, individuali e collettivi che impediscono di valutarne l’entità e l’attualità, lasciando spazio a un illusorio e irrealistico ottimismo che rende sempre più difficile intervenire in tempo” (Ibidem, p. 9).

4. La necessità di stabilire dei limiti
Le attuali problematiche ambientali rammentano all’uomo la propria appartenenza al regno della natura evidenziandone la derivante determinazione mortale. Sembra infatti che la difficoltà dell’uomo moderno risieda nell’incapacità di accettare la propria finitezza e fragilità derivante dai limiti insiti nella condizione di essere umano. L’uomo rifiuta di dipendere in senso vitale dal mondo biologico e dunque rigetta la propria indissolubile appartenenza alla terra.
Tentando invano di sciogliersi dall’inestricabile connessione col mondo cerca di estraniarsi da quell’intreccio di relazioni biologiche, emotive, cognitive e sociali da 18
cui invece il suo stesso divenire non può irrimediabilmente svincolarsi. Guidato dall’ossessione del controllo l’uomo insegue dunque il desiderio di superare i confini imposti all’esistenza umana spianando così la strada agli odierni indirizzi della ricerca scientifica volti a forzare e manipolare i processi vitali. Nella medesima prospettiva possiamo leggere i vertiginosi sviluppi della tecnologia che regalano l’illusoria convinzione di controllo del mondo esterno. Affrancandosi dal mondo della natura l’uomo tenta di trascendere i limiti che segnano la vita umana sulla terra.
Mai come nel mondo attuale si pone con forza la necessità di elaborare una cultura del limite che a partire dal riconoscimento e dall’accettazione dei confini entro cui si snoda l’esistenza umana aiuti a stabilire con chiarezza i termini entro i quali è possibile agire e muoversi. Dunque è solo a partire dalla coscienza dei propri limiti che è possibile promuovere lo sviluppo di un atteggiamento eticamente orientato.
La crisi ambientale racconta difatti di un’incapacità dell’uomo di dare la giusta misura al consumo delle risorse.

5. La questione ecologica è un sintomo: risolvere o ascoltare?
“La questione ecologica è un sintomo” dice Alberto Melucci. “Come davanti a un messaggio del corpo, a un sintomo appunto, ci si può porre di fronte ai problemi ecologici con due diversi atteggiamenti: per ‘risolvere’ o per ‘ascoltare’. La medicina tecnologica e interventista ha sancito il trionfo delle pratiche ‘risolutive’, cancellando ogni possibilità di ascolto. Di fronte alla questione ecologica potrebbe prevalere un orientamento simile, che anziché riconoscere la natura di sintomo dei fenomeni, li fa invece oggetto esclusivo di intervento e sulla efficacia delle tecniche misura il proprio successo. Dimenticando così che la soppressione del sintomo non è la fine del male, ma solo il suo trasferimento” (in Widmann, 1997, p. 50).
La posizione dominante nell’attuale panorama culturale è quella che tende a ricondurre la crisi ecologica ad un problema di tipo essenzialmente tecnico e scientifico. Questa prospettiva d’analisi che conduce ad un interpretazione assolutamente superficiale del problema ecologico è sorretta dalla certezza che per ogni questione esista una soluzione tecnica. È questa la proposta che viene definita riformista o superficiale nell’ambito del dibattito ambientalista internazionale.
Questo approccio orienta verso scelte a breve termine e genera soluzioni soltanto provvisorie che non raggiungono mai la radice del problema. I provvedimenti adottati agiscono infatti solo in direzione dei problemi più evidenti, senza tener conto della questione nella sua globalità. Le misure promosse sono così indirizzate a ridurre l’intensità di certi fenomeni senza che la problematica venga mai affrontata completamente.
Scrive Cirincione : “Di fronte a questi problemi la posizione sociale di fondo è che bisogna cominciare a tenerne conto, o a far finta di farlo, e comunque non certo diminuendo ai vari livelli la produzione industriale o puntando sul risparmio energetico e su drastiche rinunce, ma tutt’al più trovando adeguate misure, pur sempre tecnologiche, all’inquinamento, al buco dell’ozono e agli altri fenomeni incombenti. Si persiste così nel ritenere che sia possibile migliorare la composizione chimica dell’aria, pur continuando a mettere in circolazione ogni giorno migliaia di altre automobili o installando nuovi impianti di aria condizionata” (1991, p. 9).
Occorre comunque ammettere che l’ambientalismo riformista ha ottenuto buoni risultati sia a livello legislativo che nel campo della ricerca scientifica. È in questo contesto che si è sviluppato il concetto di sviluppo sostenibile ed è proprio in virtù di questo cauto riformismo che questa proposta trova appoggio e ampio consenso nell’opinione pubblica.
Ma la questione ambientale richiede un intervento radicale. Affrontare la crisi ecologica significa rintracciarne le cause reali. È impensabile credere di fronteggiare efficacemente i problemi ambientali esclusivamente attraverso un approccio tecnico che promette soluzioni rapide e parziali. Il problema ecologico non può essere risolto in tempi brevi e attraverso una risposta riduttiva ed isolata. La natura complessa della crisi ambientale richiede di adottare una prospettiva sistemica che affronti il problema globalmente nel suo insieme ed escluda interventi settoriali e limitati.
Occorre giungere ad una comprensione approfondita della problematica ed è evidente che non c’è modo di comprendere la questione ecologica senza interrogarsi sulle profonde ragioni che la determinano. Diviene perciò fondamentale andare alla radice della crisi ecologica per rintracciarne i reali motivi anziché impostare l’intervento unicamente sugli effetti. Come afferma Mortari: “il problema ecologico non si affronta limitandosi a porre la domanda ‘cosa accade’ e quindi cercando una risposta alla questione di ‘come ridurre la densità’ di certi fenomeni. Occorre anche chiedersi ‘perché’ certi fenomeni accadono, con l’intenzione di risalire alle origini della questione ambientale” (1998, p. 18). Quindi, sebbene sia assolutamente incontestabile la necessità di un intervento tecnico e scientifico per la risoluzione della crisi, è evidente comunque che un approccio che si muova unicamente in questa direzione è in sé debole e inefficace. Continua Mortari: “…esiste un diffuso sentimento di fiducia totale nei confronti della scienza, ritenuta l’unica forma autentica di sapere e in quanto tale la sola capace di garantire la sopravvivenza dell’umanità, cui fa da contrappunto l’idea dell’inutilità non solo della riflessione filosofica, ma, in genere, di qualsiasi percorso che non faccia appello all’autorità della scienza” (1994, p. 29). È aspettativa diffusa quella che affida alla scienza la risoluzione dei problemi ecologici. Ma l’attuale crisi coinvolge le scienze umane non meno delle scienze naturali. Si rende pertanto necessario un approccio integrato e multidisciplinare al problema che superi la parzialità delle singole strategie. La riflessione ecologica scavalca i rigidi comparti disciplinari per raggiungere una prospettiva d’indagine più integrata della realtà.
Si rende essenziale superare la frammentazione del sapere che separa e allontana le varie discipline. È necessario che il dibattito politico ed economico inerente alle problematiche ambientali venga affiancato da una consistente e matura riflessione psicologica e filosofica che ponga al centro della trattazione il ruolo dell’uomo quale membro dell’ecosistema e che si interroghi sui risvolti etici della crisi.
Le riforme superficiali che non mettono in discussione il nostro comportamento sono quelle di una politica d’intervento che agisce solo sui sintomi. Il limite maggiore dell’approccio riformista è quello di avanzare soluzioni alla crisi ecologica rimanendo comunque all’interno di quella cornice concettuale che ha favorito lo sviluppo della disposizione antiecologica della nostra cultura. Andare alla radice della questione equivale a sollevare interrogativi che riguardano in primo luogo il nostro attuale stile di vita. Invece di girare attorno all’argomento è bene ammettere che il problema riguarda il nostro rapporto con la natura. Riflette Melucci: “Perché esiste una ‘questione ecologica’? Non solo perché l’inquinamento minaccia la nostra esistenza e i disastri ambientali diventano visibili agli occhi di tutti, ma perché è mutata profondamente la nostra percezione culturale e sociale della realtà in cui viviamo” (in Widmann, 1997, p. 50). La crisi ecologica impone una radicale riorganizzazione del nostro agire perché è solo a partire da un’alleanza con il mondo della natura che è possibile costruire un futuro di benessere per la specie umana. Non possiamo trascurare il fatto che la crisi ambientale è determinata in primo luogo dal nostro stile di vita e quindi prima di ogni altra considerazione occorre sottolineare che il problema è legato unicamente al comportamento dell’uomo.
La necessità di un apporto psicologico alla questione forse non è mai stata considerata seriamente. La dimensione psicologica viene scavalcata da valutazioni di tipo economico, politico, e sociale. Occorre quindi ragionare sul fatto che i problemi ambientali sono prima di tutto determinati dalle credenze, dai valori e dalle motivazioni degli uomini.
Si tratta dunque di una crisi etica prima ancora che ecologica; pertanto non è possibile affrontare la questione senza indagarne le determinanti psicologiche.

6. Psicologia e crisi ambientale
È soltanto individuando le reali motivazioni che si celano dietro al nostro comportamento che possiamo adoperarci per cambiarlo. Occorre arrivare a svelare l’immagine che l’uomo ha di se stesso e della natura perché per superare la crisi ecologica è necessario elaborare una nuova interpretazione della relazione tra essere umano e ambiente naturale. Naturalmente il contributo psicologico non intende definirsi quale posizione alternativa all’approccio economico e politico con la pretesa di sostituirsi ad ogni intervento di questo genere.

Come già sottolineato è indispensabile intrecciare i differenti contributi disciplinari perché la problematica ambientale non può essere inquadrata all’interno di un singolo ambito di ricerca ma richiede un approccio variegato ed eterogeneo in grado di coglierne i molteplici aspetti.
In Italia i contributi psicologici al problema ecologico sono assolutamente scarsi. La riflessione psicologica relativa alla crisi ambientale si mostra certamente più feconda e prolifica in Inghilterra e negli USA.
Widmann sottolinea il contributo che la psicologia può offrire all’analisi del problema ambientale:
in quanto disciplina che si occupa della coscienza (poiché l’uomo rappresenta il primo agente ecologicamente devastante, capace di rendersi conto di essere tale);
in quanto disciplina che si occupa della psicopatologia (poiché le condotte antiecologiche sono sospette di essere distruttive e autolesive, dunque patologiche);
in quanto disciplina che studia l’evoluzione umana verso stadi di maturazione e di benessere psichico sempre più avanzati (poiché l’attuale ricerca di benessere porta talvolta a situazioni paradossali di maggiore disagio e di maggiore sofferenza). (Widmann, 1997, p. 11)

7. Il valore della responsabilità personale
Affrontare il problema prendendone in considerazione la dimensione psicologica consente di centrare la riflessione sul singolo individuo riportando l’attenzione alla responsabilità personale. La crisi ecologica chiama in causa ognuno di noi e per questo motivo non possiamo esimerci dall’intervenire. Come dice Goodall: “ogni singolo individuo può cambiare le cose,il modo in cui le cambiamo dipende da noi, perché la scelta è nostra. Con il nostro agire quotidiano, possiamo aiutare l’ambiente e tutti coloro che assieme a noi abitano il pianeta, umani e non umani. Altrimenti possiamo solo danneggiare il mondo. È difficile rimanere neutrali” (2006).
Ciascun individuo ha il diritto e il dovere di decidere con consapevolezza in direzione di quale orizzonte esistenziale volgere le proprie scelte. “Nella misura in cui gli individui abdicano alla loro responsabilità personale, prende il posto un potere anonimo dietro al quale non c’è una presenza, ma un’assenza. È la logica del profitto, dell’egoismo fatto legge, dell’incapacità di pensarsi parte di un contesto più vasto…” dice Danon (2006).
Rese esplicite le conseguenze del proprio agire noi soltanto possiamo porci al timone della nostra vita e optare per altre alternative. Il problema ecologico viene invece affidato agli “esperti” perché non vogliamo riconoscere che la crisi coinvolge ognuno di noi. Così di fronte all’evidenza dei fatti ci nascondiamo dietro le solite scuse: non compete a me intervenire, il mio contributo non cambierebbe comunque la situazione, le responsabilità sono dei politici e degli industriali. In realtà le nostre responsabilità sono notevoli, così come altrettanto rilevanti sono le possibilità d’intervento. È assurdo non tenere conto dell’importanza delle scelte dei singoli individui. Ed è proprio questo l’atteggiamento che permette di sottrarsi al proprio dovere e al proprio compito. Occorre invece evidenziare il possibile contributo di ognuno di noi alla situazione.
È questa indubbiamente la strada più saggia da seguire, è utile puntare sul coinvolgimento attivo e sull’importanza dell’apporto di ciascuno in modo da sottolineare la necessità di una maggior cooperazione e partecipazione di tutti nel combattere disimpegno e indifferenza.
Inoltre, mentre le conseguenze del dissesto ecologico per la nostra salute fisica sono ampiamente riconosciute e studiate, trascuriamo invece quanto la crisi ambientale incida sulla nostra salute mentale in termini di malessere psicologico. Raramente ci soffermiamo a considerare il dazio emotivo che dobbiamo pagare per aver distrutto l’equilibrio ecologico del pianeta.
“Ci sono casi di depressione – scrive sempre Danon (2006) – a cui fa riferimento la ancora scarsa letteratura sul tema, la cui origine si è rivelata essere la sensazione di mancanza di futuro indotta dall’emergenza ambientale, oppure dovuti a lutti non riconosciuti e non superati relativi a disastri ambientali: come è successo a volontari in Galizia, dove le spiagge sono diventate nere di petrolio; operatori umanitari in Amazzonia, rimasti sconvolti dallo scempio; operatori antincendio in Liguria, quando non riescono a evitare la distruzione dei territori che amano; e come succede a molte delle persone che vivono con sofferenza la sostituzione di boschi, campi e natura incontaminata con distese di cemento” . Si tratta di una naturale e sincera preoccupazione che ha bisogno di trovare ascolto.
Come è possibile raggiungere una vita serena e tranquilla di fronte alla minaccia della catastrofe ambientale?
Possiamo tendere al benessere e alla felicità e al contempo assistere quali spettatori insensibili allo scempio e alla distruzione del nostro pianeta? Viviamo anestetizzati e addormentati accettando passivamente tutto quanto accade intorno a noi dimenticando che il destino della terra ci riguarda tutti. Rinunciare a lottare per la sopravvivenza del pianeta significa rinunciare a difendere la propria vita. L’inquietudine e il malessere non devono essere messi a tacere perché non è giusto e non è sano rassegnarsi di fronte alla catastrofe. “Aiutando le persone ad adattarsi ad una società distruttiva non stiamo facendo più male che bene?” si domanda O’ Connor, ecopsicologa statunitense. “Aiutiamo i parenti a crescere i figli, le coppie ad avere relazioni più armoniose…mentre fuori di noi l’aria diventa irrespirabile e gli oceani tossici” (in Danon 2006). È compito della psicologia intervenire per abbattere quelle barriere psicologiche che ci permettono di assistere indifferenti al disastro ambientale. Occorre esortare a reagire perché lo sconforto e la disperazione possono essere superati soltanto con l’azione e con l’impegno concreto. Bisogna incitare a prendere posizione, a schierarsi effettivamente contro la distruzione del nostro pianeta. L’atteggiamento rispettoso nei confronti della natura deve diventare così parte integrante del nostro modo di essere e di pensare e non riguardare soltanto sporadici episodi durante il periodo delle ferie o in occasione di brevi gite all’insegna dell’educazione ambientale. Ogni azione della nostra vita quotidiana deve essere orientata al rispetto e alla tutela dell’ambiente.
La terra è la nostra casa e dunque meriterebbe le medesime cure e attenzioni che quotidianamente riserviamo alle nostre abitazioni.

L’ecopsicologia: nascita, pensiero, fondamenti e finalità Gli assunti della psicologia ambientale hanno innegabilmente favorito il plasmarsi dell’ecopsicologia.
Ma sebbene l’ecopsicologia affondi profonde radici nella psicologia ambientale è indubitabile che questa, una volta afferrato il testimone, abbia assunto una direzione divergente che sorpassa gli stessi principi adottati dalla psicologia ambientale.
Il terreno d’indagine dell’ecopsicologia è venuto espandendosi rispetto a quello fatto proprio dalla psicologia ambientale. Adottando la definizione di Davis (1999) possiamo così riassumere gli elementi focali propri della psicologia ambientale: lo studio della percezione ambientale, l’esame degli effetti che l’ambiente produce sul comportamento umano e gli effetti del comportamento umano sull’ambiente stesso.
Rispetto dunque a quello che è l’ambito specifico d’interesse della psicologia ambientale, l’ecopsicologia si spinge assolutamente oltre. Il genere umano è inevitabilmente parte del più esteso mondo della natura afferma Hillman e “come potrebbe essere diversamente, dal momento che il soggetto umano è composto della stessa natura del mondo? Eppure, la pratica psicologica tende a bypassare, a trascurare, le conseguenze di questi fatti” (1999, p. 47). La psiche umana risulta indissolubilmente allacciata al mondo della natura.
Il confine tra sé e mondo naturale, sostiene Hillman, risulta del tutto arbitrario. Possiamo tracciarlo “a livello della pelle, oppure possiamo portarlo lontano quanto si vuole – agli oceani profondi o alle remote stelle” (1999, p. 48). Dunque, “se la psicologia è lo studio del soggetto, e se i limiti di questo soggetto non possono essere definiti, allora, che lo voglia oppure no, la psicologia si fonde con l’ecologia” (1999, p. 49). Il termine “ecopsicologia” è stato impiegato per la prima volta dallo storico della cultura T. Roszak (1992) per definire un nuovo ambito di studio che integra per l’appunto l’ecologia e la psicologia.
L’ecopsicologia nasce a Barkeley, in California nel 1989 e rappresenta il frutto delle ricerche e delle riflessioni di Elan Shapiro, Alan Kanner, Mary Gomes e Robert Greenway. Si tratta di un gruppo di accademici che si incontra periodicamente per discutere del contributo che la psicologia può offrire alla comprensione dell’attuale crisi ecologica.
Successivamente prende parte al gruppo Theodore Roszak. Nel 1992 viene pubblicato “The Voice of the Earth”, di Theodore Roszak che rappresenta il primo testo di riferimento dell’ecopsicologia e contribuisce a delinearne il tracciato essenziale. L’ecopsicologia indaga il rapporto uomo-natura, traslando la psicologia in un contesto ecologico. Il pensiero ecopsicologico svela le profonde connessioni esistenti tra l’essere umano e l’ambiente di cui è parte arrivando a ridefinire in chiave ecologica il concetto di salute mentale.
Gli ecopsicologi accostano la relazione tra l’uomo e il proprio ambiente alla relazione che intercorre tra un soggetto e la propria famiglia. “La ‘brutta’ situazione ‘in’ cui mi trovo - dice Hillman - forse non riguarda soltanto un umore depresso o uno stato mentale ansioso; forse ha a che fare con il grattacelo per uffici, chiusi ermeticamente, nel quale lavoro, con il quartieredormitorio nel quale abito, o con la superstrada sempre intasata sulla quale vado e torno fra i due luoghi” (1999, p. 49).
L’intento dell’ecopsicologia coincide con il riconoscimento di quella reciprocità che, a fondamento di ogni rapporto, viene a distinguere e a caratterizzare anche la relazione dell’essere umano con l’ambiente a cui appartiene. “Non possiamo restaurare la nostra salute e il nostro benessere se non restauriamo la salute del pianeta” afferma T. Roszak (Danon, 1996) e “Non possiamo essere studiati separatamente dal nostro pianeta” aggiunge M. Danon (1996).
La vita dell’uomo è indissolubilmente legata alla vita della Terra e i bisogni del pianeta e i bisogni dell’essere umano sono interdipendenti e interconnessi. L’ecopsicologia esplora le radici e il significato di questa profonda connessione insistendo sull’impossibilità di separare l’individuo dal contesto di cui è parte. L’esistenza umana è inestricabilmente inserita in un vasto complesso di relazioni da cui non è possibile prescindere.
Alla base del pensiero ecopsicologico è da rintracciare una decisa opposizione al dualismo che scinde ed estrania il genere umano dalla natura. In ambito terapeutico la tendenza è ad affrontare il disagio sociale e individuale riallacciandolo al quadro ambientale in cui si vive.
La volontà dell’ecopsicologia è quella d’intervenire per correggere il rapporto insano che l’essere umano ha instaurato con l’ambiente naturale. Gli ecopsicologi riconoscono nel malessere e nella sofferenza dell’uomo civile moderno gli effetti del profondo distacco dal mondo naturale che caratterizza le nostre esistenze e rappresenta in realtà un allontanamento dal nostro essere più autentico.
L’ecopsicologia considera i luoghi di natura di fondamentale importanza per l’equilibrio fisico e psicologico dell’individuo, distinguendo gli effetti benefici che derivano da un contatto diretto con il mondo naturale.
La natura è un essere vivente di cui siamo parte integrante e sicuramente non un ammasso di risorse da saccheggiare. Promuovendo un nuovo atteggiamento di rispetto nei confronti dell’ambiente naturale l’ecopsicologia assume principalmente i caratteri di un discorso educativo. In questa prospettiva costituisce un valido appoggio ai movimenti per la difesa dell’ambiente proponendosi di portare avanti la causa ambientalista rinunciando al catastrofismo e puntando invece sul coinvolgimento attivo e sulla responsabilità personale. L’ecopsicologia reclama dunque una sostanziale revisione della psicologia tradizionale, in relazione al contesto della crisi ecologica. Nel 1993 si tiene la prima conferenza di ecopsicologia all’Esalen Institute in California a cui ne segue una seconda nel 1994.
Si tratta di due eventi significativi che consentono di mettere in comunicazione tra loro gli studiosi che si riconoscono in questo nuovo orientamento così da raccogliere i numerosi contributi che iniziano a svilupparsi.
In conseguenza di questi due incontri viene fondato l’Ecopsychology Institute presso la California State University. L’intento dell’Istituto è quello di facilitare il dialogo internazionale tra psicologi e ambientalisti così che il lavoro di entrambe le parti possa incontrarsi e fondersi.
Nello stesso periodo sorge un altro Istituto di Ecopsicologia sulla costa est degli Stati Uniti diretto da Sarah Conn.
Diversi libri iniziano a venire pubblicati e tra questi sicuramente di rilievo è l’antologia prodotta da Roszak, Gomes, Kanner che raccoglie gli interventi di diversi ecopsicologi e rappresenta il testo definitivo dell’ecopsicologia. Sebbene l’ecopsicologia occupi una posizione di marginalità rispetto all’ambito tradizionale della psicologia, in ragione del carattere radicale delle assunzioni concettuali avanzate, è pur vero che le stesse questioni da essa poste iniziano a venire assunte nel lavoro di vari psicologi. Tuttavia soltanto sporadicamente compare il riferimento all’ecopsicologia in quegli articoli scientifici relativi ai vari ambiti di ricerca che intendono esaminare la psiche all’interno del contesto della crisi ecologica indotta dal genere umano (Reser, 1995).

2. Ecologia e visione sistemica
“L’ecologia cambia i nostri valori cambiando la nostra concezione del mondo e di noi stessi rispetto al mondo” (Callicott, 1982, p. 174).
L’ecopsicologia promuove una visione unitaria della vita coerentemente con il cambiamento di paradigma in atto in campo epistemologico e scientifico.
Il pensiero ecopsicologico assume l’ecologia come scienza di riferimento dando rilievo alle implicazioni metafisiche di cui è denso il suo discorso.
L’ecologia (dal greco oikos, dimora) nasce nel diciannovesimo secolo dagli studi dei biologi organicisti sulle comunità di organismi. Essa studia le relazioni che connettono fra loro gli abitanti della Terra. Fu il biologo Ernest Haekel a coniare nel 1986 il termine appunto di “ecologia”, definendola come la scienza delle relazioni tra l’organismo ed il mondo esterno circostante.
La scienza ecologica incrina profondamente l’immagine dell’essere umano e della natura, nutrita dalla cultura occidentale introducendo una visione sistemica e olistica della realtà. La nuova immagine del mondo che viene delineandosi a partire dai più recenti sviluppi della ricerca è quella di un’ecosfera in cui ogni forma di vita è strettamente interconnessa.
La natura è un enorme essere vivente di cui l’uomo è parte integrante. In questa direzione si muove l’ipotesi Gaia di Lovelock (1979) che afferma il processo di reciproca interazione che unisce mondo biotico e mondo abiotico. Gli organismi viventi non si limiterebbero ad adattarsi ad un ambiente che si autoregola seguendo leggi proprie ma parteciperebbero attivamente alla sua organizzazione.
In sostanza la terra è un organismo vivo, in grado di autoregolarsi secondo il principio dell’omeostasi e al suo funzionamento parteciperebbero gli stessi organismi viventi. La scienza ecologica definisce la comunità ecologica come unione di organismi legati in un tutto funzionale dalle loro relazioni reciproche. Comprendere la struttura relazionale della realtà significa considerare la propria esistenza intrinsecamente interconnessa a quella degli altri esseri viventi. Esistere significa entrare a far parte di un tessuto di relazioni. L’interrelazione non va però intesa come legame causale perché i vari elementi sono tra loro legati da molteplici relazioni di differente natura. Il paradigma meccanicistico descrive la realtà fenomenica come un insieme di rapporti lineari tra cause ed effetti distinguendo nettamente le prime dai secondi. In una prospettiva sistemica invece viene a cadere questa distinzione rigida tra variabili dipendenti e variabili indipendenti. Il principio di interdipendenza sostiene che ogni rapporto di influenza è sempre reciproco.
La classica logica lineare si dimostra pertanto inadeguata a spiegare la realtà la cui complessità può essere dunque afferrata soltanto adottando un approccio sistemico. Il principio della interrelazione fa così cadere l’idea correntemente radicata di un uomo separato dalla natura, ad essa superiore ed autorizzato ad esercitarne il dominio e il controllo. L’uomo è parte di quel tutto organico che è l’universo.
“La questione ecologica è anzitutto problema di sistema, rivela cioè l’interdipendenza planetaria, spostando così i confini della coscienza e dell’azione umana. Siamo alla fine della causalità lineare, della spiegazione monocausale, della ‘determinazione in ultima istanza’. Siamo parte di sistemi in cui la circolarità delle cause richiede una ristrutturazione dei nostri modelli cognitivi e delle nostre aspettative verso la realtà” (Melucci, in Widmann, 1997, p. 50-51).

2.1. L’approccio sistemico multidisciplinare
“Tutte le cose vicine o lontane segretamente sono legate le une alle altre e non si può toccare un fiore senza disturbare una stella” (Thompson, 2006). A incoraggiare la transizione dal modello gnoseologico ed epistemologico frammentario su cui si fonda la scienza moderna verso il nuovo paradigma di tipo sistemico e relazionale contribuisce insieme all’ecologia anche la fisica quantistica. La fisica degli ultimi secoli basata sulle teorie di Newton rappresenta l’universo come un’enorme macchina in cui gli accadimenti sono prevedibili secondo leggi lineari di causa-effetto.
Negli anni recenti, la meccanica quantistica e il lavoro di Einstein hanno rivoluzionato la concezione convenzionale della realtà. L’opera di Einstein dimostra che la materia solida consiste in uno spazio vuoto attraversato da un flusso di energia. “Il pensare all’ecosfera come ad un campo di energia dove i singoli organismi sono nodi di una rete di strutture in movimento esercita un potere eversivo rispetto al paradigma meccanicistico che poggia su una visione atomistica e disgiuntiva delle cose” (Mortari, 1998, p. 43 ).
La fisica quantistica ha provato che l’atto stesso di osservare condiziona i risultati, ovvero la coscienza dell’osservatore influenza l’osservazione. Osservatore e oggetto osservato sono implicati in un’intricata rete di relazioni che non rende possibile differenziarli in due entità separate: l’immagine del mondo esterno non può essere considerata qualcosa di distinto dalla struttura cognitiva umana che la percepisce. La ricerca afferma quindi l’inscindibilità di soggetto e oggetto, conoscente e conosciuto.
In sintesi la materia basilare dell’universo si presenta come una specie d’energia pura plasmata dalle intenzioni e dalle aspettative di ogni individuo. Entrambe, l’ecologia e la fisica, forniscono quindi una rappresentazione interconnessa della realtà.
Si struttura una nuova capacità di pensiero, un significativo cambio di paradigma, una conversione epistemologica nel segno della complessità e dell’attenzione sistemica.
Il pensiero analitico cartesiano ed il meccanicismo di Newton vengono scalzati dall’idea del mondo come insieme integrato, quale campo di sviluppo di connessioni, relazioni, contesti e trame semantiche.
L’approccio sistemico è andato diffondendosi in tutte le discipline dalla biologia alla psicologia, dalla sociologia all’economia.
Il paradigma relazionale generatosi nella comunità scientifica dei biologi organicisti e dei fisici quantistici, va dunque espandendosi con esiti di notevole valore nelle varie materie scientifiche e con approcci strutturati nell’area umanistica.
La visione di una differente realtà non più univoca, ma intrecciata da fili multicolore, comporta un mutamento di prospettiva nella ricerca delle singole discipline scientifiche ed umanistiche, con consapevolezza e risultati anche molto dissimili fra loro.

3. Il principio di auto-eco-realizzazione
Seguendo il pensiero ecopsicologico, partendo dall’assunto che la vita di ciascun individuo è intimamente connessa a quella degli altri esseri risulta evidente che il bene del singolo coincide idealmente con il bene della comunità. L’interesse personale quindi non può che confondersi nell’interesse collettivo e viceversa. A. Naess (1988), filosofo norvegese utilizza in proposito l’espressione di auto-ecorealizzazione. Non può esserci vero benessere e piena soddisfazione quando si pone la propria vita in una prospettiva individualistica che non tiene conto della reale condizione umana. Il senso autentico del vivere può essere rintracciato unicamente nella ridefinizione in chiave ecologica del proprio sé.
Quindi, se ogni forma di vita è parte di uno stesso tessuto vitale, ne consegue che la realizzazione profonda di sé non può prescindere dall’assunzione di responsabilità e di cura nei confronti dell’ambiente nella sua interezza. Per cui rispettare e proteggere il mondo naturale significa tutelare la propria esistenza. “Noi abusiamo della terra perché la consideriamo come un bene di consumo che ci appartiene. Quando vediamo la terra come una comunità alla quale apparteniamo, allora possiamo incominciare ad usarla con amore e con rispetto” (Leopold, 2006).
La mancanza di riguardo e considerazione per l’ambiente rispecchia pertanto un atteggiamento di assoluta ignoranza verso i bisogni profondi dell’essere. Siccome l’impegno e l’attenzione per la natura passano necessariamente attraverso il rispetto di noi stessi, l’ecopsicologia ci informa del parallelismo esistente tra l’atteggiamento che nutriamo nei confronti di noi singoli, e il comportamento adottato nei riguardi del mondo circostante. Ritrovare l’attenzione, il rispetto e l’amore per il mondo naturale significa dunque coltivare un diverso atteggiamento verso la natura umana nel suo complesso.

3.1. L’identità terrestre
“Il pensiero ecologico (…) rivela un sé nobilitato ed esteso, in quanto parte del paesaggio e dell’ecosistema, perché la bellezza e la complessità della natura sono in continuità con noi (…) dobbiamo affermare che il mondo è un essere, una parte del nostro proprio corpo” (Shepard, 2006).
L’invito dell’ecopsicologia quindi è quello di allargare gli orizzonti del proprio io per ritrovare la propria identità terrestre. Estendere gli angusti limiti di ciò che viene considerato il proprio spazio personale al fine di recuperare un senso di comunione e condivisione con la società e l’ambiente. (Danon, 1996)
Albert Einstein (2006) afferma: “Un essere umano è una parte di una totalità chiamata universo, una parte limitata nel tempo e nello spazio. Egli fa esperienza di se stesso, dei suoi pensieri e delle sue sensazioni, come di qualcosa che è separato dal resto, una specie di illusione ottica della sua consapevolezza. Questa illusione è come una prigione per noi, ci restringe ai nostri desideri personali e all’unione con poche persone, le più vicine. Il nostro obiettivo è liberarci di questa prigione, allargando il nostro cerchio di comprensione fino ad abbracciare tutte le creature viventi e tutta la natura nella sua bellezza”.
Come osserva l’ecopsicologa Danon: “Molta della solitudine, della mancanza di senso e del malessere che così spesso affligge il civile mondo occidentale è dovuto a una perdita di connessione con una visione più ampia della realtà. Oggi abbiamo quasi tutti un problema di alienazione dalla totalità del nostro essere” (2006).
In sintesi, l’uomo moderno ha smarrito la consapevolezza della propria appartenenza alla terra.

4. Affrontare la crisi in un’ottica sistemica
Sembra quasi inverosimile come il mondo attuale con le ingenti risorse economiche, tecnologiche e scientifiche di cui dispone ancora non abbia saputo affrontare efficacemente la questione ambientale che al contrario sembra rivelarsi sempre più resistente alle soluzioni avanzate.
È stato anche detto che la crisi ecologica è indubbiamente un problema complesso che volge l’attenzione a numerosi fattori di ordine economico, politico, sociale, morale.
Il limite delle proposte sinora elaborate può essere individuato nell’approccio tradizionale ai problemi di tipo meccanicistico che, indirizzato a scomporre la problematica in elementi sempre più piccoli, porta ad effettuare interventi settoriali che se non privi di risultati si dimostrano però inefficaci a lungo termine. Si tratta di un approccio valido quando il problema è circoscritto in un ambito ristretto, ma si rivela sempre più inadeguato all’aumentare della complessità della situazione.
Ecco perché la crisi ecologica richiede un approccio sistemico che sappia prendere in considerazione i molteplici aspetti che interagiscono tra loro e non riduca la visione della situazione ad un orizzonte limitato.
Questo significa primariamente che occorre tenere insieme le diverse dimensioni del problema al fine di sviluppare un intervento integrato, nutrito dal dialogo e dal confronto multidisciplinare.
Afferma Corraliza: “la questione ambientale, così come ripresenta ai nostri giorni, assume dimensioni tanto complesse che né le spiegazioni né le eventuali soluzioni potrebbero essere formulate da una prospettiva unidimensionale” (in Nenci, 2003, p. 180).

Fonte: da Ecopsicologia di Ilaria Colombo

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