Sempre più di sovente, ormai, l’era che stiamo vivendo viene definita con il termine
“globalizzazione”: le distanze che hanno separato gli uomini per secoli si sono accorciate e le opportunità di interazione, scambio e comunicazione sono enormemente aumentate. Internet e le tecnologie della comunicazione contribuiscono e determinano sempre più numerose occasioni di incontro e diffusione di nuove idee e concetti: tutto questo sembra causare, in qualche misura, disordine o, quanto meno, un certo grado di disorientamento e imprevedibilità. Disorientamento ed imprevedibilità che si riflettono anche sulla vita delle organizzazioni e ne mettono a repentaglio gli equilibri consolidati da lungo tempo.
Disorientamento ed imprevedibilità esercitano, e non potrebbe essere altrimenti, la loro possente influenza anche sull’uomo in quanto individuo: a causa dei molteplici stimoli cui è sottoposta, la persona deve apprendere non solo più concetti e nozioni, ma anche (e forse soprattutto) dei modelli di comportamento, che non per forza devono essere etichettati come “nuovi”, ma che la aiutino ad orientarsi per non perdersi nel caos. L’uomo dei nostri tempi deve essere, oltre che un buon professionista, maturo e dotato di un’ottica ampia, in grado di giocare la sua parte nel delicato equilibrio del sistema di cui, volente o nolente, è parte integrante.
Inoltre, nell’ambito lavorativo attuale, caratterizzato dal caos e dall’ansia, pratiche quali il rigido controllo, il downsizing e la competizione esasperata causano, all’uomo moderno, la nascita di paure ed atteggiamenti difensivi (1). Molte volte le organizzazioni tentano di rispondere al caos intraprendendo programmi rigidamente pianificati: si parla di strategia, vision, Total Quality Management, orientamento al processo ed all’integrazione verticale, skills - based training.
La caratteristica comune a questi programmi è la razionalità che li guida, razionalità che, secondo una mentalità tipicamente occidentale, sembra poter garantire la riuscita dei programmi stessi. Ma – come si può ben immaginare – questo non basta:
è necessario confrontarsi con i lati emotivo – spirituali dell’essere umano(2). È inutile nasconderlo.
Martin Rutte – uno dei leaders della Spirituality in the Workplace – coglie molto bene questo punto: egli sottolinea come faccia parte del senso comune il fatto di ritenere che, se un’azienda ha successo, non licenzierà di certo del personale. Ma gli eventi di questi ultimi anni stanno dimostrando, se non il contrario, che tale asserzione non sembra più essere così indiscutibile. Sicuramente egli coglie la realtà americana, ma penso che questa affermazione possa essere adeguatamente adattata anche agli ambiti europeo ed italiano.
Ma Rutte non si ferma qui. Il tema principale del suo articolo è il seguente: egli sostiene che le persone non lavorano solo per guadagnarsi di che vivere e le comodità che piacciono loro. C’è di più: le persone desiderano che non solo il loro corpo sia vivo… Esse vogliono di più:
Voglione sentire il loro spirito coinvolto in tutto quello che fanno.
Egli crede che il cambiamento che stiamo vivendo a livello lavorativo vada in questa direzione: quella di non garantire soltanto la nostra sopravvivenza (in inglese, “survival”), ma anche il
nutrimento ed il supporto ai bisogni della nostra anima (ciò che lui definisce “livelihood”; letteralmente, questa parola significa “mezzi di sussistenza”, ma qui viene usata in senso più ampio).
Per meglio spiegare cosa intende ha inoltre sintetizzato la sua opinione per mezzo di tre punti, i cosiddetti Three stages of Livelihood. Cosa sono? È semplice:
1. You’re alive: anche se desideriamo coinvolgere il nostro spirito in tutto ciò che facciamo, questo non vuole dire che non desideriamo più mangiare, vestirci ed avere una casa. Tali necessità non spariscono. Ecco il motivo per il nome dato a questo punto.
2. Your aliveness: noi desideriamo che il lavoro sia uno dei mezzi per esprimere la nostra creatività e che ci dia il modo di esprimere la nostra vocazione. In altre parole, oltre ad essere vivi, vogliamo che la nostra vitalità si manifesti apertamente.
3. Their aliveness: questo avviene quando manifestiamo la nostra vitalità e creatività e la facciamo conoscere agli altri, attraverso i nostri prodotti, servizi, idee e quant’altro. Questo è il modo mediante il quale diventiamo un dono per noi stessi e per le persone con le quali entriamo in contatto.
Dare vita ad un futuro, non troppo lontano, in cui le cose funzioneranno così è un compito che i leaders e tutte le varie organizzazioni possono portare a termine.
Immaginate il vero e proprio piacere derivante dal lavorare in tali condizioni: meno facce tirate sul lavoro, meno stress, meno litigate con il partner, più tempo da dedicare alle persone amate, etc.
Certo, se guardiamo al passato ed al presente, le cose non sono andate e non stanno andando proprio così.
Ma, come diceva Rossella O’Hara in “Via col vento”: <>. E se ci pensate, domani è solo un giorno in più dopo oggi…
Note:
la prima parte di questo articolo è tratta dall’inizio del capitolo 2 della mia tesi di laurea, intitolata: “Andragogia nella formazione aziendale: gli approcci che valorizzano la diversità degli stili individuali.”
Se siete interessati, potete leggerne un riassunto sul sito della SDA (Scuola di Direzione Aziendale) dell’Università Bocconi, all’indirizzo http://www.sdabocconi.it/ticonzero/laformazionedegliadulti - Il titolo è: “La formazione degli adulti può fare da guida nel viaggio verso l’organizzazione a misura d’uomo?”; occorre però, per avere accesso alla versione integrale, abbonarsi (è gratuito).
(1)Si veda: Hirschhorn, L., The Primary Risk, Human Relations, vol. 52, n. 1, 1999, pag. 5-23, citato in: Marcic, D., God, Faith and Management Education, Journal of Management Education, vol. 24, n. 5, ottobre 2000, pag. 629-649.
(2) Si veda: Marcic, D., op. cit., pag. 629-630.
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