SVILUPPO SOSTENIBILE ALL’ITALIANA, ovvero, IL MERCATO DELL’ECOLOGIA
Ha senso di parlare di valore-ambiente in una società sempre più orientata a considerare come principale parametro-obiettivo il mercato e le sue leggi?
La risposta è ovvia. In questo tipo di società c’è certamente spazio per l’ambiente purché sia funzionale al mercato: se il progresso di un Paese deve essere misurato in base al consumo di energia ed alla produzione ed accumulazione di beni materiali, l’ambiente viene considerato un valore da tutelare solo se e in quanto contribuisce a questo “progresso” ed a questo tipo di sviluppo quantitativo; insomma, se entra nella logica del mercato.
Ben vengano, quindi, strumenti “ecologici”, come ecoaudit ed ecolabel, che agiscono nell’incremento delle vendite di prodotti, ben vengano le tasse ecologiche; ben venga, soprattutto, il business del disinquinamento. Purché, ovviamente, non si esageri; va benissimo vendere marmitte catalitiche e silenziatori ma è un sacrilegio pensare di ridurre la produzione di auto private. E così è avvenuto.
Dopo la “rivoluzione verde” negli anni ’80, con la crisi economico ed occupazionale, questa nostra società, strutturata per formare consumatori (e consenso) in batteria, con una sapiente e veloce operazione sociale e politica, ha ridotto l’ambiente, da valore fondamentale, a se’ stante ed alternativo, a semplice ed innocua patina con cui rafforzare i valori della economia di mercato.
Ormai, l’ambiente non conta più di per se’ ma solo se e in quanto crea occupazione, fa crescere i consumi (e il mercato), aumenta il dio Pil: soprattutto con un governo di “risanamento economico” modellato sui parametri di mercato imposti da Maastricht.
Non è certo un caso se oggi i sindacati non dimenticano ai di citare la tutela dell’ambiente, i cementificatori contro cui tuonava il povero Antonio Cederna sono diventati tutti stimabili industriali che anelano solo a tutelare l’ambiente attraverso la manutenzione e il “Sole-24 Ore” è il giornale che più presta attenzione alle notizie ambientaliste. E se qualcuno vuole capirne di più basta che legga il libro sugli “ecoindustriali” di Cianciullo e Lonardi dal titolo emblematico “far soldi con l’ambiente”.
A questo punto, parte del mondo ambientalista ha tentato di inserirsi in queSto contesto, utilizzando la stessa logica: ha adottato, cioè, la “tattica” di “coniugare” e “contaminare” l’ambiente con i valori economici dominanti, battendo soprattutto sulle opportunità occupazionali; fatto del tutto scontato nell’ambientalismo italiano, mai affetto da fondamentalismo, e da sempre attento alla relazione economia-ecologia-occupazione. In altri termini, si è pensato di rilanciare il valore-ambiente legandolo alle capacità economiche ed occupazionali con esso connesse; per cui un parco, ad esempio, va creato e difeso non per il suo valore di per se’ ma in quanto porta turismo ed occupazione. In realtà con questa “tattica” si è ottenuto l’effetto esattamente contrario a quello che era l’obiettivo dichiarato, in quanto ancora più la tutela dell’ambiente è diventata un accessorio dei valori di mercato; con la conseguenza, del tutto funzionale alla logica dominante, che, a contrario, l’ambiente non si deve tutelare se ciò non giova al mercato o non porta occupazione.
Fatto ancora più grave, chi voleva condizionare e “contaminare” è rimasto, a suo volta, molto spesso contaminato. Così gli ambientalisti “hanno imparato a dire di sì”, i nemici di sempre sono diventati i loro migliori alleati, e i convegni ecologisti si sono spesso ridotti a passerelle penose di inquinati ed inquinatori, tutti insieme appassionatamente. Per non parlare delle aberrazioni ambientaliste a livello locale. Con l’aggravante che questa “contaminazione” viene spesso lasciata gestire, attraverso la concessione di poltrone, appunto, da ambientalisti che sembrano aver smarrito il loro “realismo” politico.
E’ in questo contesto, peraltro, che va collocata la deludente esperienza, a mio avviso ormai conclusa, dei Verdi italiani dove hanno certamente giocato, come ulteriori aggravanti, le logiche ed i “valori” della politica istituzionale che hanno ben presto preso il sopravvento su chi pensava di creare un “non partito” di ambientalisti prestati alla politica. E così tutta la valenza “rivoluzionaria” del valore-ambiente è stata rapidamente, perfettamente e tranquillamente inglobata dal valore-mercato attraverso il passaggio dello “sviluppo sostenibile” all’italiana (spesso nelle varianti artificiose di “crescita sostenibile” e di “uso sostenibile”).
L’esempio più illuminante e recente è quello dei rifiuti. A qualsiasi persona di media intelligenza, infatti, è chiaro che la produzione di rifiuti è esattamente speculare alla produzione di merci; per cui è anche chiaro che, se si vuole ridurre la produzione di rifiuti, il primo passo consiste certamente nel ridurre la produzione di merci (e, quindi, i consumi). Ma questa scelta non è compatibile con una economia tutta di mercato e, quindi basata sulla crescita. Così è stata completamente aggirata ed ignorata dal nostro sistema il quale si è focalizzato su gli inceneritori finalizzati alla produzione di energia; il che vuol dire rendere auspicabile un aumento di merci e di consumi, quindi di rifiuti, per poter ricavare più energia (con cui produrre nuove merci). Anzi, quanto più rifiuti si producono, tanto più si contribuisce allo “sviluppo2 del Paese e dell’occupazione.
Diventa del tutto secondario che, in tal modo, si acceleri la distruzione delle risorse naturali e l’aumento dell’inquinamento (che cambia corpo ricettore, dal suolo con le discariche all’atmosfera con gli inceneritori).
E’ la stessa, identica opzione della rottamazione delle auto, da qualcuno spacciata come una “scelta ecologica”. Siamo passati dallo “sviluppo sostenibile” all’ecologia di mercato e stiamo rapidamente arrivando al mercato dell’ecologia.
Resta da capire dove abbiamo sbagliato. Probabilmente il più rilevante errore dell’ambientalismo – e non solo italiano – è stato quello di sottovalutare la forza e la capacità di assorbimento del modello economico-politico in cui viviamo. Ci siamo illusi che sarebbe bastato dire alcune evidenti verità sulla “sostenibilità” dello sviluppo per indurre ad un cambiamento di rotta. Abbiamo citato i dati impressionanti sulla corsa sfrenata verso l’esaurimento delle risorse naturali ed il deterioramento delle condizioni di vita; abbiamo dimostrato, cifre alla mano, che solo un taglio tra il 70% ed il 90% del flusso di energia e materiali nei decenni futuri può far fronte alla gravità della situazione; abbiamo dimostrato che occorre un immediato freno all’aumento demografico.
E’ bastato chiamarci “utopisti”, o, peggio, “catastrofismi” o, ancor peggio, “iettatori” per chiudere ogni dibattito sul tipo di sviluppo sostenibile. Non ci siamo accorti che, nel contesto sociale, guidato dalle realtà virtuali diffuse dai mass media, la grande maggioranza del popolo inquinato non è capace di immaginare alcuna alternativa a questo modo di vivere, produrre e morire. Anzi, ha perso la capacità di immaginare e pensare con la propria testa. Insomma, qualcuno può partecipare a qualche manifestazione o anche iscriversi a qualche associazione ambientalista; MA NON SERVE A NIENTE, SE NON DISCUTE LA MODIFICA DEGLI STILI DI VITA E DI SVILUPPO.
In questo quadro, la tutela dell’ambiente non può essere affidata alle leggi del mercato, finché non porranno limiti allo sviluppo quantitativo. Se non si capisce questa elementare “verità”, qualsiasi recupero di razionalità ed efficienza, “sostenibile” o “ambientalista”, si rivela solo un palliativo in quanto, a lungo termine, l’efficienza è una soluzione solo in una società in cui la crescita ha un limite.
Occorre, allora, cambiare strada e ricominciare a parlare tra persone, riscoprendo e facendo riscoprire l’esistenza di valori diversi da quelli oggi imposti. Come giustamente nota Wolfang Sachs, “tempo liberamente disponibile e reddito minimo sono le colonne portanti di un nuovo ordine di solidarietà e di una economia indifferente alla crescita” ma tesa alla normalizzazione dei consumi. Non si tratta affatto di fare una rivoluzione: “predicando di normalizzare il livello dei consumi non si vuole suggerire la contrazione dell’attuale consistenza industriale, perché anzi, in molti settori si rende necessaria una ulteriore espansione” onde creare le condizioni per “un sistema di vita normalizzato”; purché sia chiaro che “il nostro obiettivo non è l’aumento del consumo ma la creazione di un degno standard di valori….. e il successo della vita non sarà più giudicato secondo la quantità di mediocri prodotti che siamo riusciti a sfornare, bensì da quelli che avremo conseguito in quanto amanti, compagni, genitori, in quanto uomini dotati di mente e di cuore…” Occorre riscoprire “la relazione di fondo tra austerità ed edonismo….. Chiunque voglia tenere la propria testa al di sopra dell’alluvione di beni, non ha altra scelta che essere un consumatore selettivo; e chiunque voglia rimanere padrone dei suoi desideri, scoprirà il piacere di non cogliere tutte le occasioni per comprare qualcosa”. (Sachs).
E’ preliminare riscoprire il valore-ambiente di per sé e rendersi conto che un valore non deve essere necessariamente “utile” o monetizzabile: la vita, ad esempio, (come un parco, una barriera corallina o un ghiacciaio) ha un valore unico ed immensurabile di per sé, anche se non crea occupazione e non fa “fare soldi. E così è per un tramonto, per un paesaggio, per una emozione. Occorre passare dalla quantità alla qualità, dall’avere all’essere.
da Discorsi nell’Arca – (parte seconda) – 1998
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