DECRESCITA O BARBARIE
intervista a Serge Latouche
Che tipo di relazione esiste tra l'idea della decrescita e la critica al concetto di sviluppo?
Sviluppo e crescita sono due parole che si usano solitamente in modo indistinto, benché abbiano diverse sfumature. Generalmente, quando parliamo di “sviluppo” pensiamo ai paesi del Sud, mentre quando parliamo di “crescita” ci riferiamo ai paesi del Nord, pero in entrambi i casi è sempre la stessa logica di accumulo, di utilità. Dopo la caduta del muro di Berlino, si è messa in marcia quella che chiamiamo la mondializzazione, ossia, la mercificazione del mondo: il mercato unico con un pensiero unico. E allora, in quel momento, lo sviluppo, come un progetto del Nord verso il Sud, perde il suo senso dal momento che c'è una sola economia di mercato: è la logica del mercato ad essere uguale da tutte le parti.
E curiosamente, lo sviluppo non scompare dall'orizzonte: riprende vita con l'aggiunta dell'aggettivo “sostenibile, perché allo stesso tempo il mondo si è unito però è stato raggiunto dalla crisi ecologica. E per affrontare la crisi ecologica senza modificare fondamentalmente il funzionamento del sistema incontriamo questa strategia verbale, questa straordinaria invenzione linguistica dello “sviluppo sostenibile”, un bell'ossimoro. Per opporci allo sviluppo sostenibile, che si converte nell'ideologia dominante della globalizzazione, abbiamo utilizzato questo slogan della “decrescita”. Questo concetto indica bene che ciò che mettiamo in discussione è la società della crescita, la quale deve tornare a mettersi in gioco per non cadere nella trappola di “altra crescita”, come gli esperti dello sviluppo cadono nella trappola di “altro sviluppo”.
Quando parliamo di decrescita si è soliti pensare che si tratti di investire nel problema ecologico senza prestare sufficiente attenzione alle disuguaglianze sociale. È così?
No, la società della crescita è una società di disuguaglianze. La dinamica della crescita è la dinamica delle disuguaglianze sociali. È sempre stata legata a una dinamica di disuguaglianze sociali, in parte occultate nel Nord per 30-40 anni a causa dell'estrazione massiccia di risorse naturali di paesi lontani, però adesso possiamo vedere chiaramente che, a partire dalle prime crisi del 1974-75, la dinamica delle disuguaglianze non è mai stata tanto forte.
Allora, questa decrescita dovrebbe prodursi nello stesso modo nel Sud e nel Nord del Mondo? Dovremo decrescere allo stesso ritmo nei diversi paesi del Nord?
Chiaramente no. Dietro lo slogan della decrescita e la sua corrispondente rottura con la società della crescita sta l'apertura in positivo a progetti estremamente diversi che semplicemente hanno in comune la direzione verso una società austera, progetti per una società senza sprechi, di sottoconsumo, etc. Però essere una società austera per un paese africano vuol dire produrre e consumare di più, perché non sono attualmente in una situazione di austerità, ma al di sotto di questa. Per noi, è evidente che dobbiamo produrre e consumare meno a seconda della realtà di ogni paese.
È evidente che il progetto di una società della decrescita è un'etichetta che costituisce ancora un progetto da definire. È un progetto essenzialmente politico. Spetta alla società nel modo più democratico possibile, decidere quello che vuole fare e quello che vuole produrre e consumare, rispettando sempre gli equilibri della natura. In questo senso esiste un enorme terreno di sviluppo.
Quali linee possono definire la pratica della decrescita? Potrebbe trattarsi di un “ keynesianismo verde” o di ‘New Deal Verde”?
Assolutamente no. Perché il “New Deal Verde” è un altro ossimoro, vale a dire, il desiderio di non voler uscire dalla logica del sistema, di tornare a rattoppare il sistema. Possiamo precisare quelli che chiamerei “i fondamenti della società della decrescita” in negativo rispetto alla società della crescita. È quello che ho cercato di formalizzare attraverso il circolo virtuoso delle otto R: rivalorizzare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, relocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi consigli ci offrono un orizzonte abbastanza ampio, però in seno a questo orizzonte la tappa ulteriore dipende da dipende da ogni società. Il punto è di quale programma politico concreto ci dotiamo per avanzare verso l'orizzonte di una società di anticrescita o di non crescita e di democrazia ecologica.
In un contesto di crisi, la parola “decrescita” può essere associata alla perdita di impiego.
È vero, però in realtà è il contrario. La decrescita, a differenza della crescita negativa o della crisi, consiste precisamente nel condannare, in modo obbligatorio, la distruzione del pianeta per creare posti di lavoro. Attraverso la decrescita, al contrario, creiamo impieghi salvando il pianeta, non solo perché lo proteggiamo, ma anche perché al ridurre il nostro consumo, dovremo produrre meno e producendo meno, potremo lavorare meno. Così, lavoriamo meno, ma lavoriamo tutti. La prima cosa che dobbiamo ripartire è il lavoro, di fronte al sistema totalmente assurdo in cui oggi viviamo, dove anche in Francia abbiamo soppresso le 35 ore e i lavoratori fanno 40,50 e anche 60 ore, mentre altre persone che vorrebbero lavorare almeno un po' non possono farlo.
D'altra parte, altre proposte della decrescita, come il ritorno ad un'agricoltura tradizionale ed ecologica porterebbero alla creazione di milioni di impieghi in questo settore. Anche l'utilizzo di energie rinnovabili potrà crearne, allo stesso modo il settore della riparazione e del riciclaggio. Alcuni pensano addirittura che arriveremo ad una situazione invertita in cui si assisterà a troppe possibilità di impiego ma ad una mancanza di manodopera, perché evidentemente, non utilizzando più lo straordinario potenziale energetico del petrolio (non bisogna dimenticare che un bidone da 30litri di petrolio equivale a cinque anni di lavoro per un operaio), bisognerà lavorare di più. Pero non dovremmo lavorare molto di più, perché ridurremo le nostre necessità, che cercheremo di soddisfare senza troppo lavoro perché è molto importante non lavorare troppo.
Lavorare troppo fa male.
L'idea della decrescita sembra che stia attraendo l'attenzione di una fetta di popolazione sempre più ampia.
Questo l'ho potuto constatare io stesso, è un fatto, anche se siamo partiti dal nulla. Il motivo è che, come dicevano Marx ed Engels, i fatti son testardi. Ci scontriamo con veri problemi e, come diceva Lincoln, si può ingannare a qualcuno tutto il tempo e a tutti per qualche tempo, ma non a tutti per tutto il tempo: in questo senso, per esempio, tutti i giorni leggiamo notizie sul cambiamento climatico, la desertificazione, etc.
Possiamo continuare dicendo allegramente che la scienza risolve tutti i problemi, però possiamo constatare che la scienza non ha risolto nulla rispetto queste questioni. Pertanto le persone si stanno facendo ogni giorno più domande e cercano alternative perché son preoccupate per sé stesse, per i propri figli, etc. E quando vedono tutto ciò che succede e sentono parlare della decrescita dicono a sé stessi: “In fondo queste persone hanno ragione: è chiaro che non possiamo crescere infinitamente in un paese che è finito, ciò che propongono è di senso comune”. Queste sono reazioni con le quali abbiamo a che fare tutti i giorni.
Carlos Taibo ha appena pubblicato “In difesa della decrescita”, in cui avverte seriamene sul pericolo che possa sorgere una specie di “ecofascismo”. Le opzioni si limitano pertanto a decrescita e barbarie, come recita il titolo del libro di Paul Aries?
Temo che sia così. Le opzioni sono: decrescita, fine del mondo e barbarie. E di fatto non sono opzioni assolutamente esclusive: la barbarie può essere l'anticamera della fine o la minaccia della fine può portare alla barbarie. Perché la gestione di un ambiente degradato da parte del capitalismo si può realizzare solo mediante una trasformazione del capitalismo in una forma di autoritarismo estremamente violento, duro, che di fatto è stato abbastanza esplorato dalla fantascienza.
Tradotto dal sito spagnolo El Ciudadano
Febbraio 2010
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