LA MISURA DELL'ANIMA
di Gianfranco Bologna
In questi giorni di feste natalizie e del Capodanno ha fatto grande scalpore la notizia dei 180 quintali di pane buttati via ogni giorno nella sola città di Milano. Per qualche giorno quotidiani e media si sono tutti scatenati in riflessioni e cronache di vario tipo "scoprendo" gli immensi sprechi che anche, nel campo alimentare, la nostra società dei consumi provoca, passando poi, come sempre avviene in questi casi, nel giro di pochi giorni, ad altro. Eppure da tempo disponiamo di tante informazioni sull'enorme spreco che le nostre società consumistiche provocano, anche nel campo dell'alimentazione. E proprio nel 2009, anche in Italia, è stato pubblicato il bel libro di Tristram Stuart "Il cibo che buttiamo, che distruggiamo, che potremmo utilizzare" edito da Bruno Mondadori (vedasi il sito di Stuart www.tristramstuart.co.uk).
Come abbiamo potuto constatare dal rapporto 2009 sull'insicurezza alimentare nel mondo, curato dalla FAO, gli esseri umani denutriti hanno raggiunto la cifra di un miliardo e 20 milioni. I 40 milioni di tonnellate circa di cibo che viene buttato, ogni anno, dalle famiglie statunitensi potrebbero ovviamente soddisfare i fabbisogni alimentari di tutte queste persone. Da anni esistono tante interessanti iniziative che cercano di trasformare lo spreco in risorsa, come la validissima iniziativa italiana del Last Minute Market, animata dal preside della facoltà di agraria dell'Università di Bologna, Andrea Segrè, (vedasi il sito www.lastminutemarket.it ) che rende possibile il recupero delle merci invendute nei supermercati che non hanno più valore commerciale, ma sono ancora idonee per il consumo.
I beni raccolti, mediante il meccanismo del dono, sono resi disponibili ad enti e associazioni che offrono assistenza a persone in condizioni di disagio sociale. In tal modo si coniugano a livello territoriale le esigenze delle imprese for profit e degli enti no profit promuovendo un'azione di sviluppo sostenibile locale, con ricadute positive a livello ambientale, economico e sociale. Il dramma dello spreco del cibo costituisce un altro, ulteriore ed incredibile segnale dell'insostenibilità delle nostre società consumistiche. L'interessantissimo volume degli epidemiologi britannici Richard Wilkinson e Kate Pickett "La misura dell'anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici", edito nel 2009 da Feltrinelli, è stato definito il libro più importante dell'anno ed ha scatenato un ampio dibattito sul web.
Gli autori del volume hanno illustrato una tesi molto chiara supportandola con numerose evidenze statistiche. Se si considerano i paesi ricchi, situati grosso modo tra il reddito pro capite del Portogallo e degli Stati Uniti, quelli in cui il reddito è distribuito in modo più diseguale, mostrano sistematicamente risultati peggiori per una serie di indicatori sociali di benessere/malessere. Per citare i principali: disagio mentale (inclusa la dipendenza da alcol e droghe); speranza di vita, mortalità infantile e molte malattie; obesità; rendimento scolastico di bambini/e e ragazzi/e; gravidanze in adolescenza; omicidi; tassi di incarcerazione; mobilità sociale; fiducia/sfiducia nel prossimo e nelle istituzioni. Secondo Wilkinson e Pickett nelle società moderne si osserva uno straordinario paradosso: pur avendo raggiunto l'apice del progresso tecnico e materiale dell'umanità, siamo affetti da ansia, portati alla depressione, preoccupati di come ci vedono gli altri, insicuri delle nostre amicizie, spinti a consumare in continuazione e privi di una vita di comunità degna di questo nome. In assenza del contatto sociale rilassato e della gratificazione emotiva di cui abbiamo bisogno, cerchiamo conforto negli eccessi alimentari, nello shopping e negli acquisti ossessivi, oppure ci lasciamo andare all'abuso di alcol, psicofarmaci e sostanze stupefacenti.
Per giungere a queste conclusioni, Wilkinson e Pickett hanno studiato, da diversi decenni, i dati che mostrano come la crescita economica abbia quasi esaurito i suoi effetti benefici per le nostre società. Per migliaia di anni, il modo più efficace per migliorare la qualità della vita umana è stato quello di innalzare il tenore della vita materiale. Quando c'era appena di che sfamarsi, gli anni buoni erano quelli dell'abbondanza. Ma per la maggior parte degli abitanti dei paesi agiati, le difficoltà della vita ormai non consistono più nel procacciarsi il cibo, cercare acqua potabile e mantenersi al caldo. Molti di noi, al giorno d'oggi, vorrebbero poter mangiare di meno anziché di più, e, per la prima volta nella storia, nei paesi dell'Occidente i poveri sono (in media) più grassi dei ricchi.
Da qui deriva la riflessione più importante contenuta nel volume e cioè che la crescita economica, a lungo il grande motore del progresso, nei paesi benestanti ha terminato in larga parte il suo lavoro. Gli indicatori del benessere e della felicità non crescono più di pari passo con il reddito nazionale; anzi, all'aumentare della ricchezza materiale, le società opulente hanno visto aumentare l'incidenza di ansia, depressione e numerosi altri problemi sociali. Le popolazioni dei paesi sviluppati sono giunte al termine di un lungo percorso storico. Proprio per questo dovremmo reagire e, invece di rassegnarci all'idea di dover convivere con livelli di consumismo, individualismo e materialismo che vanificano qualsiasi tentativo di sviluppare sistemi economici sostenibili, dovremmo riconoscere che queste non sono espressioni immutabili della natura umana, ma riflettono piuttosto le caratteristiche delle società in cui viviamo, variando persino da una ricca democrazia di mercato all'altra.
Andando alla radice del problema, ridurre la diseguaglianza significa spostare l'ago della bilancia dal consumismo egoistico motivato dalla competizione per lo status, che crea divisioni nella società, verso una società più integrata ed inclusiva. Wilkinson e Pickett ricordano che la spinta all'uguaglianza può aiutarci a sviluppare quello spirito pubblico e quella volontà di cooperazione di cui abbiamo bisogno per risolvere i problemi che ci minacciano tutti. Come sapevano i leader in tempi di guerra, affinché la società unisca le forze, le politiche devono essere considerate giuste e le disparità dei redditi devono essere ridotte. Gli autori si domandano quindi come sia possibile creare la volontà politica necessaria per il rinnovamento della società in cui viviamo. Per convincere il pubblico a cambiare opinione, essi ritengono si debba far leva sui dati che mostrano che nelle società più inclini all'uguaglianza si vive meglio. Molti credono fermamente nell'uguaglianza e nella giustizia, ma spesso queste convinzioni vengono taciute per timore che non siano condivise da altri.
Il convincimento di Wilkinson e Pickett che condivido in pieno, è che le società moderne dipenderanno sempre più dalla capacità di essere comunità creative, adattabili e piene di inventiva, ben informate e flessibili, in grado di rispondere generosamente le une alle altre e ai bisogni ovunque essi sorgano. Queste sono le tipiche caratteristiche non di società indebitate verso i ricchi, in cui prevalgono le insicurezze di status, ma di popolazioni abituate alla collaborazione e al rispetto reciproco. Poiché vogliamo che la nuova società cresca e si sviluppi all'interno della vecchia, i nostri valori e il nostro modo di lavorare dovranno essere coerenti con le iniziative tese a dar vita alla nuova società. Ma dobbiamo impegnarci anche per cambiare i valori comuni, di modo che il consumo ostentato non susciti più ammirazione e invidia, ma venga visto piuttosto come parte del problema, un segnale dell'avidità e dell'ingiustizia che danneggiano la società ed il pianeta.
Richard Wilkinson e Kate Pickett hanno dato vita ad un interessantissimo sito web che invito tutti a visitare e che è
www.equalitytrust.org.uk.
Fonte: www.greenreport.it
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