di Lierre Keith
Non è stato un libro facile da scrivere. E per molti di voi non sarà un libro facile da leggere. Lo so. Sono stata una vegana per quasi vent’anni. Conosco bene le ragioni che mi hanno portato a adottare una dieta estrema, e sono onorevoli, perfino nobili. Ragioni quali la giustizia, la compassione, una bramosia disperata e onnicomprensiva di mettere a posto il mondo. Di salvare il pianeta: gli ultimi alberi che testimoniano il trascorrere del tempo, i pezzi di natura selvaggia che ancora consentono la sopravvivenza di specie in via d’estinzione, silenziose nelle loro pellicce e piume. Di proteggere chi è vulnerabile e senza voce. Di nutrire chi ha fame. E da ultimo, di non partecipare all’orrore dell’allevamento intensivo.
Queste passioni politiche hanno avuto origine da una fame così profonda da sconfinare nella spiritualità. O almeno questo era il mio sentire, e non è cambiato. Voglio che la mia vita sia un grido di battaglia, una zona di guerra, una freccia puntata e scagliata verso il cuore della dominazione: la società patriarcale, l’imperialismo, l’industrializzazione, ogni sistema di potere sadico. Se queste immagini marziali vi disturbano, posso riformulare il concetto: voglio che la mia vita, il mio corpo, sia un luogo nel quale la terra è rispettata, non divorata; dove non c’è posto per il sadismo, e dove la violenza si ferma. E voglio che il mangiare – il primo degli accudimenti – sia un atto che dia forza anziché uccidere.
Questo libro è stato scritto per portare avanti queste passioni, questa fame.
Non è un tentativo di deridere chi sostiene i diritti degli animali, né chi desidera un mondo più gentile. Al contrario, è il tentativo di rendere omaggio ai nostri più profondi desideri di vivere in un mondo più giusto. Questi desideri – di compassione, di sostenibilità e di una distribuzione più equa delle risorse – non trovano una risposta nella filosofia o nella pratica del vegetarianismo. Siamo stati fuorviati. I Pifferai Magici vegetariani hanno le migliori intenzioni.
Anticipo qui quanto ripeterò in seguito: tutto quello che sostengono sull’allevamento intensivo è vero. È crudele, dispendioso e distruttivo. Niente in questo libro è finalizzato a giustificare o a promuovere le pratiche adottate dalla produzione industriale di cibo, a nessun livello. Ma il primo errore consiste nel ritenere che l’allevamento intensivo – una pratica utilizzata da meno di cinquant’anni – sia l’unico modo di allevare gli animali.
I calcoli relativi al consumo di energia, alle calorie consumate, alla quantità di esseri umani non nutriti, sono tutti basati sul concetto che gli animali mangino i cereali. Si possono anche nutrire gli animali con i cereali, ma non è questa l’alimentazione con la quale si sono evoluti. I cereali non esistevano fintanto che l’uomo non ha imparato a coltivare le erbe annuali, al massimo 12.000 anni fa, mentre l’uro – il progenitore selvatico della mucca domestica – era già presente sulla terra da due milioni di anni.
Per la maggior parte della nostra storia gli erbivori non sono stati in competizione con gli esseri umani. Mangiavano quello che non possiamo utilizzare come cibo – la cellulosa – e la convertivano in sostanze di cui possiamo nutrirci: le proteine e i grassi. I cereali incrementano notevolmente la velocità di crescita del bestiame (c’è un motivo per cui viene utilizzata l’espressione “ingrassato a granoturco”) e la produzione di latte delle mucche. Ma questo modo di alimentare gli animali finirà con l’ucciderli. Il delicato equilibrio batterico del rumine di una mucca diventa acido e si infetta. Le galline sviluppano la steatosi epatica se alimentate esclusivamente a cereali, e non hanno bisogno di alcun cereale per sopravvivere. Le pecore e le capre, anch’esse ruminanti, non dovrebbero mai nemmeno entrare in contatto con quegli alimenti.
Questo malinteso nasce dall’ignoranza, un’ignoranza che percorre in lungo e in largo il mito vegetariano, coinvolge l’essenza dell’agricoltura e quella della vita stessa. Noi siamo cittadini industrializzati e non conosciamo le origini del nostro cibo. Ciò include i vegetariani, malgrado essi sostengano di possedere la verità. Me compresa, per vent’anni. Chiunque mangiasse carne commetteva un errore: solo io avevo capito davvero come stavano le cose. Sicuramente la maggior parte delle persone che si nutrono di carne proveniente da allevamenti intensivi non si è mai domandata che cosa sia morto, e come.
Ma, francamente, lo stesso vale per la maggior parte dei vegetariani. La verità è che l’agricoltura è l’attività più distruttiva che gli esseri umani abbiano imposto al pianeta, e continuare a diffonderla non ci salverà. La verità è anche che l’agricoltura comporta la completa distruzione d’interi ecosistemi. La verità è che la vita non è possibile senza la morte, e che – indipendentemente da ciò che mangiate – qualcuno deve morire per alimentarvi. Voglio un resoconto completo che vada ben oltre ciò che di morto c’è nel vostro piatto.
Voglio essere a conoscenza di ogni cosa che è deceduta durante l’intero procedimento, ogni cosa che è stata uccisa per portare quel cibo sulla vostra tavola. Questa è la domanda più radicale, ed è la sola domanda che ci possa portare alla verità. Quanti fiumi sono stati interrotti da dighe o prosciugati, quante praterie arate e quante foreste abbattute, quanto humus1 è stato ridotto in polvere ed è volato via? Voglio notizie di tutte le specie – non solo degli individui ma delle intere specie – i chinook,2 il bisonte, il passero locustella, i lupi grigi.
E voglio di più che il semplice conteggio di quanti ne sono morti o andati via. Li rivoglio indietro. Il mangiare soia non li farà tornare, per quanto serio e onesto possa essere chi ve l’ha detto. Il 98% delle praterie americane è scomparso per lasciar posto a monocolture di cereali annuali. In Canada gli aratri hanno distrutto il 99% dell’humus originario. In effetti, la scomparsa dell’humus «rivaleggia col riscaldamento globale quanto a pericolo ambientale». Quando la foresta pluviale viene abbattuta per alimentare il bestiame, i progressisti ne sono scandalizzati, sono consapevoli e pronti al boicottaggio. Ma il nostro attaccamento al mito vegetariano ci rende silenziosi, inquieti, e in definitiva immobilizzati, quando il responsabile è il grano, e la vittima la prateria.
Abbiamo abbracciato come un articolo di fede il vegetarianismo pensando che fosse la strada verso la salvezza, per noi e per il pianeta. Com’è possibile che risulti contemporaneamente distruttivo? Dobbiamo deciderci ad affrontare le risposte. Ciò che si profila tra le ombre della nostra ignoranza, e del nostro rifiuto, è una critica alla civilizzazione stessa. Il punto di partenza può anche essere ciò che mangiamo, ma la conclusione dev’essere un intero modo di vivere, un’organizzazione globale del potere, e non una piccola quantità di attaccamento personale a esso. Mi ricordo di un giorno in quarta elementare quando miss Fox scrisse due parole sulla lavagna: civilizzazione e agricoltura.
Me lo ricordo per il tono della sua voce, la solennità delle parole, la spiegazione che rasentava la retorica. Si trattava di qualcosa di Importante, con la i maiuscola, e io avevo capito. Tutto ciò che di buono c’è nella cultura umana ha avuto origine dall’agricoltura: tutta la tranquillità, la grazia, la giustizia. La religione, la scienza, la medicina e l’arte erano nate, e potevano essere vinte le battaglie senza fine contro la fame, la malattia e la violenza; e tutto ciò perché gli esseri umani avevano trovato il modo di far crescere il proprio cibo. La verità è che l’agricoltura ha provocato una perdita netta nell’ambito dei diritti e della cultura umani: schiavitù, imperialismo, militarismo, divisioni di classe, fame cronica e malattie.
«Il vero problema, quindi, non è chiarire come mai alcuni popoli siano stati più lenti di altri nell’adottare l’agricoltura, serve piuttosto capire perché sia stata intrapresa, considerato che è così ovviamente brutale» scrive Colin Tudge della London School of Economics. L’agricoltura è anche ri-sultata devastante per le altre creature con le quali condividiamo la terra, e in definitiva per i sistemi di supporto della vita del pianeta stesso. Molte sono le questioni in gioco.
Se desideriamo un mondo sostenibile, dobbiamo essere disposti a esaminare tutte le relazioni di potere che costituiscono il mito sul quale si basa la nostra cultura. Dovessimo dimenticare qualche aspetto saremmo destinati a fallire. Porsi domande a questo livello è difficile per la maggioranza delle persone. In questo caso, il conflitto emotivo inevitabile quando si oppone resistenza nei confronti di qualunque egemonia è aggravato dalla nostra dipendenza dalla civilizzazione, e dall’individuale impotenza ad arrestarla. La maggior parte di noi non avrebbe alcuna probabilità di sopravvivere se le infrastrutture industriali dovessero venir meno domani. E la nostra consapevolezza è parimenti ostacolata dalla nostra impotenza.
Non troverete nell’ultimo capitolo una lista delle Dieci Semplici Cose da fare perché, in tutta onestà, non esistono dieci semplici cose che salveranno la terra. Non c’è una soluzione individuale. C’è piuttosto una complessa rete di modifiche gerarchiche, vasti sistemi di potere che devono essere affrontati e demoliti. Possiamo non essere d’accordo su quale sia il modo migliore per farlo, ma dobbiamo farlo, se vogliamo che la terra abbia una qualche possibilità di sopravvivere.
In definitiva tutta la determinazione di questo mondo risulterà inutile in assenza di sufficienti informazioni per tracciare una rotta percorribile, sia personalmente sia politicamente. Uno dei miei obiettivi nello scrivere questo libro è di fornire tali informazioni. La grande maggioranza della popolazione degli Stati Uniti non produce cibo, e tanto meno lo caccia o lo raccoglie.6 Non abbiamo modo di renderci conto di quanta morte sia contenuta in una porzione di insalata, in una ciotola di frutta o in un piatto di carne. Abitiamo in ambienti urbani, nell’ultimo sussurro delle foreste, migliaia di chilometri lontani dai fiumi devastati, dalle praterie, dalle paludi, e da milioni di creature che sono morte per garantirci le nostre cene. Non abbiamo neppure idea di quali domande porci per scoprirlo.
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Nel suo libro Long Life, Honey in the Hearth, Martin Pretchel scrive del popolo Maya e del loro concetto di kas-limaal, che può essere tradotto approssimativamente come «indebitamento reciproco, contributo reciproco», «Il sapere che ogni animale, pianta, persona, vento e stagione è in debito con i frutti di qualunque altro essere vivente è una conoscenza adulta. Essere senza debiti significa che non vuoi essere parte della vita, e che non vuoi crescere ed essere adulto» spiega uno degli anziani a Pretchel.
L’unica strada per uscire dal mito vegetariano passa attraverso la ricerca del kas-limaal, della conoscenza adulta. Questo è un concetto di cui abbiamo bisogno, soprattutto coloro tra noi che hanno a cuore le ingiustizie. Io so di averne avuto bisogno. Nella storia della mia vita, il primo morso di carne dopo i miei vent’anni di privazione segnò la fine della mia giovinezza, il momento nel quale ho cominciato ad assumere le responsabilità dell’età adulta. È stato il momento in cui ho smesso di combattere contro il concetto di base: per qualcuno che vive, qualcun altro deve morire.
Nell’accettazione di questo dato di fatto, con tutta la sofferenza e la pena che comporta, è contenuta la possibilità di scegliere una via differente, una via migliore. Gli allevatori consapevoli hanno un approccio molto diverso da quello degli scrittori nel condurci lungo la strada che dalla distruzione porta alla sostenibilità. Questi allevatori agiscono disponendo di informazioni completamente differenti. Ho sentito attivisti vegetariani sostenere che un acro di terra8 è sufficiente per due sole galline. Joel Salatin, uno dei Grandi Sacerdoti dell’allevamento sostenibile – che alleva veramente galline – sostiene che il numero reale è di 250 per acro.9 A chi preferite credere? Quanti di noi ne sanno abbastanza da poter avere anche solo un’opinione?
Frances Moore Lappé afferma che ci vogliono da 5,5 a 7,2 chilogrammi di cereali per ogni 450 grammi di carne.10 Invece, Joel Salatin alleva bestiame senza usare affatto i cereali, facendo ruotare i ruminanti su pascoli dove crescono spontaneamente molte varietà di erbe perenni, contribuendo così – anno dopo anno – alla formazione di nuovo humus.
Noi che apparteniamo alle culture urbane industrializzate non abbiamo nessun rapporto con i cereali, le galline, le mucche, e tanto meno con l’humus. Non abbiamo le basi, fondate sull’esperienza, per controbattere alle argomentazioni dei vegetariani per motivi politici. Non abbiamo alcuna idea di cosa si nutrano le piante, gli animali o il terreno, e in quali quantità. Il che significa che non abbiamo la più pallida idea di cosa noi stessi stiamo mangiando. Affrontare le verità relative all’allevamento intensivo – che comporta un trattamento degli animali crudele, e un pesante pedaggio ambientale – è stato per me, all’età di 16 anni, un fatto di profonda importanza.
Sapevo che la terra stava morendo. Era un’emergenza giornaliera contro la quale mi sarei battuta per sempre. Sono nata nel 1964. Il silenzio senza vita e l’annuale rinascita della natura erano per me concetti inseparabili. L’inferno era qui, nelle raffinerie di petrolio del Nord del New Jersey, nello sviluppo tentacolare dell’asfalto nelle periferie, nella crescente ondata di esseri umani che stava sommergendo il pianeta. Ho pianto con Iron Eyes Cody, desiderato ardentemente la sua canoa silenziosa e un continente incontaminato ricco di fiumi e paludi, uccelli e pesci. Mio fratello e io ci arrampicavamo su un vecchio melo selvatico nel parco locale, e fantasticavamo su come avremmo potuto comprare un’intera montagna. Nessun altro era ammesso, non servivano discussioni. Chi avrebbe potuto vivere in quel posto? Gli scoiattoli, era la sola risposta che avrei potuto fornire.
Lettore, non ridere. Non considerando Bobby, il nostro criceto, gli scoiattoli erano gli unici animali che avessi mai visto. Mio fratello, dando sfogo alla sua mascolinità, cominciò a torturare gli insetti e a tirare con la fionda ai passeri. Io divenni vegana. Sì, ero una bambina particolarmente sensibile. La mia canzone preferita a cinque anni – e qui siete autorizzati a ridere – era Those Were the Days di Mary Hopkin. Per quale tragico e romantico passato avrò mai potuto piangere all’età di cinque anni? Ma quella canzone era così triste, così intensa: potevo ascoltarla in continuazione fino a ritrovarmi esausta per il gran piangere.
D’accordo, è buffo. Ma non posso ridere del dolore che provavo per essere una testimone impotente della distruzione del mio pianeta. Quello era un fatto reale, e mi opprimeva. E i vegetariani politici mi offrirono un conforto irresistibile. Senza alcuna comprensione della natura dell’agricoltura, della natura della natura o – in definitiva – della natura della vita stessa, non avevo alcun modo per sapere che, per quanto oneste fossero le loro motivazioni, la ricetta proposta conduceva alla stessa distruzione che desideravo ardentemente bloccare.
Questo genere di motivazioni, abbinate alla mancanza di adeguata conoscenza, sono proprie del mito vegetariano. Per due anni, dopo essere tornata a mangiare carne, mi sentii obbligata a seguire le conversazioni tra vegani sulla rete. Non so dire perché. Non stavo cercando uno scontro. Non ho mai scritto nulla di mio. Molte sottoculture piccole e appassionate sono pervase da elementi che rasentano il culto, e il veganesimo non fa eccezione. È possibile che questo mio impulso fosse in relazione col mio stato confusionale: spirituale, politico, personale.
Forse stavo tornando a visitare il luogo dell’incidente: era qui che avevo distrutto il mio corpo. Oppure mi ponevo delle domande, e volevo capire se ero in grado di tener testa alle risposte che una volta avevo convintamente condiviso, risposte che erano sembrate corrette, mentre adesso apparivano vuote. O forse non ne conosco il perché. Questo mi lasciava ansiosa, arrabbiata e disperata ogni volta. Un intervento in particolare segnò un punto di svolta. Un vegano propose la sua idea di prevenire che gli animali fossero uccisi, non dagli esseri umani ma dagli altri animali.
Qualcuno avrebbe dovuto costruire una recinzione nel mezzo del Serengeti e dividere così i predatori dalle prede. Uccidere è sbagliato, e nessun animale dovrebbe mai morire; quindi i grossi felini e i canidi selvatici dovrebbero essere confinati da una parte, mentre gli gnu e le zebre dovrebbero vivere dall’altra. Costui sosteneva di sapere che i carnivori sarebbero stati bene perché non avevano bisogno di essere tali. È una menzogna messa in giro dall’industria della carne.
Lui stesso aveva visto il proprio cane mangiare l’erba, e quindi i cani – diceva – possono vivere di erba. Nessuno fece obiezioni. Anzi, altri si accodarono. «Anche il mio gatto mangia l’erba» scrisse una donna piena di entusiasmo. «Anche il mio lo fa!» aggiunse qualcun altro. Tutti concordavano sul fatto che erigere una recinzione sarebbe stata la soluzione per evitare la morte degli animali. È bene notare che il luogo in cui si sarebbe dovuto realizzare questo progetto salvifico era l’Africa.
Nessuno fece menzione del fatto che sia i carnivori sia i ruminanti sono stati fatti sparire dalle praterie del Nord America per far posto alle coltivazioni dei cereali di cui si nutrono i vegetariani. Tornerò sull’argomento nel capitolo 3. Ne sapevo abbastanza per capire quanto ciò fosse folle. Ma nessun altro in quel contesto era stato in grado di intravedere qualche errore in questo schema. Quindi, partendo dal presupposto che molti lettori manchino delle conoscenze che servono per giudicare questo piano, mi accingo ad accompagnarvi in questa critica.
I carnivori non sono in grado di sopravvivere nutrendosi di cellulosa. È possibile che occasionalmente mangino erba, ma ne fanno un uso medicinale, solitamente come purgante per liberare dai parassiti il loro apparato digerente. I ruminanti, invece, si sono evoluti per mangiare erba. Dispongono di un rumine (da cui deriva il termine ruminante), il primo di una serie di stomaci che agiscono da contenitori per la fermentazione.
Ciò che effettivamente avviene all’interno di una mucca, o di una zebra, è che i batteri mangiano l’erba, e gli animali mangiano i batteri. I leoni, le iene e gli esseri umani non dispongono dell’apparato digerente dei ruminanti. In realtà, dai nostri denti fino al retto, siamo fatti per mangiare carne.
Non abbiamo alcun meccanismo che ci consenta di digerire la cellulosa. E quindi, dalla parte della recinzione dove sono relegati i carnivori, tutti gli animali saranno destinati alla fame. Alcuni potranno sopravvivere più a lungo di altri, e costoro finiranno i loro giorni come cannibali. I saprofagi potranno godere di una festa da Martedì Grasso, ma – quando tutte le ossa saranno state ripulite – patiranno la fame anche loro. E il cimitero non si ferma qui: senza gli erbivori che brucano l’erba, la terra finirà per diventare un deserto. Perché? Perché in assenza degli erbivori che mantengono livellati i campi, le piante perenni crescono e mettono in ombra la propria base.
In un ambiente fragile quale il Serengeti, la decomposizione è prevalentemente fisica (agenti atmosferici) e chimica (ossidativa), non batterica e biologica come in un ambiente umido. In realtà, i ruminanti sono responsabili della maggior parte delle funzioni biologiche del terreno digerendo la cellulosa e restituendo i nutrienti, ora di nuovo disponibili, sotto forma di urine e feci. Senza i ruminanti, la vegetazione tenderà a crescere in eccesso, poi ridurrà la crescita e infine inizierà a uccidere le piante.
La nuda terra è a questo punto esposta al vento, al sole e alla pioggia, i minerali vengono lavati via e la struttura del terreno distrutta. Nel nostro tentativo di salvare gli animali avremo ucciso ogni cosa. Dalla parte della recinzione dove sono stati relegati i ruminanti, gli gnu e i loro amici si riprodurranno con la stessa efficacia di sempre. Ma senza la selezione dei predatori, ci saranno rapidamente più erbivori che erba. Gli animali saranno troppi per la loro fonte di cibo, mangeranno le piante fino alla base e finiranno col morire di fame, lasciandosi dietro un paesaggio seriamente degradato. La lezione qui è ovvia, sebbene sia abbastanza profonda da ispirare una religione: noi abbiamo bisogno di essere mangiati tanto quanto di mangiare.
Gli erbivori hanno bisogno della loro cellulosa giornaliera, ma anche l’erba necessita degli animali: del concime, che contiene azoto, minerali e batteri; dell’azione meccanica del brucare; e richiede anche quelle risorse accumulate nei corpi degli animali che vengono liberate dai processi di putrefazione quando gli animali muoiono. L’erba e gli erbivori hanno bisogno gli uni degli altri, così come i predatori e le prede. Non esistono correlazioni a senso unico, e neanche situazioni di dominanza e subordinazione. Mangiando non ci stiamo sfruttando gli uni con gli altri. Stiamo semplicemente facendo i turni.
Quella è stata la mia ultima visita ai forum vegani. Mi sono resa conto in quel momento che persone così profondamente ignoranti della natura della vita – con il suo ciclo minerale e lo scambio di carbonio, il suo equilibrio intorno a un’antica rotazione di produttori, consumatori e organismi che degradino – non sarebbero state in grado di farmi da guida, o di prendere una qualsiasi decisione utile a una cultura umana sostenibile. Allontanandosi dalla conoscenza adulta, la conoscenza che prevede che la morte sia radicata nel sostentamento di qualunque creatura – dai batteri ai grizzly – non saranno mai in grado di nutrire la fame emotiva e spirituale che mi provocava dolore da quando avevo accettato quel sapere.
Può darsi che alla fine questo libro sia un tentativo di lenire questa mia sofferenza. * Ho altri motivi per scrivere questo libro. Uno è la noia. Sono stanca di sostenere le stesse discussioni, specialmente quando non sono facili da condurre. I vegetariani possono sintetizzare il loro programma in poche semplici parole – la carne è un omicidio – e soluzioni che si spiegano da sole, come quella che riguarda i 7,2 chilogrammi di grano. Io potrei controbattere con i miei slogan (le monocolture sono un omicidio? La marcia del milione di microbi?), ma non sono comprensibili per il normale pubblico.
Debbo partire dal principio, dalle prime proteine che si organizzano per dare adito alla vita, passando poi alla fotosintesi, alle piante, agli animali, ai batteri, al suolo, per arrivare all’agricoltura. Io chiamo questa chiacchierata «microbi, concime e monocolture» e mi servono trenta minuti buoni per la premessa, che è essenzialmente un’educazione di base sulla natura della vita. È vero, queste sono informazioni – materiali, emotive, spirituali – che noi tutti avremmo dovuto ricevere prima dei quattro anni di età.
Ma chi è rimasto che possa insegnarcele? E non è forse vero che tutto ciò che c’è di sbagliato in questa cultura è contenuto in quella domanda? Ma non è solo la quantità d’informazioni che rende difficile la discussione. Spesso l’interlocutore non le vuole sentire, e la resistenza può essere estrema. Il termine “vegetariano” non riguarda soltanto ciò che mangi e neppure ciò in cui credi. Concerne il chi sei ed è un’identità totalizzante. Io non sto mettendo in discussione soltanto una filosofia, o un insieme di comportamenti alimentari. Io sto minacciando l’idea che un vegetariano ha di se stesso. La maggior parte di voi reagirà mettendosi sulla difensiva e arrabbiandosi. Ho ricevuto lettere piene di odio ancora prima di aver cominciato questo libro. E no, grazie, non ho bisogno di riceverne altre.
Ma sto anche scrivendo questo libro perché sia una storia che serva da ammonimento. Una dieta vegetariana – soprattutto una versione a basso contenuto di grassi, e in modo particolare una dieta vegana – non fornisce un’alimentazione sufficiente per il mantenimento in buone condizioni del corpo umano nel lungo periodo. Per parlar chiaro: vi danneggerà. Io lo so. Dopo due anni da quando ho intrapreso la dieta vegana la mia salute è peggiorata, e l’ha fatto in modo catastrofico. Ho sviluppato una patologia degenerativa delle articolazioni che mi accompagnerà per il resto della vita. È cominciata quella primavera come uno strano, fastidioso dolore profondo in una sede che non sapevo potesse risultare sensibile.
Per la fine dell’estate sembrava che ci fossero delle schegge nella mia spina dorsale. Seguirono anni di dolore sempre crescente, e anche più frustranti visite da vari specialisti. Ci sono voluti quindici anni per avere una diagnosi al posto di una pacca sulla testa. La spina dorsale di una teenager non cade a pezzi senza una ragione eppure, malgrado la mia perfetta descrizione dei sintomi, nessuno dei medici prese in considerazione la discopatia degenerativa. Adesso ho le radiografie e mi viene prestata attenzione.
La mia spina dorsale assomiglia a un incidente aereo. Dal punto di vista nutrizionale questo è quanto è successo. Dopo sei settimane di dieta vegana sperimentai il mio primo episodio d’ipoglicemia, sebbene non abbia imparato come classificarla prima che fossero passati diciotto anni, e fosse diventata parte della mia vita. Dopo tre mesi di dieta le mie mestruazioni cessarono, il che avrebbe dovuto costituire un indizio del fatto che probabilmente non si era trattato di una buona scelta. Nello stesso periodo cominciò anche la spossatezza, e continuò a peggiorare insieme alla sempre presente sensazione di freddo. La mia pelle era così secca che si desquamava, e durante l’inverno mi doleva così tanto da tenermi sveglia la notte.
All’età di ventiquattro anni ho sviluppato la gastroparesi, che – ancora una volta – non è stata diagnosticata né curata fino all’età di trentotto anni, quando mi affidai a un medico che si occupava del recupero dei vegani. Sono stati quattordici anni di nausea costante, e ancora adesso non posso mangiare dopo le cinque del pomeriggio. A tutto ciò si sommavano la depressione e l’ansia. Discendo da una lunga e venerabile progenie di alcolisti depressi, quindi – ovviamente – non ho ereditato la migliore genetica per la salute mentale.
L’ultima cosa di cui avevo bisogno era la malnutrizione. Il veganesimo non è stata la sola causa della mia depressione, ma certamente ha contribuito in modo rilevante. Sono trascorsi lunghi anni durante i quali il mondo era costituito da un peso grigio e inutile, sempre uguale a se stesso, costellato esclusivamente da occasionali attacchi di panico. Ero frequentemente annientata dall’impotenza. Se non riuscivo a trovare le chiavi di casa, mi accasciavo sul pavimento del soggiorno, immobilizzata sull’orlo dell’abisso.
Come potevo andare avanti? Che voglia ne avevo? Le chiavi erano perse e io con loro, insieme al mondo e all’intero cosmo. Tutto era crollato, vuoto, privo di significato, quasi ripugnante. Sapevo che non era un atteggiamento razionale, ma non riuscivo a uscirne fintanto che non aveva fatto il suo corso. E adesso so perché. La serotonina è prodotta a partire dall’aminoacido triptofano. Inoltre, tutto il triptofano del mondo non comporterà alcun miglioramento in assenza di grassi saturi, che sono necessari per consentire ai neurotrasmettitori di funzionare. Tutti quegli anni di collasso emotivo non erano dovuti a un fallimento personale; avevano una spiegazione biochimica, per quanto autoinflitta. C’è qualcosa di altrettanto noioso dei problemi di salute di altre persone? Cercherò di rendere sintetico questo elenco.
La mia spina dorsale non è guarita, ma il passare a una dieta costituita da prodotti di animali alimentati a erba ha consentito un parziale recupero, e alleviato moderatamente i livelli del dolore. I miei recettori per l’insulina non sono ancora in numero adeguato, ma le proteine e i grassi mantengono la mia glicemia stabile e contenta. Negli ultimi cinque anni ho avuto mestruazioni molto regolari, sebbene abbia sviluppato un tumore agli organi riproduttivi del quale attribuisco la responsabilità alla soia.
Il mio stomaco funziona bene – non alla grande, ma discretamente – fintanto che assumo betaina cloridrato a ogni pasto. Grazie alle mie pratiche spirituali, e alla dieta densa di nutrienti, mi sono liberata della depressione, e ogni giorno ringrazio il cielo. Ma la sensazione di freddo e la spossatezza sono costanti. In alcuni giorni il solo respirare richiede più energia di quanta non ne abbia. Non dovete sperimentare su voi stessi: vi è consentito apprendere dai miei errori.
Tutti gli amici della mia giovinezza erano radicali, virtuosi e di forti sentimenti. Il vegetarianismo era la strada ovvia, e il veganesimo il passo successivo. Coloro tra noi che lo hanno praticato per un periodo prolungato hanno finito con l’esserne danneggiati. Se sto mettendo in discussione il vostro stile di vita, la vostra identità, potreste provare confusione, paura e rabbia leggendo questo libro. Ma datemi ascolto, se non volete fare la mia stessa fine. Vi sto chiedendo di tenere duro, di leggere questo libro e di analizzare i contenuti dell’Appendice. Per favore. Soprattutto se avete bambini o desiderate averne. Il mio orgoglio non mi impedisce di supplicarvi. *
I fumatori vi confermeranno che non c’è niente di paragonabile a un ex fumatore. Il bisogno di fare proseliti sembra essere una conseguenza inevitabile del conseguimento della salvezza o, forse nel loro caso, dell’ossigeno. Ho fatto del mio meglio per evitare un tono di superiorità morale e punto piuttosto al coinvolgimento. Mi auguro di esserci riuscita. In defi-nitiva, preferisco essere utile che ritenermi nel giusto. Soprattutto considerando il futuro con il quale dovremo confrontarci e l’importanza della posta in gioco. I valori sottesi al vegetarianismo – giustizia, compassione e sostenibilità – sono i soli che possono contribuire a creare un mondo di relazioni paritarie invece che di dominazione; un mondo dove gli esseri umani sono vicini a ogni creatura – ogni roccia, ogni goccia di pioggia, e a tutti i nostri fratelli con una pelliccia o le piume – con umiltà, deferenza e rispetto: l’unico mondo che abbia una possibilità di sopravvivere a quell’abuso chiamato civilizzazione. È con la speranza che questo mondo sia possibile che metto a disposizione questo libro.
Lierre Keith
tratto dal libro:
Il Mito Vegetariano.
Cibo, giustizia, sostenibilità: non bastano le buone intenzioni
Sonzogno editore - 17,50 euro