LA SCOMPARSA DEI CIBI CHE AMIAMO
di Simran Sethi
Trovarmi nella sede storica della Tcho (in seguito si è trasferita) era come finire dentro un sogno di Willy Wonka: Charlie e la fabbrica di cioccolato. Brad mi ha portato in sala conferenze spiegandomi che stavano dando gli ultimi ritocchi a un nuovo cioccolato alla nocciola; ce n’erano scaglie sparse su tutto il tavolo. «Si serva», mi ha detto; ho sorriso beata: «Sono a posto così, grazie». Quell’intervista di venti minuti si è protratta per quasi due ore.
La storia di Brad mi ha catturato: il viaggio di un uomo che aveva iniziato studiando la chimica degli sciroppi di zucchero, finendo per produrre un cioccolato pluripremiato. Poi mi ha raccontato di quando ha condiviso quel cioccolato con i contadini che avevano coltivato il cacao – gente che non aveva mai«Si assaggiato una tavoletta di cioccolato –, «uno dei momenti più importanti di tutta la mia vita». Cominciavo a rimpiangere la scelta di depurarmi. Mentre chiudevamo l’intervista, Brad ha chiesto se volessi visitare la fabbrica.
Naturalmente. Willy Wonka mi regalava una visita nella sua fabbrica di cioccolato. Dopo esserci preparati, siamo entrati nel perimetro esterno della fabbrica, dove le tavolette vengono rifinite e incartate a mano. Faceva freddo; c’è bisogno di una temperatura abbastanza bassa per preservare la consistenza del cioccolato. C’era un bel rumore; Brad gridava sopra le palette che facevano uscire le stecche dagli stampi, e poi c’erano le macchine per raffreddare e confezionare, che sfornano circa 5000 stecche di cioccolato Tcho all’ora.
Quindi è passato oltre uno spesso tendone di plastica per portarmi nel sacrario interno, un ambiente più caldo; l’aroma di cioccolato si faceva più intenso a mano a mano che ci avvicinavamo al raffinatore, un apparecchio che sbriciola e fonde i panetti di cacao trasformandoli in una massa tiepida e densa.
Mentre Brad mi spiegava la trasformazione di un solido in liquido, ho chiuso gli occhi; il profumo era così forte che la mia bocca ha cominciato a salivare. «Il grasso del cioccolato è solido a temperatura ambiente», mi ha spiegato: io ho deglutito, potevo assaporare il cioccolato senza neanche assaggiarlo. «Il cioccolato comincia a fondere con la temperatura più calda della bocca».
Ho accarezzato il raffinatore quasi stessi toccando un amante. Il tamburo era così caldo e l’odore così inebriante… Brad era stupito; si è interrotto a metà di una frase per chiedermi se poteva farmi una foto. Avevo ancora il caschetto, con varie sfumature di marrone addosso – pelle scura, giacca marrone, borsa marrone, stivali marroni – e sembrava quasi avessi appena avuto un orgasmo. Ero imbarazzata, ma Brad ha capito e ha sorriso: «Ci si nasce, innamorati del cioccolato».
Aveva ragione. Le preferenze in fatto di gusto si formano nell’utero; le prime papille gustative si sviluppano otto settimane dopo il concepimento. A dodici settimane, quando il feto inizia a deglutire, gli odori del liquido amniotico stimolano i recettori del gusto. Alla nascita il gusto è tra i sensi quello più sviluppato e più utilizzato, una risposta evolutiva che contribuisce a evitare i veleni. La dolcezza (la qualità prevalente nel latte materno) segnala la presenza di carboidrati, fonti sicure di energia. L’amaro indica una tossicità che i bambini piccoli – e l’uomo preistorico – sono istruiti a evitare. Ma il gusto non ha solo una funzione evolutiva, prende forma anche in base a quello che mangiano le madri durante la gravidanza. I neonati mostrano una certa predilezione per i cibi che sono stati consumati mesi prima che nascessero.
Mia madre, quando era incinta, mangiava zenzero (contro le nausee del mattino) e molto cioccolato (per puro piacere). Sono nata con un debole per entrambi. Il cioccolato mi ha sempre accompagnata: la torta del compleanno, la torta nuziale, il cibo che mi ha supportato durante il divorzio. Assieme al caffè e a qualche sigaretta ha animato ogni singola pagina di questo libro. Nonostante l’amassi così tanto, non avevo mai riflettuto seriamente sulle origini del cioccolato, o degli altri cibi che prediligo – al di là dell’idea un po’ generica dei “contadini nei campi” o degli “operai in fabbrica”, persone cui pensavo in astratto, ma senza conoscerle.
Sì, conosco i contadini che mi vendono le uova e i prodotti di stagione nel mio mercato, ma la maggior parte di quelli che coltivano quei generi che considero essenziali per la mia vita (tra cui cioccolato e caffè) non vive neppure sul mio continente. Nonostante la passione per il cibo e l’agricoltura, e l’estrema attenzione alla terra e alle persone, il rapporto con i cibi che amo è stato molto lungo ma non altrettanto profondo. Non passavo le mattine a pensare da dove venisse il mio caffè; nessuna delle mie mattine. Ora lo faccio. Per il semplice fatto che il caffè, il cioccolato, il pane – ogni cibo a cui in realtà teniamo – sono in pericolo. Mentre discutiamo di ogm e dei meriti della dieta paleo, mentre contiamo le calorie e facciamo la coda per i cronut, perdiamo le basi del nostro rapporto con il cibo. È ciò che ho imparato a Roma, dove sono andata per studiare le sfide dell’agricoltura moderna.
In ogni dibattito su come nutrire la gente, conservare le risorse naturali e garantire a tutti una dieta sana, sia oggi sia in futuro, si parla del pericolo che corriamo di perdere ogni biodiversità agricola.
Una riduzione della diversità in tutto ciò che riguarda l’agricoltura e il cibo, un cambiamento che è conseguenza diretta del nostro rapporto con il mondo. Una volta compreso tutto ciò, ho capito di dovermi recare nei luoghi che custodivano le chiavi del futuro del cibo. Quindi ho lasciato un posto di lavoro da cui non potevo licenziarmi, ho venduto la casa, ceduto l’auto e iniziato un viaggio per capire in che modo salvare i sapori che amiamo.
di Simran Sethi
(estratto dal libro di Simran Sethi Bread, Wine, Chocolate. La lenta scomparsa dei cibi che più amiamo, pubblicato da Slow Food editore, che ringraziamo.)
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