SE L'ITALIA DIVENTA UN'AREA METROPOLITANA
di Antonio Castaldo
Superfici agricole ridotte di 190 km quadrati all’anno
Né campagna né città, i segni di un’erosione quotidiana. La città divora il paesaggio, lo rimastica e lo sputa via trasformato. Una devastazione inarrestabile consumata giorno dopo giorno, con i tempi lunghi ma inesorabili dello sviluppo urbanistico. «Il disastro ai danni del paesaggio non sta tanto nello scandalo dei grandi abusi e dei mostri edilizi, quanto nell’erosione continua, quotidiana, che si manifesta sotto i nostri occhi e rischia di cancellare il confine tra città e campagna». L’allarme è contenuto nel rapporto annuale della Società Geografica Italiana, un viaggio nel Paese dimenticato, e molte volte oltraggiato, dei campi sconfinati, delle fattorie, delle piccole coltivazioni intensive.
In termini tecnici si parla di consumo del suolo. Negli ultimi cinquant’anni il cemento ha soffocato una superficie di 3,5 milioni di ettari, una regione verde pari a Umbria e Lazio messe insieme, fatta di boschi, terreni agricoli e pascoli. È il fenomeno dello sprawl, di un’espansione cioè «sdraiata», priva di qualsiasi pianificazione, un modello di urbanizzazione disperso e a bassa densità che «aggredisce la bellezza dei paesaggi sfigurandoli e annullandone le caratteristiche identitarie sotto una massa indifferenziata di elementi artificiali anonimi e spesso volgari». Il peso dell’esplosione metropolitana grava in gran parte sulle superfici agricole, che si riducono di 190 chilometri quadrati all’anno. Il rapporto, che punta invece proprio sulle origini contadine del nostro Paese, cita il caso dell’Emilia Romagna. Nel 1976 il territorio urbanizzato ammontava a 1.050 chilometri quadrati. Nel 1994 era già a quota 1.220, nove anni dopo, nel 2003, sfiorava i 1.900 kmq.
E se le città ingrassano, il suolo agricolo perde quota: dai 15 mila chilometri quadrati del 1976 ai 13 mila del 2003. «Il paesaggio è come un un volto che muta nel tempo», scrive Claudio Magris. Ma le logiche del profitto e del mercato impongono una razionalizzazione dei mutamenti. La naturalità del territorio, soprattutto quello «ordinario» della nostra agricoltura, è sempre perdente di fronte alle esigenze di sfruttamento economico e sviluppo edilizio. La difesa degli spazi liberi diventa allora una guerra di trincea, fatta di lunghe attese e di repentine accelerazioni. Secondo l’équipe di geografi guidata dal professore Massimo Quaini dell’Università di Genova, autore del rapporto, gli unici baluardi in grado di respingere l’avanzata dei palazzi sono i cosiddetti territori periurbani, spicchi più o meno vasti di campagna all’interno dello stesso tessuto metropolitano: «Oggi il paesaggio si difende nelle campagne, sempre più minacciate da un’urbanizzazione invasiva, che è negazione tanto dell’urbanità quanto della ruralità».
Gli steccati che dividono i quartieri abitati dai campi coltivati vanno così abbattuti e le zone di «frontiera » ripensate. L’esempio immediato a cui fa riferimento anche il rapporto della Società Geografica è il parco Sud di Milano, un trapianto di coltivazioni a frumento nella fascia meridionale della città. Ma esistono anche altre forme di periurbanscape: «La varietà dei paesaggi italiani, che sono il nostro più grande patrimonio, sopravvive laddove i paesaggi rurali tradizionali sono stati rimodellati da una rinnovata cultura contadina: applicata ad esempio alle classiche produzioni mediterranee come l’olio e il vino, ha generato nuovi slowscape, i territori lenti delle Langhe, del Chianti, delle Cinque Terre».
La Società Geografica Italiana è nata a Firenze nel 1867, e dal 1872 ha sede a Roma. Forte di questa lunga e solida tradizione, da sette anni a questa parte stila un rapporto annuale dedicato di volta in volta a temi d’interesse collettivo, in campo geografico ma non solo. «Dopo il terremoto in Abruzzo — si legge nella presentazione del rapporto — si è capito che sull’applicazione della normativa non si può più derogare e che la compromissione della sicurezza, oltre che provocare morte e distruzione, ha a che fare anche con la perdita di paesaggio e di identità culturale». Il Rapporto passa in rassegna sia i casi dov’è eclatante la deturpazione del paesaggio, sia gli spazi cosiddetti «rurbani» dove ruralità e urbanità si fondono, come capita ad esempio nel piccolo centro di Buseto Palizzolo, in provincia di Trapani, antico fondo agricolo che conserva lembi di campagna cuciti nel tempo al tessuto cittadino. «Si tratta di nuovi orizzonti territoriali creati dalle nuove socialità, dai gruppi che dalla città tornano alla campagna come scelta di vita».
Il principio di fondo è il diritto- dovere a preservare il fascino immortale del nostro Paese: «La Repubblica italiana tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», articolo 9, secondo comma della Costituzione. Eppure la tutela dello spazio verde stenta a diventare una priorità. Il governo ha recentemente dato impulso alla nascita dell’Osservatorio nazionale sul paesaggio: «Questo nuovo organismo—spiega Francesco Maria Giro, sottosegretario ai Beni Culturali—ha diversi compiti. Ma soprattutto è stato istituito per creare una rete tra le strutture centrali e quelle degli enti territoriali preposti alla pianificazione urbanistica: quindi Comuni, Province e Regioni, rapportate così direttamente alle soprintendenze che hanno sempre l’ultima parola».
Coordinamento, ma non solo questo: «L’osservatorio proporrà linee-guida per la riqualificazione architettonica del paesaggio —continua Giro — e servirà ad identificare casi di studio e di ricerca da approfondire, oltre ad un insostituibile ruolo di monitoraggio e raccolta di dati su un campo così ampio come la tutela paesaggistica». Tutelare, recuperare, rilanciare laddove è possibile. Perché l’altra faccia della medaglia è l’inquinamento intensivo delle zone rurali che sorgono a ridosso di aree metropolitane o che dividono lo spazio con distretti industriali in fase di espansione incontrollata. Il rapporto cita a questo proposito i «paesaggi avvelenati della campagna romana », riassunti emblematicamente dalle piramidi di rifiuti della maxidiscarica di Malagrotta.
«Da una parte abbiamo il paesaggio urbano-industriale— si legge nel rapporto— costituito dalla presenza ravvicinata della raffineria più grande del Centro Italia, da quattro depositi carburanti, da impianti per rifiuti ospedalieri, cave e un gassificatore. Dall’altra questi paesaggi mortiferi, tra cumuli di immondizia e impianti di termovalorizzazione, sono circondati da tenute verdeggianti, oasi naturalistiche e da campi coltivati a produzione biologica». Ben diversa, e per certi versi più drammatica, è la situazione dell’area nord di Napoli, la terra dei fuochi come l’ha ribattezzata Roberto Saviano per i ricorrenti falò di «monnezza» che al buio rischiarano un paesaggio desertificato dall’incuria. «Anche qui —concludono gli studiosi - il tessuto sociale soffre e muore sotto il peso degli scarti della civiltà urbano industriale».
Antonio Castaldo
25 luglio 2009
www.corriere.it
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