DOVE FINIREMMO SENZA AGRICOLTURA?
È davvero necessario, signori, che io vi dimostri l'utilità dell'agricoltura? Chi dunque provvede ai nostri bisogni, chi dunque ci fornisce gli alimenti se non l'agricoltore? Come ci vestiremmo noi, come ci nutriremmo senza l'agricoltore? - Il consigliere Lieuvain tuonava queste parole sulla piazza di Yonville, fra l'attenzione di tutti, fatta eccezione per Emma Bovary e il suo amante Rodolfo che erano di ben altre cose pensierosi.» (da Madame Bovary, di Gustave Flaubert)
La domanda del consigliere Lieuvain è ancora attuale perché, a circa 150 anni dai tempi di Madame Bovary, la nostra società si è scordata dell'utilità dell'agricoltura così come i cittadini stanno dimenticando che sono i contadini che producono cibo.
In quest'ottica, il primo obiettivo che ci siamo posti con questo volume è decostruire i luoghi comuni o le convinzioni fallaci che circolano in materia di cibo e di agricoltura e che sono entrati a far parte del senso comune. Il secondo obiettivo è ragionare intorno alla domanda «quale modello agricolo è il più idoneo a sfamare il mondo» o, meglio, a risolvere il problema della fame del mondo senza farci morire né di indigestione né per la cattiva qualità del cibo. Il terzo obiettivo è far emergere che l'agricoltura alternativa a quella industriale esiste, anche se meno visibile, ed è articolata in una molteplicità di forme che utilizzano pratiche agricole rispettose dei cicli naturali e dell'ambiente, producono alimenti più sani e valorizzano il lavoro dei produttori.
Il primo luogo comune da decostruire è la convinzione che la proprietà privata della terra possa essere trattata alla pari della proprietà privata in generale, senza rendersi conto che la terra non è un oggetto inanimato qualsiasi ma la madre che tutti ci ospita e ci nutre. La terra non è né un fattore della produzione né un asset patrimoniale ma un bene comune essenziale alla vita alla pari dell'acqua e dell'aria. L'agricoltura - qualsiasi agricoltura - modifica i cicli naturali, ma sarebbe saggio evitare di stravolgerli, pena la nostra sopravvivenza.
Un secondo luogo comune è che l'agricoltura dovrebbe impiegare poche braccia o, meglio, il meno possibile; l'ideale, ci insegnavano un tempo a scuola, è il modello nordamericano, dove la forza lavoro agricola si è da tempo ridotta al 2% del totale della forza lavoro. Stiamo scoprendo, però, che eliminare il lavoro nei campi in favore di un'agricoltura industriale ad alta intensità di capitale e alto uso di concimi chimici e di pesticidi non è un'operazione indolore. Sta avendo e avrà dei costi elevatissimi in termini ecologici, umani ed economici: perdita di fertilità dei suoli, esaurimento delle riserve idriche, inquinamento delle acque, aumento della desertificazione, alterazione delle catene trofiche, cambiamento climatico, perdita di biodiversità e dissesto del territorio.
Un terzo luogo comune è che l'agricoltura familiare dei piccoli produttori non può essere generalizzata perché in nessun caso potrebbe sopperire alle esigenze alimentari di una popolazione di 6,5 miliardi di persone. La realtà dimostra esattamente il contrario: il 75%-80% della popolazione mondiale sopravvive proprio grazie alla produzione di sussistenza dei piccoli produttori. Ma questo - controbatte il sapere convenzionale - è vero solo nel Sud del mondo, non ancora raggiunto dallo «sviluppo».
L'errore di quest'affermazione consiste nell'applicare la solita ricetta a contesti differenti, nel non valorizzare le risorse locali, nel considerare scienza e, quindi, progresso solo una visione del mondo - quella occidentale - dimenticando che ne esistono altre. E' ormai chiaro, inoltre, che la fame nel mondo non dipende tanto da un'insufficiente produzione agricola quanto dal modo in cui essa è organizzata, innanzitutto dal mancato accesso alla terra da parte dei piccoli produttori.
Un quarto luogo comune è quello secondo cui i «contadini» o piccoli produttori sono un retaggio del passato, un elemento di arretratezza tecnologica e culturale destinato a scomparire con il progresso e quindi con l'affermarsi della produzione su vasta scala e della monocoltura, magari geneticamente modificata. Tale convinzione appare non solo infondata di fronte alla realtà, visto che i contadini o piccoli produttori continuano a esistere in tutti i paesi, incluso quelli del Nord, ma anche culturalmente datata. Una nuova concezione della modernità comincia a emergere nelle campagne, frutto dell'innovazione che rinasce dal basso in un lavoro continuo di confronto tra ricercatori (scienza ufficiale) e contadini (saperi tradizionali), che supera le logiche del classico trasferimento tecnologico. Soprattutto la visione dello sviluppo agricolo oggi dominante non tiene conto delle conseguenze drammatiche che provoca: perdita della ruralità e del paesaggio rurale; crescita delle megalopoli e delle sue periferie, ingrossate dagli agricoltori succubi del processo di modernizzazione delle campagne. Il quinto luogo comune - l'ultimo che vogliamo riprendere in questa sede - è la teoria dei cicli dello sviluppo formulata negli anni 1950 da un economista americano, Walt Rostow.
Secondo questa teoria, che oggi è diventata senso comune, l'agricoltura sarebbe appannaggio dei paesi in via di sviluppo, che l'abbandonerebbero via via che «si sviluppano» per dedicarsi prima al settore manifatturiero e poi a quello dei servizi. L'evidenza smentisce la teoria, come dimostra il fatto che Stati uniti, Canada, Australia ed Europa - e cioè i paesi più sviluppati della terra - sono i maggiori produttori ed esportatori mondiali di prodotti agricoli. La teoria è falsa, ma suona bene. E continua a fare danni.
Riccardo Bocci, Giovanna Ricoveri
Uno stralcio dell'introduzione al volume Agri/cultura Terra lavoro ecosistemi. Scritti, tra gli altri, di Giorgio Nebbia, Marinella Correggia, Jean Ziegler, Estelle Deléage, Nora McKeon. Si tratta di una pubblicazione intesa a sostenere l'attualità dell'agricoltura agricola, non industriale
da Il Manifesto, 6 novembre 2006
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