di Maurizio Di Gregorio
La colonnina del termometro segna sopra i 20 gradi a Novembre 2016. Ad un autunno già caldo e senza piogge sta seguendo un inverno praticamente inesistente, nei campi il grano cresce e sulle piante anche i germogli, si parla di una primavera anzitempo.Ora una spruzzata di inverno ma sembra già passato. Chi si ricorda di qualcosa di simile?
Primavera Silenziosa è un bellissimo libro di Rachel Carson che lo scrisse nel 1962 e che fu tra i testi da cui prese avvio il movimento ambientalista. Il messaggio del libro era: se continuiamo ad avvelenare la Terra, verrà un giorno in cui non ci saranno più uccelli ad annunciare la primavera.
Immagine estiva italiana 2016: su una spiaggia una coppia di mezza età passeggia con un bimbo di circa 5 anni. I suoi genitori hanno una espressione affaticata e i capelli imbiancati che fanno da contrasto all’energia incontenibile del bambino. Non si vedono altre famiglie, in alto sul cielo volano dei gabbiani. La spiaggia è più che tranquilla, quasi silenziosa: per chi ricorda lo sciamare dei ragazzini al mare, questa è una novità, una spiaggia italiana a luglio senza o quasi bambini. Una volta sarebbe stato impensabile.
A parte questa impressione può colpire l’affaticamento dei genitori: se sono così stanchi con un figlio di cinque anni, come faranno a reggere per altri 10-15 anni? E anche se fossero stati in grado di reggere bene agli impegni dati da un figlio che cresce cosa ne guadagnano loro e il figlio stesso quando lui si troverà ventenne con genitori di settanta anni? Un ragazzo che se avesse conosciuto i nonni, li avrebbe facilmente persi entro i dieci anni?
Ora certamente in queste cose non vi sono regole assolute ma in generale quale può essere l’età migliore per crescere dei figli? Se i figli nascono tra il terzo e il quarto settennio della vita dei loro genitori (21-28 anni) crescono con genitori giovani che al massimo avranno 48 anni quando essi saranno ventenni e se il medesimo ritmo è stato mantenuto dalla generazione precedenti essi crescerebbero a contatto con nonni ancora giovani dai 48 ai 68 anni.
Questo arco di tempo di 20 anni permette una lunga coesistenza tra 3 generazioni: genitori, figli, nipoti. La crescita dei nipoti avviene nella prima fase della vita adulta dei loro genitori e nella fase centrale della vita adulta dei loro nonni.
Da questo punto di vista la famiglia è veramente la più basilare comunità umana: prima ancora di essere allargata, arricchita e complicata da un profluvio di parenti, essa è una microcomunità completa in cui sono presenti tutte le età della vita: giovinezza, età adulta, vecchiaia. Tutto questo era così normale e scontato sino a pochi anni fa e ora sta diventando eccezionale. Una coppia occidentale – se regge – forse non fa figli e se li fa -1-2 al massimo-sempre più spesso li fa tardi, quasi per un dovere di completamento esistenziale che però si affianca ad un dubbio godimento esistenziale.
La diminuzione della natalità in occidente, ci racconta qualcosa di più di quel che appare e solo a prima vista sembra un semplice rallentamento della “pressione demografica”. Sembra essere un presagio di altre primavere ancora più silenziose.
L’uomo attuale si sta adattando a vivere senza genitori e figli. Nonostante la vita media si allunghi, mai i rapporti tra generazioni sono stati più deboli.
C’è un film che parla di questo:
I figli degli uomini di A. Cuaron, un film straordinario e apocalittico tratto dal un romanzo del ‘92 di una scrittice inglese di gialli P.D. James. Questo film racconta una storia ambientata nell’Inghilterra del 2027: una Inghilterra multietnica che è stata invasa da milioni di profughi spostatisi in seguito al cambiamento climatico e di un pianeta dove da 18 anni nessuna donna è rimasta più incinta. Il mondo intero piange dai terminali la notizia dell’assassinio del più giovane del pianeta, un diciassettenne.
Un film bello e inquietante. Lirico e spettacolare – a tratti come un fumetto- e farcito di simboli, per ognuno dei quali varrebbe forse un film intero. La trama del film si dipana con l’arrivo di una ragazza di colore che – miracolo – è rimasta incinta e cresce nel suo grembo una nuova creatura. Non racconto tutta la storia e invito a vederlo.
I figli degli uomini sembra parlare di un futuro apocalittico mentre in realtà ci parla del fallimento dell’oggi e racconta come e perché un certo tipo di umanità è avviata verso l’estinzione. Potrebbe sembrare un’opera di pura fantasia al servizio della spettacolarità ma se lo colleghiamo allo studio di Peter Nagy sembra addirittura
profetico.
Peter Nagy, ricercatore di Atlanta ha condotto una lunga ricerca su campioni di giovani donne che avevano difficoltà a rimanere incinte e ha trovato una precisa correlazione statistica secondo la quale le figli nate da madri oltre i 31 anni rischiano la sterilità o comunque hanno seri problemi di fertilità. Questo dato è in linea con i dati dei centri per la fertilità di mezzo mondo. L’età ideale per diventare madri sembra essere intorno sino ai 25 anni, dai 35-40 anni, invece, anche se con la fecondazione assistita, vi è la probabilità che le loro figlie avranno a loro volta seri problemi di sterilità. La causa sembra essere la fragilità della membrana esterna dell’ovocita nelle donne sopra i 30 anni, non se ne sa molto altro.
Se la tesi di Nagy è corretta, quanto manca, al ritmo attuale per giungere ad una generazione di adulti completamente sterili, Trenta anni o venti?Allora il film di Cuaron sembra avere una visione profetica.
La cultura occidentale sembra celebrare la centralità dell’individuo, ma dietro il mito, non ne sta pianificando il declino e la scomparsa?
L’individuo di cui parla sempre la nostra cultura dominante sembra spesso una persona senza genitori e senza figli. Non scorre forse, dentro molti di noi, un film non più innocente di famiglie disgraziate e di giovani soffocati e imprigionati da famiglie autoritarie o asfittiche? La riduzione attuale della natalità è un ripiego momentaneo del genere umano o ha qualcosa a che vedere con Primavera Silenziosa di Rachel Carson?
Così come la cultura moderna si permette di avvelenare aria, acqua e suolo in una dimensione di irresponsabilità e inerzia che è totalmente priva di riverenza e sacralità per la vita, così gli esseri umani, gradualmente, senza sentirsi dei mostri, abbandonano i mondi dei genitori e quelli dei figli per inseguire vite “indipendenti” e complesse, contrassegnate da problematici piani di realizzazione individuale.
L’ego tronfio e trionfante dell’uomo moderno richiede il sacrificio delle relazioni umane - sempre più difficile se non impossibile mantenere nel tempo relazioni soddisfacenti con familiari, ma anche vicini, colleghi, amici e partner.
Come si fosse smarrita una precisa benedizione del Cielo, l’amore terreno che lega gli esseri e le loro situazioni sembra attenuarsi e svanire in un orizzonte di precarietà e indifferenza. Ad esso si sostituisce talvolta un vago amore impersonale, di apparenza spirituale che serve però a giustificare quell’altro vivo e palpitante che si stenta a vivere in un trascorrere futile di giorni, notti, incontri sterili e connessioni virtuali.
Non sono solo i figli che si fanno più tardi o mai. Amicizie, amori, matrimoni, lavori e accordi di ogni tipo sono pervasi da una crescente precarietà. Ci si mette talvolta insieme pensando già a quando finirà, anche le aziende nascono immaginandosi un breve ciclo vitale. Il terreno sociale dell’umanità moderna non sembra essere più adatto né a una crescita né a una fioritura.
In questa cornice,
l’egosistema, inquinante moderno, si sostituisce lentamente anche
all’ecosistema umano. Il trionfo dell’individuo astratto, fuori dalla natura e da una socialità “naturale”, sembra compiere prima l’assassinio del mondo naturale, poi la disgregazione della socialità e forse già si rivela come progetto pianificato di eliminazione dell’autentico essere individuale.
Sembra così da molte cose insieme di cui siamo spettatori vicini e lontani e anche attori, talvolta protagonisti. Oltre il velo delle illusioni quotidiane, potremmo e dovremmo riconoscere la degenerazione in atto -che subiamo e compiamo noi stessi - e comprendere che il suo rimedio non è in una particolare ideologia o sistema di credenza ma
in una cultura che ami la vita, coltivi la speranza, riconosca l'umanità e sviluppi la capacità di donarsi.
Maurizio Di Gregorio
Nemi, 2007
Articolo riaggiornato al 2017