ESPROPRIAZIONE DELLA SALUTE COME BASE DELLA DITTATURA SANITARIA: RILEGGERE IVAN ILLICH
di Aldo Zanchetta
Può un libro uscito oltre quarant’anni fa essere ancora essenziale nel porsi le domande giuste sulla salute del nostro tempo? E ha un senso diverso farlo proprio mentre le terapie intensive di mezzo mondo sembrano vicine al collasso? A proposito di Nemesi Medica di Ivan Illich, certo uno dei libri che ha sollevato gli interrogativi più accesi e profondi sul ruolo della medicina nella società moderna, Aldo Zanchetta, che ha avuto modo di incontrare il grande pensatore austriaco poco prima della sua morte e non ha più perso le tracce del suo pensiero, scrive: la rilettura di quelle pagine ingiallite dagli anni mi ha detto che se di libro d’epoca si tratta, essa è quella attuale.
La medicina può far ammalare? Sì, risponde Illich, tutte le volte che nel suo operare supera specifici limiti. Le persone, spiega, sono state espropriate della personale responsabilità verso i propri corpi e la propria salute, responsabilità che nel tempo è stata prima trasferita a professionisti e poi a un’impersonale istituzione medica, quella che oggi ci detta quello che in questo campo specifico dobbiamo e possiamo fare e quello che no. Nelle principali culture antiche, invece, in particolare in quella greca, il medico era colui che aiutava il paziente a guarirsi. Illich non nega affatto la medicina in quanto tale, ma la avversa quando esorbita dalle sue finalità, quando diventa iatrogena
Quarantaquattro anni or sono (1976) Ivan Illich pubblicò questo storico libro che svolge una critica radicale dello stato in cui versa la moderna medicina occidentale, provocando accese discussioni e anche furiosi contrasti. La medicina può far ammalare? Proprio così, sosteneva Illich, tutte le volte che nel suo operare essa supera specifici limiti, che è ciò che oggi accade, ancor più di quarantaquattro anni or sono. Ho scritto “storico” perché questo libro segnò una tappa di profondo dibattito, ma non di successiva svolta pratica, nella storia della medicina[1]. Così oggi è incluso fra le letture indicate nei curricula di varie facoltà di medicina.
Lessi il libro all’epoca, ma oggi mi pare che lo compresi solo in parte. Proprio in quegli anni stavo trasformandomi da ingegnere chimico in ingegnere farmaceutico, in un momento di forte evoluzione tecnologica della produzione dei medicinali. Così mi appassionai a quel mestiere che richiedeva forte creatività e impegno e che per 25 intensi anni mi avrebbe procurato gioie e dolori, innescando però poco alla volta crescenti interrogativi sulla scienza, sulla tecnica e sul loro mercimonio.
Nel 2001, dopo aver chiuso quell’esperienza ed avendo accumulato una forte carica critica verso la società industriale conosciuta dal di dentro in uno dei suoi rami più avanzati, mi ricordai di Illich e riaprii il suo libro più noto, La Convivialità, e via via mi dedicai a leggere o rileggere i suoi libri (Energia ed equità, Il lavoro ombra etc. stimolato anche dalla fortunata occasione di averlo conosciuto personalmente e aver potuto conversare due volte con lui per alcune ore alla vigilia della sua morte (2002).
Ritenevo di ricordare abbastanza bene il contenuto di Nemesi Medica per cui nella lettura detti la precedenza ad altri testi finché in epoca di pandemia ho ritirato fuori dallo scaffale il vecchio libro nel quale gli anni avevano fatto fiorire nel frattempo ampie macchie giallastre, dandogli la veste di un “libro d’epoca”.[2] Ma la rilettura mi ha detto che se di libro d’epoca si tratta, essa è quella attuale.
Scrivo queste note avendo iniziato una terza lettura, più lenta e centrata su alcuni singoli capitoli o brani, ognuno dei quali, denso, stimola un’ampia riflessione. Queste prime note sono centrate sulle prime sette pagine, ovvero l’Introduzione.
Prima però una breve spiegazione del titolo: Nemesi Medica – L’espropriazione della salute. Le persone, secondo Illich, sono state espropriate della personale responsabilità verso i propri corpi e verso la propria salute, responsabilità che nel tempo è stata prima trasferita a professionisti e successivamente ad una impersonale istituzione medica, quella che oggi ci detta quello che in questo campo specifico dobbiamo e possiamo fare, e quello che no.
Nelle principali culture antiche, in particolare quella greca, il medico era colui che aiutava il paziente a guarirsi. Sostitituendosi a questa tradizione, eccedendola e accrescendo via via il proprio potere, il professionista e l’istituzione medica hanno ceduto a una forma di hubris (orgoglio, superbia).
Nella cultura greca, attenta con i suoi miti a condannare ogni evasione dell’essere umano dai propri limiti, la hubris costituiva un’invasione di campo nei poteri delle divinità, la cui risposta punitiva, tramite la natura, era la nemesi, “l’ineluttabile castigo di ogni tentativo d’essere eroi anziché creature umane”.
Nel caso della medicina Illich chiama questa punizione iatrogenesi, generata cioè dalla stessa medicina (“iatros”, medico; “genesis”, origine), come accade in fisica quando una azione perturbante produce sul sistema un effetto di ritorno, o feedback.
Ma per la medicina questa analogia è imperfetta, come argomenteremo più tardi. Per questa ragione, per non confondere la diversa natura dei due fenomeni, Illich ricorse a una immagine della mitologia greca, la dea Nemesi, distributrice di giustizia.
L’Introduzione esordisce perentoriamente: “La corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute” e, per non lasciar dubbi, prosegue: “L’effetto inabilitante prodotto dalla gestione professionale della medicina ha raggiunto le proporzioni di una epidemia“, il cui nome è appunto iatrogenesi.
Un sistema di tutela della salute a carattere professionale e basato sul medico, una volta cresciuto al di là dei limiti critici, diventa patogeno per tre motivi: produce inevitabilmente un danno clinico che sopravanza i suoi potenziali benefici; non può non favorire, pur se le oscura, le condizioni politiche che rendono malsana la società; tende a modificare e a espropriare il potere dell’individuo di guarire se stesso e di modellare il proprio ambiente. I sistemi sanitari contemporanei hanno superato questi limiti di tollerabilità.
Il perché dell’oscuramento verrà esplicitato oltre nel libro e ci torneremo per il suo significato politico. Perciò, scrive Illich, “viene rapidamente maturando il problema politico di stabilire un limite alla cura professionale della salute. A chi spetta farlo? Gli appartenenti al sistema, la classe medica, secondo quanto afferma, non sono in grado di farlo. Spetterebbe ai politici, che hanno provato però sbagliando mira ed equivocando sul cosa sarebbe necessario fare. Le loro misure, analizzate in un successivo capitolo, sono fallite perché concepite nel quadro di un fallace feedback tecnico.
La mia tesi è che il profano e non il medico ha la potenziale prospettiva e il potere effettivo per arrestare l’imperversante epidemia iatrogena. Al lettore profano questo libro offre un quadro concettuale in cui mettere a raffronto il rovescio del progresso con i suoi benefici più propagandati.
E questo è l’obiettivo del libro, che è scritto per il profano della medicina e non per la classe medica, come l’argomento potrebbe far pensare, anche se non mancarono medici che lo lessero condividendolo, e continuano a leggerlo e citarlo anche in questa fase pandemica.[3]
Il profano di medicina, per il quale questo libro è stato scritto, dovrà procurarsi lui stesso la competenza necessaria per valutare gli effetti della medicina sulla salute. Fra tutti gli specialisti del nostro tempo, i medici sono infatti quelli addestrati al più alto livello di incompetenza specifica per questa ricerca indilazionabile.
È sulla base di questa sollecitazione, che condivido, che mi sto impegnando in questa rilettura. Del resto il diritto sulla gestione del proprio corpo fu messo in prima linea proprio allora dalle donne, come Illich ricorda. L’affermazione di incompetenza sopra citata è forte, ma ho messo in corsivo il campo specifico dell’incompetenza a cui Illich si riferisce, per avvertire di non estrapolare il campo di applicazione delle sue parole.
Comunque Illich non è tenero verso la classe medica in generale, come non lo è con la classe dei cosiddetti “esperti”[4]. Egli però ha avuto fra i medici anche amici ed estimatori.
È chiaro che chi condivide il credo moderno delle “grandi opere”, del superamento dei limiti in ogni campo, e riverisce gli “esperti”, non si ritroverà in questa impostazione di fondo illichiana. Una precisazione è però necessaria, ad evitare malintesi. Illich è ritenuto il promotore del “piccolo è bello”, però per lui è “bello” ciò che è “proporzionato”, che possiede la “giusta misura”, che è specifica della finalità di ogni progetto e di ogni istituzione[5]. Illich non nega la medicina in quanto tale ma è avverso alla medicina che ha esorbitato dalle sue finalità, quella iatrogena appunto, quale è oggi la medicina occidentale. Altrove nel libro scrive ad es.:
“Il fatto che l’ultraespansione medica abbia un potere distruttivo non significa, ovviamente, che la vigilanza sulle condizioni igieniche, la vaccinazione e il controllo dei portatori d’infezione, una ben distribuita educazione sanitaria … un largo e equo accesso alle cure mediche di base … non possano tutti rientrare in una cultura veramente moderna che promuova l’autonomia e la capacità di badare a se stessi”. (p.236)
Il libro però ha un secondo scopo non meno importante, quello di usare l’analisi della medicina per dimostrare quella che lui chiama la controproduttività delle grandi istituzioni, concetto che qualche studioso ritiene essere uno dei lasciti più preziosi per la comprensione degli attuali squilibri.
Ogni istituzione (la scuola, la sanità…) ha un suo specifico limite oltrepassato il quale invece di produrre i benefici attesi, li contrasta e osteggia. E scrive: “Il presente studio della medicina patogena è stato intrapreso allo scopo di illustrare nel campo della assistenza sanitaria i vari aspetti di controproduttività che si possono riscontrare in tutti i principali settori della società industriale giunta al suo stadio attuale”.
Nel libro infatti egli dedica un intero capitolo alla controproduttività, il VI, concetto che aveva già affrontato nel suo libro forse ancor oggi più letto, La Convivialità. Sempre nell’introduzione anticipa un altro tema, che apparirà varie volte nel libro, quello del contesto ambientale e sociale in cui la salute può prosperare:
“’Salute’, dopo tutto, è semplicemente una parola del linguaggio quotidiano la quale designa l’intensità con cui gli individui riescono a tener testa ai loro stati interni e alle condizioni ambientali. Nell’homo sapiens, “sano” è un aggettivo che qualifica azioni etiche e politiche. Almeno in parte, la salute di un popolo dipende dal modo in cui le azioni politiche condizionano l’ambiente e creano quelle circostanze che favoriscono in tutti, e specie nei più deboli, la fiducia in se stessi, l’autonomia e la dignità. Di conseguenza, la salute tocca i suoi livelli ottimali là dove l’ambiente genera capacità personale di far fronte alla vita in modo autonomo e responsabile”.
Sfiora anche un tema, che farà trasalire molti, quando osserva che “l’istruzione che addestra sempre più gente a livelli di competenza tecnica sempre più elevati e a forme specializzate di incompetenza generale“. Un tema, questo, ostico in un’epoca che privilegia l’ultraspecializzazione e onora il darwinismo sociale e sul quale ho avuto modo di riflettere assai nelle mie frequentazioni dei mondi indigeni latinoamericani, oltre che a ricordare significative esperienze professionali.
Su questo tornerò più a lungo, per l’importanza che gli annetto, quando lo reincontrerò più avanti nel libro. Intanto, per dare uno spunto di attualità di esso relativo alla pandemia del Covid-19, cito in nota un articolo significativo, utile da leggere in tempi di pandemia e nel contenuto del quale mi ritrovo.
Per concludere questa sintesi della già concentrata Introduzione al libro, anticipo i temi delle prossime note destinate ai tre tipi di iatrogenesi che Illich esplora con dovizia di argomenti: la iatrogenesi clinica, quella sociale e infine quella culturale. Quest’ultima è quella che affrontando i temi del dolore, della menomazione e della morte è la più problematica e scioccante nel momento attuale. Il libro conclude approfondendo il significato della controproduttività della medicina super-specializzata, sulle contromisure politiche (ad oggi fallite) e sul recupero della salute.
La parte finale di questi appunti non riguarderà direttamente il testo del libro ma una serie di riflessioni che esso ha provocato rispetto alla pandemia, e per le quali sono grato all’autore per avermi aperto altre finestre su questo tragico evento.
Concludo ricordando un grave problema di salute che afflisse l’ultima parte della vita di Ivan, da lui affrontato con coraggio e estrema coerenza fra la sua pratica di vita e il suo pensiero. Negli ultimi anni di vita un tumore deformante cominciò a crescere sulla guancia destra fino a raggiungere le dimensioni di una mezza noce di cocco, tumore che lo tormentò con fortissimi dolori fino alla morte (2002).
Ancor oggi si scrive, appoggiandosi su alcune sue frasi sull’accettazione del dolore, che a causa di sue ipotetiche credenze mutuate da altre culture, avesse rifiutato di curarsi. La verità è che i medici ai quali si era rivolto lo avevano informato che il tumore si sarebbe potuto asportare chirurgicamente ma con grave rischio di menomare le capacità cerebrali, rischio che decise di non correre anche se a prezzo altissimo.
Quello che è vero è che mutuò da altre culture, che conosceva per lunghe frequentazioni, modi per limitare le fasi acute del dolore. Però la versione “eroica” ma insensata del rifiuto di consultare i medici resta tutt’ora accreditata da alcuni biografi.
PARTE SECONDA
Leggere Illich non sempre è facile, anzi spesso non lo è affatto, se non si entra nel suo mondo mentale. Mondo delle idee che, fra l’altro, è stato per lui così assolutamente coerente con la pratica di vita che conoscere l’uno serve a comprendere meglio l’altro. Per questo spero non dispiacerà se ogni tanto racconto episodi di vita che illuminano il personaggio come in questo breve “intermezzo” di apertura.
Illich non era un intellettuale le cui idee fluttuassero come sospese nell’aria al di sopra della realtà e il cui sapere “dotto” non venisse convalidato con l’esperienza personale. Quando nel 1956, appena trentenne, venne nominato vice-rettore del seminario cattolico di Portorico[1], prima di assumere l’incarico percorse a piedi l’isola in lungo e in largo per una ventina di giorni, per conoscere la cultura e apprendere la “vera” lingua parlata dalla gente del luogo.
Analogamente, quando quattro anni più tardi fu dichiarato “persona non gradita” dal governatore dell’isola, sollecitato a ciò dai due vescovi locali dei quali Illich aveva criticato l’intrusione nelle vicende elettorali, prima di decidere il suo nuovo impegno di vita, nel corso di quattro mesi risalì con mezzi di fortuna il Sudamerica da Santiago del Cile a Caracas, percorrendo anche lunghi tratti a piedi. In uno di questi, traversando le Ande, fu colpito da una polmonite e un’insolazione e venne curato (più esattamente: “si curò”) ospitato nella capanna di una famiglia indigena.
Dopo questo viaggio egli decise di impegnarsi a tempo pieno in America Latina, stabilendosi a Cuernavaca in Messico, dove fondò il CIF (Centro di informazione interculturale), trasformato un paio d’anni dopo in CIDOC, che divenne per una decina d’anni luogo di incontro e di scambio di una parte consistente dell’intellettualità critica mondiale. Così Illich costruiva e verificava il suo “sapere”.
A questo suo duplice aspetto, di uomo di cultura raffinata che, dopo il CIDOC, alternava 6 mesi di seminari in prestigiose università del mondo con 6 mesi nella sua casa di adobe (mattoni di fango) in un piccolo villaggio messicano, uno dei suoi grandi amici e discepoli, Jean Robert ha dedicato un intero capitolo del recente libro L’età dei sistemi.[2] Frequentatore di molteplici mondi culturali, capace di parlare sette o otto lingue, dotato di una memoria prodigiosa, la sua cultura spaziava in molti campi e il suo sguardo era capace di penetrare in profondità nelle tematiche che volta a volta affrontava.
Torniamo al testo Nemesi Medica e alle forme di iatrogenesi. Ventidue anni dopo, in una rilettura del libro, egli ne aggiunse una quarta, legata alla visione che nella società si era andato formando dello stesso corpo umano.
La iatrogenesi clinica
La iatrogenesi clinica è quella causata direttamente dai medicinali, dai medici e dagli ospedali. Quando Illich scrisse il libro, negli Stati Uniti la terza causa di morte, dopo le malattie cardiache e i tumori, era costituita dalle infezioni batteriche o fungine acquisite negli ospedali a causa della aumentata resistenza di queste entità agli antibiotici. Dati recenti (2018) parlano, per i soli Stati Uniti, di 75.000 decessi ogni anno per cause mediche e dicono anche che il 70% dei batteri presenti negli ospedali è diventato insensibile ai normali antibiotici.[3]
La iatrogenesi clinica ha diverse origini, che vanno dagli errori nelle diagnosi o nel corso di interventi chirurgici alle ricordate infezioni batteriche, come anche a medicinali intrinsecamente pericolosi erroneamente autorizzati dalle autorità sanitarie a ciò addette o erroneamente prescritti, o infine somministrati o auto-assunti scambiati per errore con quelli giusti. Un caso notevole, ma non unico, di immissione in commercio di un medicinale i cui pericolosi effetti secondari, non percepiti durante i test di approvazione e manifestatisi solo molto tempo dopo, fu quello del talidomide, un medicinale assunto come sedativo negli anni 50 dello scorso secolo, sui cui effetti rimando alla nota in calce.[4] L’elenco dei medicinali che dopo essere stati immessi in commercio sono stati ritirati per i loro effetti collaterali non emersi nei test di accettazione è straordinariamente lungo e ha causato non pochi danni.[5] Nella iatrogenesi clinica si devono anche includere gli interventi inutili sui quali Illich nota:
Una tecnologia impotente unita a retorici discorsi egualitari[6] ha creato l’impressione che la medicina contemporanea sia altamente efficace. Indubbiamente, nel corso dell’ultima generazione, un certo numero di trattamenti specifici si è dimostrato estremamente utile. Ma quelli che sono validi per malattie diffuse, dove non vengono monopolizzati dai professionisti come ferri esclusivi del loro mestiere hanno di solito un costo bassissimo e richiedono una quantità minima di materiali, di abilità personali e di servizi ospedalieri. Viceversa, la maggior parte delle vertiginose somme che oggi si spendono per la medicina è destinata a un tipo di diagnosi e cure la cui efficacia è, tutt’al più, dubbia.
Su questo punto, che ritengo della massima importanza, ritornerò, per due ragioni. La prima è che noi tendiamo a estendere all’intero mondo le modalità e le priorità della medicina occidentale, che a rigore riguarda, secondo la modalità di conteggio, 1 o al massimo 2 miliardi di persone su quasi 8 (oggi). Su questo riporterò anche come esempio una esperienza personale a mio parere significativa. La seconda, come Illich ben motiva più oltre nel libro, mentre la medicina di base è più o meno “democratica”, quella specialistica è spesso una medicina classista e non equa. Detto questo, non mi soffermerò oltre sul significato di questo primo livello di iatrogenesi perché le sue modalità mi sembrano assai comprensibili, anche se di fatto in genere tendiamo a rimuoverne il pensiero dalla nostra psiche per varie ragioni, principalmente forse quella di andare “contro” il sentire comune per il quale si assumono medicine e si va dal medico o all’ospedale “per guarire”. Per contro, è poco nota l’entità del fenomeno. Nella sola Toscana, la mia regione, si hanno in media 1600 domande di risarcimento all’anno per malasanità.[7] Per dare un ordine di grandezza relativamente all’Italia, sul sito di ANMDO, l’Associazione Nazionale dei Medici delle Direzioni Ospedaliere, si legge:
Tutti i medici possono sbagliare, anche nel nostro Paese. Quanto sbaglino e quanto sia diffuso questo problema, è ancora poco chiaro, soprattutto in Italia. Ecco comunque alcuni dati disponibili, ricavati dalla rivista “Rischio sanità” del giugno 2001. Nel nostro Paese, ogni anno, sono circa 8 milioni le persone che vengono ricoverate. Di queste, 320 mila (il 4% circa) escono dall’ospedale riportando danni e malattie dovuti ad errori nelle cure o a disservizi ospedalieri. Le morti oscillano tra 50 mila – nelle stime più pessimistiche riportate nella rivista edita da Assinform – e 14 mila nelle valutazioni più ottimistiche dell’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri italiani. La verità probabilmente è proprio nel mezzo, in una cifra compresa tra le 30 e le 35 mila unità.
Un’osservazione interessante che accenno appena, non potendo inseguire qui tutti gli stimoli che il libro offre, riguarda il fatto che “La mala pratica ha assunto un carattere anonimo, quasi rispettabile”:
Ciò che una volta era considerato un abuso di fiducia e una colpa morale ora può essere razionalizzato come una fortuita disfunzione dell’apparecchiatura e dei suoi operatori. Nella complessa tecnologia di un ospedale, la negligenza diventa “casuale errore umano” o “avaria del sistema“, l’insensibilità “distacco scientifico” e l’imperizia “mancanza di attrezzature specializzate“. La spersonalizzazione della diagnosi e della terapia ha cambiato la mala pratica da problema etico in problema tecnico.
Per chiudere l’argomento, osserviamo che nel caso della iatrogenesi clinica ovviamente non è applicabile il ragionamento della controproduttività. Non esiste un limite oltre il quale essa possa essere considerata malevola: essa lo è sempre, quale che sia la sua misura, e l’ideale sarebbe l’errore zero. I suoi effetti possono e devono essere ridotti per quanto possibile, cosa che richiede migliore formazione dei medici e procedure più cautelative e quindi un aumento dei costi relativi, per cui in pratica si scende a compromessi il più ragionevolmente possibile fra riduzione dei casi e aumento degli oneri finanziari. Quale sia questo compromesso è tema di discussione nella quale qui non entriamo.
Il secondo livello di iatrogenesi è quella sociale ma per il momento lo rinvio per fare un balzo in avanti nelle argomentazioni di Illich e affrontare quella che a me pare la critica più seria, di natura “politica” (“amministrazione della polis”), che Illich fa alla medicina, critica che nell’ordine del libro viene affrontata dopo la iatrogenesi sociale e quella culturale. Essa consiste nella funzione mediatrice assunta dalla medicina nel rendere accettabile alla gente le sofferenze maggiori che sono quelle inflitte dal sistema industriale, e quindi del capitalismo che ne è il principale promotore, naturalizzando e occultando le cause di queste. Qui mi pare che le motivazioni di Illich non possano né essere riassunte né tagliate e pertanto le riporto per intero:
Le società industriali avanzate hanno tutto l’interesse a salvaguardare la legittimità epistemologica delle entità morbose. Finché la malattia è qualcosa che si impossessa degli uomini, qualcosa che questi “prendono” o da cui son “colti” le vittime di questo processo naturale possono essere esentate da ogni responsabilità per la loro condizione. Possono essere compatite, non incolpate, per il modo querulo, abietto o sprovveduto con cui soffrono la loro realtà soggettiva; possono tramutarsi in un capitale duttile e lucroso se accettano supinamente la loro malattia perché “così vanno le cose”; e possono essere scaricate di ogni responsabilità politica per la mano che danno ad accrescere lo stress patogeno dell’industria superintensiva. Una società industriale avanzata genera malati perché rende gli uomini incapaci di controllare il proprio ambiente e, quando essi crollano, sostituisce una protesi “cinica” alle relazioni spezzate. Contro un simile ambiente gli uomini si ribellerebbero se la medicina non spiegasse il loro scombussolamento biologico come un difetto della loro salute, invece che come un difetto del modo di vivere che viene loro imposto o che essi impongono a se stessi. L’assicurazione di personale innocenza politica che la diagnosi offre al paziente serve come una mascherina igienica che giustifica un’ulteriore asservimento alla produzione e al consumo.
La diagnosi medica di entità morbose a sé stanti che prenderebbero forma nel corpo dell’individuo è un mezzo surrettizio e amorale di gettare la colpa sulla vittima. Il medico, che fa anche lui parte della classe dominante, stabilisce che è l’individuo a non sapersi adattare a un ambiente costruito e amministrato da altri professionisti, anziché accusare i suoi colleghi di creare ambienti ai quali l’organismo umano non può adattarsi. L’entità-malattia si può quindi considerare come la materializzazione di un mito politicamente conveniente, che assume sostanza nel corpo dell’individuo quando questo corpo si ribella alle richieste che gli vengono fatte dalla società industriale.
Si può tagliare qualcosa a questo deciso atto di accusa, senza menomare il pensiero di Illich? In coscienza, mi pare di no. Lo si dovrà giustificare meglio. Ed è ciò che tenteremo di fare nelle prossime note. Già il riassumere e condensare gli argomenti di un libro denso di ragionamenti, di dati, di note e rimandi mi sembra un po’ un tradimento del pensiero dell’autore.
A questo proposito una critica alla realizzazione del libro, più che all’autore, vorrei farla: la mancanza di un indice analitico che permetta di collegare più velocemente le diverse pagine del libro in cui uno stesso tema viene ripreso e sviscerato da prospettive diverse. Sto cominciando a farlo in modo molto artigianale per esigenze pratiche di una lettura più organica. integrandovi, sempre in maniera improvvisata, anche riferimenti ad altri suoi libri dove alcuni degli stessi temi vengono magari sviscerati più a fondo. Per facilitare un approfondimento a più ampio raggio occorrerebbe anche costruire un piccolo dizionario del significato di alcuni termini come “Monopolio radicale”, “Povertà moderna” e simili che rientrano nel linguaggio di questo come di altri libri di Illich. Mi risulta che uno studioso italiano di Illich si è dedicato a questo vocabolario seriamente, senza però ad oggi renderlo pubblico. Seguirà, questa volta a breve, un’analisi della iatrogenesi sociale, rendendo così più comprensibile l’attacco di Illich alla medicina, senza mai dimenticare la regola della controproduttività, cioè del superamento dei limiti.
Aldo Zanchetta
10 Novembre 2020
comune.info
(continua)
Note parte Prima
[1] Qui, anche quando non lo espliciterò, la parola medicina è sempre riferita alla medicina occidentale moderna. Per chi desiderasse avere una breve panoramica su alcune storiche pratiche mediche non occidentali tuttora vive, indico come una delle possibile lettura il libro Percorsi di guarigione. La cura nelle diverse tradizioni del mondo (a cura di A. Chieregatti). Collana Interculture di Mutus Liber, Riola (BO), 2014.
[2] Illich I., Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Mondadori, Milano, 1976, Il libro è stato riedito con lo stesso titolo da Red Edizioni nel 2013.
[3] Fra quelle lette cito per acutezza e per il legame con l’attuale situazione, quella dello scrittore Raffaele Alberto Ventura, La società iatrogena, not.neroeditions.com › la-societa-iatrogena.
[4] Illich scrisse con esperti di vari settori un libro collettaneo, poco conosciuto, dal titolo Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti (Erickson, Gardolo (TN), 2008.
[5] Illich riconosce di dovere molto su questo argomento a Leopold Khor, in gioventù suo collega di insegnamento universitario a Portorico, il quale ha scritto pagine profonde sull’analisi dimensionale, in Urbanistica come in Politica e in altri campi. Lo slogan “Piccolo è bello” ha avuto successo in seguito alla pubblicazione del libro “Piccolo è bello” scritto da E.F. Schumacher, un allievo di Kohr (1973)
Note Parte seconda
[1] Illich era un sacerdote cattolico, atipico senz’altro ma non uno “spretato” come molti pensano, ne tantomeno un bigotto. Dopo un conflitto avvenuto all’epoca del CIDOC con l’allora Santo Uffizio, spalleggiata dalla CIA, dal quale uscì a testa alta, chiese e ottenne di essere esonerato dal ministero sacerdotale attivo e praticò il “silenzio apofatico”. L’apofatismo è una pratica teologica secondo la quale la comprensione della natura di Dio non può essere espressa a parole. Venne praticato da Illich in modo personale, silenziandosi su questioni religiose tenendo rigorosamente distinta la sua opera di studioso dalla propria fede. Anche su questo, come già sul tema della sua malattia, molte pseudo biografie circolanti sono disinformanti. Naturalmente questo suo essere un “cura” (prete) tenne lontane da lui molte persone. In proposito ho avuto due testimonianze personali di due noti marxisti messicani che rimpiangevano di avere a lungo rifiutato di conoscerlo e di leggerlo perché, una volta rotta la barriera, dissero che Illich aveva apportato loro molto nella stessa comprensione del marxismo. Gustavo Esteva alla Scuola della Terra (Unitierra) un anno gestì un seminario assai frequentato sul tema “Illich e Marx”, cosa che dispiacque a molti marxisti come a molti illichiani.
[2] Robert J., L’età dei sistemi nel pensiero dell’ultimo Illich, Mutus Liber, Riola (BO), 2019, pp.51-74.
[3] Allarme OMS. Vedi ad es. Resistenza agli antibiotici: l’Oms chiede impegno per arginare… ilfattoalimentare.it › Pianeta, 16 nov. 2018
[4] La talidomide era un farmaco molto diffuso negli anni cinquanta e sessanta come sedativo e anti-nausea, rivolto in particolar modo alle donne incinte. Diffuso con vari nomi in oltre 50 paesi, esso venne ritirato dal commercio alla fine del 1961, a causa della scoperta della sua teratogenicità che causava neonati con assenza degli arti o loro lunghezza ridotta (focomelia).
[5] In questo periodo di euforia per gli annunciati vaccini anticovid-19 non sarebbe male ricordare i vari casi spiacevoli occorsi con i vaccini profusi con “generosità” in India e in Africa dalla Fondazione Bill&Melinda Gates, componente rilevante del sistema medico mondiale.
[6] Sull’espressione “retorica ugualitaria” verrebbe da inarcare le ciglia ma essa apparirà chiara appena motivata.
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